XXVIII.
Pinocchio corre pericolo di essere fritto in padella, come un pesce.
Durante quella corsa disperata, vi fu un momento terribile, un momento in cui Pinocchio si credè perduto: perchè bisogna sapere che Alidoro (era questo il nome del can mastino) a furia di correre e correre, l’aveva quasi raggiunto.
Basti dire che il burattino sentiva dietro di sè, alla distanza d’un palmo, l’ansare affannoso di quella bestiaccia, e ne sentiva perfino la vampa calda delle fiatate.
Per buona fortuna la spiaggia era oramai vicina, e il mare si vedeva lì a pochi passi.
Appena fu sulla spiaggia, il burattino spiccò un bellissimo salto, come avrebbe potuto fare un ranocchio, e andò a cascare in mezzo all’acqua. Alidoro invece voleva fermarsi; ma trasportato dall’impeto della corsa, entrò nell’acqua anche lui. E quel disgraziato non sapeva nuotare; per cui cominciò subito ad annaspare colle zampe per reggersi a galla: ma più annaspava, e più andava col capo sott’acqua.
Quando ritornò a rimettere il capo fuori, il povero cane aveva gli occhi impauriti e stralunati, e, abbaiando gridava:
— Affogo! affogo!
— Crepa! — gli rispose Pinocchio da lontano, il quale si vedeva oramai sicuro da ogni pericolo.
— Aiutami, Pinocchio mio!... salvami dalla morte!... —
A quelle grida strazianti il burattino, che in fondo aveva un cuore eccellente, si mosse a compassione, e voltosi al cane, gli disse:
— Ma se io ti aiuto a salvarti, mi prometti di non darmi più noia e di non corrermi dietro?
— Te lo prometto! te lo prometto! Spicciati per carità, perchè se indugi un altro mezzo minuto, son bell’e morto. —
Pinocchio esitò un poco: ma poi ricordandosi che il suo babbo gli aveva detto tante volte che a fare una buona azione non ci si scapita mai, andò nuotando a raggiungere Alidoro, e, presolo per la coda con tutte e due le mani, lo portò sano e salvo sulla rena asciutta del lido.
Il povero cane non si reggeva più in piedi. Aveva bevuto, senza volerlo, tant’acqua salata, che era gonfiato come un pallone. Per altro il burattino, non volendo fare a fidarsi troppo, stimò cosa prudente di gettarsi novamente in mare; e allontanandosi dalla spiaggia, gridò all’amico salvato:
— Addio, Alidoro; fa’ buon viaggio, e tanti saluti a casa.
— Addio, Pinocchio, — rispose il cane; — mille grazie di avermi liberato dalla morte. Tu m’hai fatto un gran servizio: e in questo mondo quel che è fatto è reso. Se capita l’occasione ci riparleremo.... —
Pinocchio seguitò a nuotare, tenendosi sempre vicino alla terra. Finalmente gli parve di esser giunto in un luogo sicuro; e dando un’occhiata alla spiaggia, vide sugli scogli una specie di grotta, dalla quale usciva un lunghissimo pennacchio di fumo.
— In quella grotta — disse allora fra sè — ci deve essere del fuoco. Tanto meglio! Anderò a rasciugarmi e riscaldarmi, e poi?... e poi sarà quel che sarà. —
Presa questa risoluzione, si avvicinò alla scogliera; ma quando fu lì per arrampicarsi, sentì qualche cosa sotto l’acqua che saliva, saliva, saliva e lo portava per aria. Tentò subito di fuggire, ma oramai era tardi, perchè con sua grandissima maraviglia si trovò rinchiuso dentro una grossa rