Thursday 30 September 2021

Thursday Serial: "Le Avventure di Pinocchio" by Carlo Collodi (in Italian) - IX

 XXXI.

Dopo cinque mesi di cuccagna, Pinocchio, con sua gran maraviglia, sente spuntarsi un bel pajo d’orecchie asinine, e diventa un ciuchino, con la coda e tutto.

 

Finalmente il carro arrivò: e arrivò senza fare il più piccolo rumore, perchè le sue ruote erano fasciate di stoppa e di cenci.

Lo tiravano dodici pariglie di ciuchini, tutti della medesima grandezza, ma di diverso pelame.

Alcuni erano bigi, altri bianchi, altri brizzolati a uso pepe e sale, e altri rigati da grandi strisce gialle e turchine.

Ma la cosa più singolare era questa: che quelle dodici pariglie, ossia quei ventiquattro ciuchini, invece di esser ferrati come tutte le altre bestie da tiro o da soma, avevano ai piedi degli stivaletti da uomo di vacchetta bianca.

E il conduttore del carro?...

Figuratevi un omino più largo che lungo, tenero e untuoso come una palla di burro, con un visino di melarosa, una bocchina che rideva sempre e una voce sottile e carezzevole, come quella d’un gatto, che si raccomanda al buon cuore della padrona di casa.

Tutti i ragazzi, appena lo vedevano, ne restavano innamorati e facevano a gara nel montare sul suo carro, per essere condotti da lui in quella vera cuccagna conosciuta nella carta geografica col seducente nome di «Paese de’ balocchi.»

Difatti il carro era già tutto pieno di ragazzetti fra gli otto e i dodici anni, ammonticchiati gli uni sugli altri come tante acciughe nella salamoia. Stavano male, stavano pigiati, non potevano quasi respirare: ma nessuno diceva ohi! nessuno si lamentava. La consolazione di sapere che fra poche ore sarebbero giunti in un paese, dove non c’erano nè libri, nè scuole, nè maestri, li rendeva così contenti e rassegnati, che non sentivano nè i disagi, nè gli strapazzi, nè la fame, nè la sete, nè il sonno.

Appena che il carro si fu fermato, l’omino si volse a Lucignolo, e con mille smorfie e mille manierine, gli domandò sorridendo:

— Dimmi, mio bel ragazzo, vuoi venire anche tu, in quel fortunato paese?

— Sicuro, che ci voglio venire!

— Ma ti avverto, carino mio, che nel carro non c’è più posto. Come vedi, è tutto pieno!...

— Pazienza! — replicò Lucignolo — se non c’è posto dentro, mi adatterò a star seduto sulle stanghe del carro. —

E spiccato un salto montò a cavalcioni sulle stanghe.

— E tu, amor mio, — disse l’omino volgendosi tutto complimentoso a Pinocchio — che intendi fare? Vieni con noi o rimani?…

— Io rimango — rispose Pinocchio. — Io voglio tornarmene a casa mia: voglio studiare e voglio farmi onore alla scuola, come fanno tutti i ragazzi perbene.

— Buon pro ti faccia!

— Pinocchio, — disse allora Lucignolo. — Da’ retta a me: vieni con noi, e staremo allegri!

— No, no, no!

— Vieni con noi e staremo allegri — gridarono altre quattro voci di dentro al carro.

— Vieni con noi e staremo allegri — urlarono tutte insieme un centinaio di voci.

— E se vengo con voi, che cosa dirà la mia buona Fata? — disse il burattino, che cominciava a intenerirsi e a ciurlar nel manico.

— Non ti fasciare il capo con tante melanconie. Pensa che andiamo in un paese dove saremo padroni di fare il chiasso dalla mattina alla sera! —

Pinocchio non rispose, ma fece un sospiro: poi fece un altro sospiro: poi un terzo sospiro: finalmente disse:

— Fatemi un po’ di posto: voglio venire anch’io!…

— I posti son tutti pieni; — replicò l’omino, — ma per mostrarti quanto sei gradito, posso cederti il mio posto a cassetta....

— E voi?...

— E io farò la strada a piedi.

— No davvero, che non lo permetto. Preferisco piuttosto di salire in groppa a qualcuno di questi ciuchini! — gridò Pinocchio.

Detto fatto, si avvicinò al ciuchino manritto della prima pariglia, e fece l’atto di volerlo cavalcare: ma la bestiola, voltandosi a secco, gli dètte una gran musata nello stomaco e lo gettò a gambe all’aria.

Figuratevi la risatona impertinente e sgangherata di tutti quei ragazzi presenti alla scena.

Ma l’omino non rise. Si accostò pieno di amorevolezza al ciuchino ribelle, e, facendo finta di dargli un bacio, gli staccò con un morso la metà dell’orecchio destro.

Intanto Pinocchio, rizzatosi da terra tutto infuriato, schizzò con un salto sulla groppa di quel povero animale. E il salto fu così bello, che i ragazzi, smesso di ridere, cominciarono a urlare: viva Pinocchio! e a fare una smanacciata di applausi, che non finivano più.

Quand’ecco che all’improvviso il ciuchino alzò tutte e due le gambe di dietro, e dando una fortissima sgropponata, scaraventò il povero burattino in mezzo alla strada, sopra un monte di ghiaia.

Allora grandi risate daccapo: ma l’omino, invece di ridere, si sentì preso da tanto amore per quell’irrequieto asinello che, con un bacio, gli portò via di netto la metà di quell’altro orecchio. Poi disse al burattino:

— Rimonta pure a cavallo, e non aver paura. Quel ciuchino aveva qualche grillo per il capo: ma io gli ho detto due paroline negli orecchi, e spero di averlo reso mansueto e ragionevole. —

Pinocchio montò: e il carro cominciò a muoversi: ma nel tempo che i ciuchini galoppavano e che il carro correva sui ciottoli della via maestra, gli parve al burattino di sentire una voce sommessa e appena intelligibile, che gli disse:

— Povero gonzo! Hai voluto fare a modo tuo, ma te ne pentirai! —

Pinocchio, quasi impaurito, guardò di qua e di là, per conoscere da qual parte venissero queste parole; ma non vide nessuno: i ciuchini galoppavano, il carro correva, i ragazzi dentro al carro dormivano, Lucignolo russava come un ghiro e l’omino seduto a cassetta canterellava fra i denti:

 

Tutti la notte dormono

E io non dormo mai....

 

Fatto un altro mezzo chilometro, Pinocchio sentì la vocina fioca che gli disse:

— Tienlo a mente, grullerello! I ragazzi che smettono di studiare e voltano le spalle ai libri, alle scuole e ai maestri, per darsi interamente ai balocchi e ai divertimenti, non possono far altro che una fine disgraziata!... Io lo so per prova!... e te lo posso dire! Verrà un giorno che piangerai anche tu, come oggi piango io.... ma allora sarà tardi!... —

A queste parole bisbigliate sommessamente, il burattino, spaventato più che mai, saltò giù dalla groppa della cavalcatura, e andò a prendere il suo ciuchino per il muso.

E immaginatevi come restò, quando s’accòrse che il suo ciuchino piangeva.... e piangeva proprio come un ragazzo!

— Ehi, signor omino, — gridò allora Pinocchio al padrone del carro — sapete che cosa c’è di nuovo? Questo ciuchino piange.

— Lascialo piangere: riderà quando sarà sposo.

— Ma che forse gli avete insegnato anche a parlare?

— No: ha imparato da sè a borbottare qualche parola, essendo stato tre anni in una compagnia di cani ammaestrati.

— Povera bestia!...

— Via, via.... — disse l’omino — non perdiamo il nostro tempo a veder piangere un ciuco. Rimonta a cavallo, e andiamo: la nottata è fresca e la strada è lunga. —

Pinocchio obbedì senza rifiatare. Il carro riprese la sua corsa: e la mattina sul far dell’alba arrivarono felicemente nel «Paese dei balocchi.»

Questo paese non somigliava a nessun altro paese del mondo. La sua popolazione era tutta composta di ragazzi. I più vecchi avevano 14 anni: i più giovani ne avevano 8 appena. Nelle strade, un’allegria, un chiasso, uno strillìo da levar di cervello! Branchi di monelli da per tutto: chi giocava alle noci, chi alle piastrelle, chi alla palla, chi andava in velocipede, chi sopra a un cavallino di legno: questi facevano a mosca-cieca, quegli altri si rincorrevano: altri, vestiti da pagliacci, mangiavano la stoppa accesa: chi recitava, chi cantava, chi faceva i salti mortali, chi si divertiva a camminare colle mani in terra e colle gambe in aria: chi mandava il cerchio, chi passeggiava vestito da generale coll’elmo di foglio e lo squadrone di cartapesta: chi rideva, chi urlava, chi chiamava, chi batteva le mani, chi fischiava, chi rifaceva il verso alla gallina quando ha fatto l’ovo: insomma un tal pandemonio, un tal passeraio, un tal baccano indiavolato, da doversi mettere il cotone negli orecchi per non rimanere assorditi. Su tutte le piazze si vedevano teatrini di tela, affollati di ragazzi dalla mattina alla sera, e su tutti i muri delle case si leggevano scritte col carbone delle bellissime cose come queste: viva i balocci! (invece di balocchi): non voglamo più schole (invece di non vogliamo più scuole): abbasso Larin Metica (invece di l’aritmetica) e altri fiori consimili.

Pinocchio, Lucignolo e tutti gli altri ragazzi, che avevano fatto il viaggio coll’omino, appena ebbero messo il piede dentro la città, si ficcarono subito in mezzo alla gran baraonda, e in pochi minuti, com’è facile immaginarselo, diventarono gli amici di tutti. Chi più felice, chi più contento di loro?

In mezzo ai continui spassi e agli svariati divertimenti, le ore, i giorni, le settimane, passavano come tanti baleni.

— Oh! che bella vita! — diceva Pinocchio tutte le volte che per caso s’imbatteva in Lucignolo.

— Vedi, dunque, se avevo ragione? — ripigliava quest’ultimo. — E dire che tu non volevi partire! E pensare che t’eri messo in capo di tornartene a casa dalla tua Fata, per perdere il tempo a studiare!... Se oggi ti sei liberato dalla noia dei libri e delle scuole, lo devi a me, ai miei consigli, alle mie premure, ne convieni? Non vi sono che i veri amici, che sappiano rendere di questi grandi favori.

— È vero, Lucignolo! Se oggi io sono un ragazzo veramente contento, è tutto merito tuo. E il maestro, invece, sai che cosa mi diceva, parlando di te? Mi diceva sempre: «Non praticare quella birba di Lucignolo, perchè Lucignolo è un cattivo compagno e non può consigliarti altro che a far del male!...»

— Povero maestro! — replicò l’altro tentennando il capo. — Lo so pur troppo che mi aveva a noia, e che si divertiva sempre a calunniarmi; ma io sono generoso e gli perdono!

— Anima grande! — disse Pinocchio abbracciando affettuosamente l’amico, e dandogli un bacio in mezzo agli occhi.

Intanto era già da cinque mesi che durava questa bella cuccagna di baloccarsi e di divertirsi le giornate intere, senza mai vedere in faccia nè un libro, nè una scuola; quando una mattina Pinocchio, svegliandosi, ebbe, come si suol dire, una gran brutta sorpresa, che lo messe proprio di malumore.

 

 

XXXII.

A Pinocchio gli vengono gli orecchi di ciuco, e poi diventa un ciuchino vero e comincia a ragliare.

 

— E questa sorpresa quale fu?

— Ve lo dirò io, miei cari e piccoli lettori: la sorpresa fu che a Pinocchio, svegliandosi, gli venne fatto naturalmente di grattarsi il capo; e nel grattarsi il capo si accòrse....

Indovinate un po’ di che cosa si accòrse?

Si accòrse con suo grandissimo stupore, che gli orecchi gli erano cresciuti più d’un palmo.

Voi sapete che il burattino, fin dalla nascita, aveva gli orecchi piccini piccini: tanto piccini che, a occhio nudo, non si vedevano neppure! Immaginatevi dunque come restò, quando dovè toccar con mano che i suoi orecchi, durante la notte, erano così allungati, che parevano due spazzole di padule.

Andò subito in cerca di uno specchio, per potersi vedere: ma non trovando uno specchio, empì d’acqua la catinella del lavamano, e specchiandovisi dentro, vide quel che non avrebbe mai voluto vedere: vide, cioè, la sua immagine abbellita di un magnifico paio di orecchi asinini.

Lascio pensare a voi il dolore, la vergogna e la disperazione del povero Pinocchio!

Cominciò a piangere, a strillare, a battere la testa nel muro: ma quanto più si disperava, e più i suoi orecchi crescevano, crescevano, crescevano e diventavano pelosi verso la cima.

Al rumore di quelle grida acutissime, entrò nella stanza una bella Marmottina, che abitava il piano di sopra: la quale, vedendo il burattino in così grandi smanie, gli domandò premurosamente:

— Che cos’hai, mio caro casigliano?

— Sono malato, Marmottina mia, molto malato.... e malato d’una malattia che mi fa paura! te ne intendi tu del polso?

— Un pochino.

— Senti dunque se per caso avessi la febbre. —

La Marmottina alzò la zampa destra davanti: e dopo aver tastato il polso a Pinocchio, gli disse sospirando:

— Amico mio, mi dispiace doverti dare una cattiva notizia!...

— Cioè?

— Tu hai una gran brutta febbre!

— E che febbre sarebbe?

 

— È la febbre del somaro.

 

— Non la capisco questa febbre! — rispose il burattino, che l’aveva pur troppo capita.

 

— Allora te la spiegherò io — soggiunse la Marmottina. — Sappi dunque che fra due o tre ore tu non sarai più nè un burattino, nè un ragazzo....

 

— E che cosa sarò?

 

— Fra due o tre ore, tu diventerai un ciuchino vero e proprio, come quelli che tirano il carretto e che portano i cavoli e l’insalata al mercato.

 

— Oh! povero me! povero me! — gridò Pinocchio pigliandosi con le mani tutt’e due gli orecchi, e tirandoli e strappandoli rabbiosamente, come se fossero gli orecchi di un altro.

 

— Caro mio, — replicò la Marmottina per consolarlo — che cosa ci vuoi tu fare? Oramai è destino, oramai è scritto nei decreti della sapienza, che tutti quei ragazzi svogliati che, pigliando a noia i libri, le scuole e i maestri, passano le loro giornate in balocchi, in giochi e in divertimenti, debbano finire prima o poi col trasformarsi in tanti piccoli somari.

— Ma davvero è proprio così? — domandò singhiozzando il burattino.

— Pur troppo è così! E ora i pianti sono inutili. Bisognava pensarci prima!

— Ma la colpa non è mia: la colpa, credilo, Marmottina, è tutta di Lucignolo!...

— E chi è questo Lucignolo?

— Un mio compagno di scuola. Io volevo tornare a casa: io volevo essere ubbidiente: io volevo seguitare a studiare e a farmi onore.... ma Lucignolo mi disse: — «Perchè vuoi tu annoiarti a studiare? perchè vuoi andare alla scuola?... Vieni piuttosto con me, nel Paese dei balocchi: lì non studieremo più; lì ci divertiremo dalla mattina alla sera e staremo sempre allegri.»

— E perchè seguisti il consiglio di quel falso amico, di quel cattivo compagno?

— Perchè?... perchè, Marmottina mia, io sono un burattino senza giudizio.... e senza cuore. Oh! se avessi avuto un zinzino di cuore, non avrei mai abbandonata quella buona Fata, che mi voleva bene come una mamma e che aveva fatto tanto per me!... e a quest’ora non sarei più un burattino.... ma sarei invece un ragazzino ammodo, come ce n’è tanti! Oh!... ma se incontro Lucignolo, guai a lui! Gliene voglio dire un sacco e una sporta. —

E fece l’atto di volere uscire. Ma quando fu sulla porta, si ricordò che aveva gli orecchi d’asino, e vergognandosi di mostrarli in pubblico, che cosa inventò?

Preso un gran berretto di cotone, e, ficcatoselo in testa, se lo ingozzò fin sotto la punta del naso.

Poi uscì: e si dette a cercare Lucignolo da per tutto. Lo cercò nelle strade, nelle piazze, nei teatrini, in ogni luogo: ma non lo trovò. Ne chiese notizia a quanti incontrò per la via, ma nessuno l’aveva veduto.

Allora andò a cercarlo a casa: e arrivato alla porta, bussò.

— Chi è? — domandò Lucignolo di dentro.

— Sono io! — rispose il burattino.

— Aspetta un poco, e ti aprirò. —

Dopo mezz’ora la porta si aprì: e figuratevi come restò Pinocchio quando, entrando nella stanza, vide il suo amico Lucignolo con un gran berretto di cotone in testa, che gli scendeva fin sotto il naso.

Alla vista di quel berretto, Pinocchio sentì quasi consolarsi e pensò subito dentro di sè:

— Che l’amico sia malato della mia medesima malattia? Che abbia anche lui la febbre del ciuchino?... —

E facendo finta di non essersi accorto di nulla, gli domandò sorridendo:

— Come stai, mio caro Lucignolo?

— Benissimo: come un topo in una forma di cacio parmigiano.

— Lo dici proprio sul serio?

— E perchè dovrei dirti una bugia?

— Scusami, amico: e allora perchè tieni in capo cotesto berretto di cotone, che ti cuopre tutti gli orecchi?

— Me l’ha ordinato il medico, perchè mi son fatto male a un ginocchio. E tu, caro Pinocchio, perchè porti codesto berretto di cotone ingozzato fin sotto il naso?

— Me l’ha ordinato il medico, perchè mi sono sbucciato un piede.

— Oh! povero Pinocchio!...

— Oh! povero Lucignolo!...

A queste parole tenne dietro un lunghissimo silenzio, durante il quale i due amici non fecero altro che guardarsi fra loro in atto di canzonatura.

Finalmente il burattino, con una vocina melliflua e flautata, disse al suo compagno:

— Levami una curiosità, mio caro Lucignolo: hai mai sofferto di malattia agli orecchi?

— Mai!... e tu?

— Mai! Per altro da questa mattina in poi ho un orecchio che mi fa spasimare.

— Ho lo stesso male anch’io.

— Anche tu?... E qual è l’orecchio che ti duole?

— Tutti e due. E tu?

— Tutti e due. Che sia la medesima malattia?

— Ho paura di sì.

— Vuoi farmi un piacere, Lucignolo?

— Volentieri! Con tutto il cuore.

— Mi fai vedere i tuoi orecchi?

— Perchè no? Ma prima voglio vedere i tuoi, caro Pinocchio.

— No: il primo devi esser tu.

— No, carino! Prima tu e dopo io!

— Ebbene, — disse allora il burattino — facciamo un patto da buoni amici.

— Sentiamo il patto.

— Leviamoci tutti e due il berretto nello stesso tempo: accetti?

— Accetto.

— Dunque attenti! —

E Pinocchio cominciò a contare a voce alta:

— Uno! Due! Tre! —

Alla parola tre! i due ragazzi presero i loro berretti di capo e li gettarono in aria.

E allora avvenne una scena, che parrebbe incredibile, se non fosse vera. Avvenne, cioè, che Pinocchio e Lucignolo, quando si videro colpiti tutti e due dalla medesima disgrazia, invece di restar mortificati e dolenti, cominciarono ad ammiccarsi i loro orecchi smisuratamente cresciuti, e dopo mille sguaiataggini finirono col dare una bella risata.

E risero, risero, risero da doversi reggere il corpo: se non che, sul più bello del ridere, Lucignolo tutt’a un tratto si chetò, e barcollando e cambiando di colore, disse all’amico:

— Aiuto, aiuto, Pinocchio!

— Che cos’hai?

— Ohimè! non mi riesce più di star ritto sulle gambe.

— Non mi riesce più neanche a me — gridò Pinocchio, piangendo e traballando.

E mentre dicevano così, si piegarono tutti e due carponi a terra e, camminando colle mani e coi piedi, cominciarono a girare e a correre per la stanza. E intanto che correvano, i loro bracci diventarono zampe, i loro visi si allungarono e diventarono musi, e le loro schiene si coprirono di un pelame grigiolino chiaro brizzolato di nero.

Ma il momento più brutto per que’ due sciagurati sapete quando fu? Il momento più brutto e più umiliante fu quello quando sentirono spuntarsi di dietro la coda. Vinti allora dalla vergogna e dal dolore, si provarono a piangere e a lamentarsi del loro destino.

Non l’avessero mai fatto! Invece di gemiti e di lamenti, mandavano fuori dei ragli asinini; e ragliando sonoramente, facevano tutti e due in coro: j-a, j-a, j-a.

In quel frattempo fu bussato alla porta, e una voce di fuori disse:

— Aprite! Sono l’omino, sono il conduttore del carro che vi portò in questo paese. Aprite subito, guai a voi! —

 

 

XXXIII.

Diventato un ciuchino vero è portato a vendere, e lo compra il Direttore di una compagnia di pagliacci, per insegnargli a ballare e saltare i cerchi: ma una sera azzoppisce e allora lo ricompra un altro, per far con la sua pelle un tamburo.

 

Vedendo che la porta non si apriva, l’omino la spalancò con un violentissimo calcio: ed entrato nella stanza, disse col suo solito risolino a Pinocchio e a Lucignolo:

— Bravi ragazzi! Avete ragliato bene, e io vi ho subito riconosciuti alla voce. E per questo eccomi qui. —

A tali parole i due ciuchini rimasero mogi mogi, colla testa giù, con gli orecchi bassi e con la coda fra le gambe.

Da principio l’omino li lisciò, li accarezzò, li palpeggiò: poi, tirata fuori la striglia, cominciò a strigliarli per bene.

E quando a furia di strigliarli, li ebbe fatti lustri come due specchi, allora messe loro la cavezza e li condusse sulla piazza del mercato, con la speranza di venderli e di beccarsi un discreto guadagno.

E i compratori difatti non si fecero aspettare.

Lucignolo fu comprato da un contadino, a cui era morto il somaro il giorno avanti, e Pinocchio fu venduto al Direttore di una compagnia di pagliacci e di saltatori di corda, il quale lo comprò per ammaestrarlo e per farlo poi saltare e ballare insieme con le altre bestie della compagnia.

E ora avete capito, miei piccoli lettori, qual era il bel mestiere che faceva l’omino? Questo brutto mostriciattolo, che aveva la fisionomia tutta di latte e miele, andava di tanto in tanto con un carro a girare per il mondo: strada facendo raccoglieva con promesse e con moine tutti i ragazzi svogliati, che avevano a noia i libri e le scuole: e dopo averli caricati sul suo carro, li conduceva nel «Paese dei balocchi» perchè passassero tutto il loro tempo in giochi, in chiassate e in divertimenti. Quando poi quei poveri ragazzi illusi, a furia di baloccarsi sempre e di non studiar mai, diventavano tanti ciuchini, allora tutto allegro e contento s’impadroniva di loro e li portava a vendere sulle fiere e sui mercati. E così in pochi anni aveva fatto fior di quattrini ed era diventato milionario.

Quel che accadesse di Lucignolo, non lo so: so per altro, che Pinocchio andò incontro fin dai primi giorni a una vita durissima e strapazzata.

Quando fu condotto nella stalla, il nuovo padrone gli empì la greppia di paglia: ma Pinocchio dopo averne assaggiata una boccata, la risputò.

Allora il padrone, brontolando, gli empì la greppia di fieno: ma neppure il fieno gli piacque.

— Ah! non ti piace neppure il fieno? — gridò il padrone imbizzito. — Lascia fare, ciuchino bello, che se hai dei capricci per il capo, penserò io a levarteli!... —

E a titolo di correzione, gli affibbiò subito una frustata nelle gambe.

Pinocchio, dal gran dolore, cominciò a piangere e a ragliare, e ragliando, disse:

— J-a, j-a, la paglia non la posso digerire!...

— Allora mangia il fieno! — replicò il padrone, che intendeva benissimo il dialetto asinino.

— J-a, j-a, il fieno mi fa dolere il corpo!...

— Pretenderesti, dunque, che un somaro par tuo, lo dovessi mantenere a petti di pollo e cappone in galantina? — soggiunse il padrone arrabbiandosi sempre più e affibbiandogli una seconda frustata.

A quella seconda frustata Pinocchio, per prudenza, si chetò subito, e non disse altro.

Intanto la stalla fu chiusa e Pinocchio rimase solo: e perchè erano molte ore che non aveva mangiato, cominciò a sbadigliare dal grande appetito. E, sbadigliando, spalancava una bocca che pareva un forno.

 

Alla fine non trovando altro nella greppia, si rassegnò a masticare un po’ di fieno; e dopo averlo masticato ben bene, chiuse gli occhi e lo tirò giù.

— Questo fieno non è cattivo — poi disse dentro di sè — ma quanto sarebbe stato meglio che avessi continuato a studiare!... A quest’ora, invece di fieno, potrei mangiare un cantuccio di pan fresco e una bella fetta di salame! Pazienza!... —

La mattina dopo, svegliandosi, cercò subito nella greppia un altro po’ di fieno: ma non lo trovò, perchè l’aveva mangiato tutto nella notte.

Allora prese una boccata di paglia tritata: e in quel mentre che la stava masticando, si dovè persuadere che il sapore della paglia tritata non somigliava punto nè al risotto alla milanese nè ai maccheroni alla napoletana.

— Pazienza! — ripetè, continuando a masticare. — Che almeno la mia disgrazia possa servire di lezione a tutti i ragazzi disobbedienti e che non hanno voglia di studiare. Pazienza!... pazienza!...

— Pazienza un corno! — urlò il padrone, entrando in quel momento nella stalla. — Credi forse, mio bel ciuchino, ch’io ti abbia comprato unicamente per darti da bere e da mangiare? Io ti ho comprato perchè tu lavori e perchè tu mi faccia guadagnare molti quattrini. Su, dunque, da bravo! Vieni con me nel Circo e là ti insegnerò a saltare i cerchi, a rompere col capo le botti di foglio e a ballare il valzer e la polca, stando ritto sulle gambe di dietro. —

Il povero Pinocchio, per amore o per forza, dovè imparare tutte queste bellissime cose; ma, per impararle, gli ci vollero tre mesi di lezioni, e molte frustate da levare il pelo.

Venne finalmente il giorno, in cui il suo padrone potè annunziare uno spettacolo veramente straordinario. I cartelloni di vario colore, attaccati alle cantonate delle strade, dicevano così:

 

Quella sera, come potete figurarvelo, un’ora prima che cominciasse lo spettacolo, il teatro era pieno stipato.

 

Non si trovava più nè una poltrona, nè un posto distinto, nè un palco, nemmeno a pagarlo a peso d’oro.

Le gradinate del Circo formicolavano di bambini, di bambine e di ragazzi di tutte le età, che avevano la febbre addosso per la smania di veder ballare il famoso ciuchino Pinocchio.

Finita la prima parte dello spettacolo, il Direttore della compagnia, vestito in giubba nera, calzoni bianchi a coscia e stivaloni di pelle fin sopra ai ginocchi, si presentò all’affollatissimo pubblico e, fatto un grande inchino, recitò con molta solennità il seguente spropositato discorso:

«Rispettabile pubblico, cavalieri e dame!

«L’umile sottoscritto essendo di passaggio per questa illustre metropolitana, ho voluto procrearmi l’onore nonchè il piacere di presentare a questo intelligente e cospicuo uditorio un celebre ciuchino, che ebbe già l’onore di ballare al cospetto di sua maestà l’imperatore di tutte le principali corti d’Europa.

«E col ringraziandoli, aiutateci della vostra animatrice presenza e compatiteci!»

Questo discorso fu accolto da molte risate e da molti applausi; ma gli applausi raddoppiarono e diventarono una specie di uragano alla comparsa del ciuchino Pinocchio in mezzo al Circo. Egli era tutto agghindato a festa. Aveva una briglia nuova di pelle lustra, con fibbie e borchie d’ottone; due camelie bianche agli orecchi: la criniera divisa in tanti riccioli legati con fiocchettini di seta rossa: una gran fascia d’oro e d’argento attraverso alla vita, e la coda tutta intrecciata con nastri di velluto paonazzo e celeste. Era insomma un ciuchino da innamorare!

Il Direttore, nel presentarlo al pubblico, aggiunse queste parole:

— «Miei rispettabili auditori! Non starò qui a farvi menzogna delle grandi difficoltà da me soppressate per comprendere e soggiogare questo mammifero, mentre pascolava liberamente di montagna in montagna nelle pianure della zona torrida. Osservate, vi prego, quanta selvaggina trasudi da’ suoi occhi, conciossiachè essendo riusciti vanitosi tutti i mezzi per addomesticarlo al vivere dei quadrupedi civili, ho dovuto più volte ricorrere all’affabile dialetto della frusta. Ma ogni mia gentilezza invece di farmi da lui benvolere, me ne ha maggiormente cattivato l’animo. Io però, seguendo il sistema di Galles, trovai nel suo cranio una piccola cartagine ossea che la stessa Facoltà medicea di Parigi riconobbe esser quello il bulbo rigeneratore dei capelli e della danza pirrica. E per questo io lo volli ammaestrare nel ballo nonchè nei relativi salti dei cerchi e delle botti foderate di foglio. Ammiratelo, e poi giudicatelo! Prima però di prendere cognato da voi, permettete, o signori, che io v’inviti al diurno spettacolo di domani sera: ma nell’apoteosi che il tempo piovoso minacciasse acqua, allora lo spettacolo, invece di domani sera, sarà posticipato a domattina, alle ore 11 antimeridiane del pomeriggio.»

E qui il Direttore fece un’altra profondissima riverenza: quindi volgendosi a Pinocchio, gli disse:

— Animo, Pinocchio! Avanti di dar principio ai vostri esercizi, salutate questo rispettabile pubblico, cavalieri, dame e ragazzi! —

Pinocchio ubbidiente piegò subito i due ginocchi davanti, e rimase inginocchiato fino a tanto che il Direttore, schioccando la frusta, non gli gridò:

— Al passo! —

Allora il ciuchino si rizzò sulle quattro gambe, e comminciò a girare intorno al Circo, camminando sempre di passo.

Dopo un poco il Direttore gridò:

— Al trotto! — E Pinocchio, ubbidiente al comando, cambiò il passo in trotto.

— Al galoppo! — e Pinocchio staccò il galoppo.

— Alla carriera! — e Pinocchio si dètte a correre di gran carriera. Ma in quella che correva come un barbero, il Direttore, alzando il braccio in aria, scaricò un colpo di pistola.

A quel colpo il ciuchino, fingendosi ferito, cadde disteso nel Circo, come se fosse moribondo davvero.

Rizzatosi da terra in mezzo a uno scoppio di applausi, d’urli e di battimani, che andavano alle stelle, gli venne fatto naturalmente di alzare la testa e di guardare in su.... e guardando, vide in un palco una bella signora, che aveva al collo una grossa collana d’oro, dalla quale pendeva un medaglione. Nel medaglione c’era dipinto il ritratto d’un burattino.

— Quel ritratto è il mio!... quella signora è la Fata! — disse dentro di sè Pinocchio, riconoscendola subito: e lasciandosi vincere dalla gran contentezza, si provò a gridare:

— Oh Fatina mia! oh Fatina mia! —

Ma invece di queste parole, gli uscì dalla gola un raglio così sonoro e prolungato, che fece ridere tutti gli spettatori, e segnatamente tutti i ragazzi che erano in teatro.

Allora il Direttore, per insegnargli e per fargli intendere che non è buona creanza mettersi a ragliare in faccia al pubblico, gli diè col manico della frusta una bacchettata sul naso.

Il povero ciuchino tirato fuori un palmo di lingua, durò a leccarsi il naso almeno cinque minuti, credendo forse così di rasciugarsi il dolore che aveva sentito.

Ma quale fu la sua disperazione quando, voltandosi in su una seconda volta, vide che il palco era vuoto e che la Fata era sparita!...

Si sentì come morire: gli occhi gli si empirono di lacrime e cominciò a piangere dirottamente. Nessuno però se ne accòrse, e, meno degli altri, il Direttore, il quale, anzi, schioccando la frusta, gridò:

— Da bravo, Pinocchio! Ora farete vedere a questi signori con quanta grazia sapete saltare i cerchi. —

Pinocchio si provò due o tre volte: ma ogni volta che arrivava davanti al cerchio, invece di attraversarlo, ci passava più comodamente di sotto. Alla fine spiccò un salto e l’attraversò: ma le gambe di dietro gli rimasero disgraziatamente impigliate nel cerchio: motivo per cui ricadde in terra dall’altra parte tutto in un fascio.

Quando si rizzò, era azzoppito, e a mala pena potè ritornare alla scuderia.

— Fuori Pinocchio! Vogliamo il ciuchino! Fuori il ciuchino! — gridavano i ragazzi dalla platea, impietositi e commossi al tristissimo caso.

Ma il ciuchino per quella sera non si fece più rivedere.

La mattina dopo il veterinario, ossia il medico delle bestie, quando l’ebbe visitato, dichiarò che sarebbe rimasto zoppo per tutta la vita.

Allora il Direttore disse al suo garzone di stalla:

— Che vuoi tu che mi faccia d’un somaro zoppo? Sarebbe un mangiapane a ufo. Portalo dunque in piazza e rivendilo. Arrivati in piazza, trovarono subito il compratore, il quale domandò al garzone di stalla:

— Quanto vuoi di cotesto ciuchino zoppo?

— Venti lire.

— Io ti do venti soldi. Non credere che io lo compri per servirmene: lo compro unicamente per la sua pelle. Vedo che ha la pelle molto dura, e con la sua pelle voglio fare un tamburo per la banda musicale del mio paese. —

Lascio pensare a voi, ragazzi, il bel piacere che fu per il povero Pinocchio, quando sentì che era destinato a diventare un tamburo!

Fatto sta che il compratore, appena pagati i venti soldi, condusse il ciuchino sulla riva del mare! e messogli un sasso al collo e legatolo per una zampa con una fune che teneva in mano, gli diè improvvisamente uno spintone e lo gettò nell’acqua.

Pinocchio, con quel macigno al collo, andò subito a fondo; e il compratore, tenendo sempre stretta in mano la fune, si pose a sedere sullo scoglio, aspettando che il ciuchino avesse tutto il tempo di morire affogato, per poi scorticarlo e levargli la pelle.

Wednesday 29 September 2021

Good Reading: "The Dog and the Cook" by Aesop (translated into English)

 A rich man gave a great feast, to which he invited many friends and acquaintances. His Dog availed himself of the occasion to invite a stranger Dog, a friend of his, saying, "My master gives a feast, and there is always much food remaining; come and sup with me tonight." The Dog thus invited went at the hour appointed, and seeing the preparations for so grand an entertainment, said in the joy of his heart, "How glad I am that I came! I do not often get such a chance as this. I will take care and eat enough to last me both today and tomorrow." While he was congratulating himself and wagging his tail to convey his pleasure to his friend, the Cook saw him moving about among his dishes and, seizing him by his fore and hind paws, bundled him without ceremony out of the window. He fell with force upon the ground and limped away, howling dreadfully. His yelling soon attracted other street dogs, who came up to him and inquired how he had enjoyed his supper. He replied, "Why, to tell you the truth, I drank so much wine that I remember nothing.  I do not know how I got out of the house." 

Tuesday 28 September 2021

Tuesday's Serial: "Turbilhão" by Coelho Neto (in Portuguese) - X

 Capítulo XIII

Dona Júlia não se pôde levantar na manhã seguinte.

Quando Paulo entrou no quarto para vê-la, achou-a a chorar.

— Que tem, mamãe?

— Nada. Deixa-me. Também não possa chorar?

— Mas isso faz-lhe mal. O médico recomendou a maior calma.

— Ora, o médico... O médico sabe lá o que eu tenho. Não hei de chorar. Ver minha filha assim... Eu mesma não sei que é que você pensa, rapaz. Ninguém era mais severo, agora só porque ela anda de carro, coberta de jóias, já você não se importa. Pois eu não. Preferia... - calou-se recalcando a frase que lhe subira do coração e ficou um momento de olhos perdidos, arfando.

— Que hei de eu fazer? Só se a senhora quer que eu lhe feche a porta. Se quer...

Ela não respondeu.

— Fiz o que fiz porque a senhora vivia chorando por ela. Eu devia ter ficado quieto. É assim: nunca o que faço agrada. Eu é que sou tolo.

— Paulo, pelo amor de Deus! deixa-me. Não me amofines mais. Se soubesses como tenho este pobre coração não vivias a torturar-me. Hás de sentir mais tarde, deixa estar. Velha assim mesmo e doente, como estou, sempre sirvo para alguma coisa. Deixe estar.

Felícia pôs-se a vociferar na cozinha, atirando panelas.

— Olha, vai lá ver aquela rapariga.

Paulo saiu a conter a negra. Quando ela deu com ele aprumou-se hostilmente, com os olhos muito brilhantes, parados. Ele receou repreendê-la. Chamou-a com mansidão procurando acalmá-la:

— Então, velha? que barulho é este?

A negra avançou e curvando-se, com o braço hirto, como a mostrar alguma coisa ao longe, rouquejou:

— Está ouvindo? Então não é assim? Vosmecê pensa que o mar não conta? vá lá na praia escutar. Eu estou aqui, estou ouvindo. Que é que ele fez? Mode quê? Uma voltou, outro não volta. Mode quê? Ela é melhor? não é. Eu também sou mãe. Quem manda está lá em cima.

Saiu precipitadamente ao quintal, o braço erguido para o céu luminoso.

— Ele há de vir também.

— Pois sim, mas é preciso que fiques quieta, que cuides do serviço como dantes. Deus não gosta de gente má.

— Má... Quem é que é má?

Resmungou uma obscenidade e foi encostar-se ao fogão, ainda apagado.

— Má. Eu sou mãe como sua mãe! - gritou com fúria frenética fitando nele os olhos lampejantes.

— Sim senhor. Mãe como sua mãe.

Paulo deixou-a e a negra ficou a bradar esmurrando as paredes. Dona Júlia chamou-o:

— Olha, meu filho, o melhor é despedires essa rapariga. Vê se arranjas alguém que fique comigo porque eu até tenho medo que ela me faça alguma coisa, no estado em que está.

— Mas como hei de sair? Quem ficará com a senhora?

— Vai e leva a chave. Eu fico só. Não te demores.

Ele hesitou:

— Para fazê-la sair só se eu chamar uma praça.

— Prendê-la? Isso não, coitada! Olha, manda-a cá. - Soergueu-se e chamou: Felícia!

A negra respondeu do fundo da cozinha:

— Nhora!

— Vem cá.

Ela apareceu à porta do quarto com as roupas em frangalhos, o colo seco descoberto, as magras pernas à mostra.

— Chega aqui.

A negra adiantou-se humilde, arrepanhando os andrajos.

— Eu estou doente, não me posso levantar. Se não queres tomar conta da serviço dize porque eu faço um sacrifício e vou assim mesmo para a cozinha.

Rapidamente a negra levou as mãos aos olhos e, atirando-se de joelhos junto à cama, rompeu a chorar.

— Que foi que eu fiz, sinhá? Que foi que eu fiz? Eu não estou quieta no meu serviço? Por que é que vão mexer comigo? Eu não faço mal a ninguém... Coitada de mim!

— Mas ninguém mexeu contigo. Tu é que andas a fazer criançadas, não tens pena de mim que sou tão tua amiga.

— Então eu não quero bem a vosmecê?

— Não parece.

— Eu já abandonei vosmecê?

— Não; mas agora não pareces a mesma Felícia.

— É, vosmecê fala assim... Quem ouvir há de pensar que eu sou exigente, que peço mundos e fundos. Que é que eu peço? Porque falo com meu filho? Então não sou mãe?

Levantou-se de salto, escancarou a porta do quarto, mostrou a cozinha:

— Ele vai para lá, fica comigo, eu converso com ele. Que é que tem? faz mal? Vosmecê não fica até tarde esperando nhonhô? Nhá Violante não esteve ontem aqui? Então eu não vejo? Eu estou calada, estou quieta, mas vejo tudo. Vosmecê é mãe, eu também sou. A dor que vosmecê sentiu eu também senti. O leite é da mesma cor: por ser preta não sinto menos, sinhá.

Ficou a encará-la, com uma expressão dolorosa no rosto escaveirada; e concluiu:

— Mãe é uma só. Eu vou fazer o meu serviço, mas não bulam comigo que eu não bulo com ninguém.

Deu alguns passos e retrocedeu:

— Vosmecê olhe e há de ver; eu vou para o meu serviço, daqui a pouco a cozinha está cheia. Não me deixam fazer nada. Vosmecê fique olhando.

E, arrepanhando as molambos, foi-se. Depois dum silêncio Dona Júlia murmurou:

— É tudo, meu Deus! Uma rapariga tão boa...! Eu é que sou a infeliz. Chego, às vezes, a pensar que espalho desgraças. É o meu caiporismo. Até parece coisa feita. Enfim, há de ser o que Deus quiser.

Vendo o filho encostado à cômoda, pensativo, disse-lhe:

— Vai, tens que fazer. Não te prendas por minha causa.

— E a senhora?

— Não te incomodes comigo.

Ele ainda hesitou. Ela insistiu:

— Vai.

— Então eu vou, porque tenho mesmo que fazer e volto cedo.

— Pois sim. Fecha a porta e leva a chave.

— E se vier alguém?

— Quem vem aqui?

— Quer alguma coisa lá de baixo?

— Não.

— Então até já.

Sentia necessidade de ar, de movimento. A casa, cada vez mais triste, sempre a ecoar esconjuros e lamentações da louca, tornava-se-lhe insuportável. A mãe, por outro lado, a suspirar, a chorar no quarto alumiado dia e noite pela lamparina devota. Vestiu-se e saiu, fechando a porta e levando a chave.

Ia à aventura, sem destino. Foi caminhando vagarosamente, preocupado com o estado da velha.

"Achava-a mal... e só, com a louca... Enfim, como contava voltar cedo... Onde poderia encontrar uma criada?" Seguia pensando, sem dar pelo caminho. De repente lembrou-se de Ritinha. Súbito calor aqueceu-lhe o sangue reavivando desejos. Se fosse vê-la? Talvez que ela lhe pudesse inculcar alguém, conhecia tantas raparigas. Era uma idéia. Estugou o passo e no Largo da Lapa tomou um tílburi, mandando tocar para a estalagem.

Ao chegar à casinha de Mamede ficou surpreendido vendo a porta e a janela fechadas e já se decidia a voltar, quando, da cerca da casa contígua, uma mulheraça, em mangas de camisa, com grandes peitos derramados sobre o ventre cheio, disse-lhe chuchando os dentes:

— Bata. Tem gente.

Ele agradeceu, atravessou o jardinete e bateu à porta. Falaram dentro, ele reconheceu a voz da mulata.

— Sou eu, Paulo.

— Responderam? perguntou a mulher.

— Sim, senhora. Obrigado.

A parta entreabriu-se e Ritinha, reconhecendo-o, não teve sequer um sorriso. Ele entrou e, na meia escuridão da sala, exclamou espantado:

— Que é isto? Tudo fechado. Por quê?

Ela deu d'ombros, amuada.

— Que é dele?

— Quem?

— Mamede.

— Sei lá!

Sentou-se aborrecida.

— Houve alguma coisa entre vocês?

— Sei lá!

— Brigas, ciumadas; aposto.

— Ciumadas. Eu é que vou procurar a minha vida. Estou farta de aturar grosserias e de passar vergonhas. Quem não pode com o tempo não inventa modas. Aquilo é lá homem?! Não se importa com a casa - se tem dinheiro é pro jogo, se não tem, mete-se aqui bebendo, resmungando desaforos e eu que me vire em comida. O senhorio não sai aí da porta e, volta e meia, são cobradores batendo, com atrevimento. E ele? Há três dias que não aparece. Estão dizendo que foi preso numa casa de jogo. Não sei.

— E você agora?

— Eu vou por aí. De fome é que não hei de morrer.

Depois dum silêncio Paulo aproximou a sua cadeira e, tomando a mão da mulata, voltou à proposta antiga.

— Bem podias estar livre de tudo isto. Não queres...

— O quê?

— Sair comigo.

Ela baixou a cabeça, calada.

— Não queres viver em cômodos. Pois vem morar comigo.

— Com o senhor? Que é isso?! E sua mãe?

— Que tem? Mamãe é uma criatura excelente, estou certa de que te hás de dar muito bem com ela. Só depende de ti.

— Mas então sua mãe vai recebendo assim uma pessoa que não conhece? que nunca viu?

— Que tem isso? Eu saí mesma para procurar alguém que a acompanhe. Ela está de cama, muito mal. Tu aqui trabalhas como uma moura, para quê? Vais lá para casa, eu tomo uma criada, só tens que dirigir o serviço.

— Mas... para viver com o senhor?

— Então?

A mulata ficou pensativa. Ele insistiu:

— Decide.

— Não sei. Isso assim de repente... Sei lá!

Ele acentuou:

— Olha, vamos fazer uma coisa. Eu vou agora para casa, digo a mamãe que tu, a companheira de Mamede, te ofereceste para fazer-lhe companhia. Ela aceita, estou certa, porque a rapariga que nos servia ficou maluca e temos de despedi-la; eu venho buscar-te ou tu vais, à noite, e, depois de lá estares, o mais arranja-se.

Ela ouvia, escabichando as unhas.

— Mas então eu vou como criada?

— Não, filha; vais como pessoa de amizade, fazer um favor. Amanhã mesmo eu tomo uma criada e ficas como dona da casa, porque mamãe está de cama e creio que, infelizmente, não se levanta mais.

— Está assim?

— Perdida!

— De quê!

— Coração.

Houve um silêncio. Paulo fitava-a, acariciando-lhe a mão.

— A questão é sair daqui.

— Por causa dos trastes?

— Os trastes são dele; mas a minha roupa, o que é meu. O senhorio, com certeza, não me deixa tirar. Mamede está devendo tanto!

— Isso é simples: vais ao senhorio, dizes que retiras apenas o que é teu, dás-lhe algum dinheiro, se ele exigir.

— Era bom que eu tivesse!...

— Tenho eu. Quanto queres?

— Sei lá!

— Chegam cem mil-réis?

— Acho que sim.

— Pois toma.

Deu-lhe o dinheiro escolhendo vagarosamente no maço, entre as notas grandes, duas de cinqüenta.

— E agora é tratar de arrumar as coisas e sair. Já devias ter feito isto. Mamede é um bom rapaz, mas não te serve. Levantou-se.

— Bem, vou para casa; deixei mamãe só. E olha que fico à tua espera. Vê lá. Não vás fazer alguma.

Ela respondeu, sem levantar os olhos:

— Já disse que vou.

— A que horas?

— À noitinha.

— Pois bem. Então até logo. E se precisas de mais alguma coisa...?

— Não.

Frente a frente encararam-se; ela sorriu e, num movimento repentino, atirou-lhe os braços ao pescoço, ofereceu-lhe a boca, cerrando as olhos lânguidos.

Entrando em casa, Paulo foi direito ao quarto da mãe, bateu de leve na vidraça da porta.

— Quem é?

— Eu, mamãe.

— Entra.

O ar morno, denso, cheirava a alfazema. A lamparina ardia tristemente diante das imagens. Ele sentou-se à beira da cama:

— Então? Como vai?

— Assim...

— Pus a anúncio. Felícia não veio cá?

— Andou aí pela sala mexendo, resmungando.

— E a senhora comeu alguma coisa?

— Não tenho fome.

— Mas precisa comer.

Depois duma pausa anunciou:

— A companheira de Mamede vem ficar aqui, com a senhora.

— Quem é?

— A rapariga que vive com ele.

— Não quero.

— Por quê?

— Não quero.

— Mas se a lembrança partiu dele! Encontreio na rua, disse-lhe como a senhora está, falei de Felícia e ele imediatamente ofereceu a sua companheira para vir ficar aqui uns dias. Vamos que eu não arranje uma criada, quem há de cuidar da senhora, tratar da casa? Eu não posso, não havemos de pedir aos vizinhos. Felícia está como a senhora vê. Aceitei o oferecimento e a moça ficou de vir à noitinha. E agora que hei de eu dizer?

— Que tipo é?

— É uma pardinha. Vive com ele como se fosse casada. A senhora há de gostar dela.

— E cômodo? Onde vai dormir essa moça? Tem o quarto de Violante, mas cama, o mais?

— Eu cedo-lhe o meu quarto, é por dias. Armo a rede no quarto de Violante e está pronto. O que eu não quero é que a senhora fique aqui assim, com uma doida que nem para lhe trazer um copo d'água serve. Tudo se há de arranjar. Hoje, por exemplo, a senhora não imagina como andei na cidade, com um ror de coisas a fazer. Deixei tudo e vim para casa, a correr, com medo.

— Medo de quê?

— De quê? de Felícia. Assim, estando aqui uma pessoa de confiança, não me incomodo.

— E conheces bem essa moça?

— Conheço.

— E séria?

— Então, mamãe!

— Sim, porque eu quero respeito aqui em casa. Lá fora, tudo quanto quiseres; aqui não.

Paulo não achou uma palavra para responder, ficou como atordoado, olhando a enferma que continuava em resmungo, defendendo a seu lar como se houvesse adivinhado a intenção do filho.

— Bem sabes como sou. Se é uma pessoa honesta, muito bem; mas troças aqui, isso não!

— Que troças, mamãe. Então eu havia de meter em casa uma vagabunda?

— Não sei... Conheço Mamede: bom rapaz, bom rapaz, mas lá fora. Vem a mulher, amanhã é ele que se mete aqui. Não quero. Prefiro morrer sozinha. Deus me acompanhará.

— Ele não vem.

— Pois sim, faze lá o que quiseres, contanto que haja respeito aqui.

E ele, procurando desviar a palestra do assunto escabroso, perguntou:

— E Felícia? posso despedi-la?

— Sim, mas não a maltrates, tem pena dela. Enquanto teve juízo foi muita boa para todos nós, agora, coitada...!

— Descanse, mamãe.

Foi à cozinha. A negra não estava, procurou-a no quarto, chamando-a. Saiu ao quintal, lá a encontrou acocorada, cavando a terra. Chamou-a. A negra voltou-se de ímpeto e fitou nele as olhos que ardiam.

— Felícia, nós vamos sair. Mamãe está mal, precisa mudar de ares. Vamos para longe, não podemos levar-te. Tens aqui o teu dinheiro. Arranja o que é teu e procura casa onde fiques. Quando voltarmos irei buscar-te.

A negra ouvia com um sorriso estampado no rosto. Levantou-se, sacudiu as mãos e foi caminhando devagar para a cozinha. À porta, porém, deteve-se e, voltando-se impetuosamente, como se fosse responder com fúria, olhou-o serena e, de novo, o sorriso abriu-se-lhe no rosto macilento e fulo. Entrou e, diante do fogão, repentinamente tomada pelo delírio, apanhou as pontas do vestido roto, ergueu-a e pôs-se a sapatear, a voltear, cantarolando:

 

Vou-me embora! Vou-me embora.

É mentira, não vou, não...

 

Dobrou-se a rir, derreando-se sobre o fogão, e ali ficou na rinchavelhada insana, sem dar pelo rapaz que a contemplava, parado à porta. Vendo que ela não se decidia, Paulo chamou-a, enérgica:

— Então, Felícia!

— Uai!

Outra gargalhada ralou, sinistra.

— Uai! Vancê vá inda, eu vou depois.

— Não, hás de sair agora.

— Agora não, respondeu a louca com toda a calma, meneando com a cabeça. Agora não.

Sentou-se a um canto, espichou as pernas magras e pôs-se a raspar o soalho, sempre com a cabeça em movimento negativo.

— Meu filho não falou. Quando meu filho falar. Tudo tem seu tempo. Pois então? Vosmecê quer, ele não quer. Eu fico esperando. O mar está aí. Vá, vá, nhonhô. Não bula com quem não faz mal. Que é que eu estou fazendo? Vancê olhe - e, apontou o ângulo do teto, negro de fuligem: Ali é que ele mora.

Paulo começava a irritar-se. Avançou alguns passos e, violentamente, agarrando a negra por um braço, puxou-a, rasgando-lhe a camisa e, como não encontrasse resistência, numa raiva que crescia, que a inércia da louca parecia acirrar, esmurrou-a, atirou-lhe pontapés, e a miserável rolava, enrodilhava-se, com os braços pela cabeça, chorando humildemente. Dona Júlia, ouvindo a rumor, chamou o filho. Ele saiu, deixando a negra por terra, descomposta, gemendo.

— Que é? perguntou a velha assustada.

Ele respondeu ofegante:

— É demais! Também não se pode ter paciência de santo.

— Deste na pobrezinha, Paulo?

— Ah, não... Está uma fera. Não se lhe pode falar: assanha-se como uma víbora. Não estou para aturá-la. Louca, pois que vá para o Hospício.

A negra chorava alto, lamentando-se. Paulo quis voltar à cozinha.

— Deixa-a, pediu Dona Júlia. Não lhe batas, coitada! Não tem consciência do que faz. Deixa-a.

Ele deu uma volta pela sala e, lembrando-se de que a mãe nada havia comido até aquela hora, tomou o chapéu e, chegando-se à porta do quarto, disse:

— Eu vou a um hotel mandar vir alguma coisa. Até já.

E saiu resmungando.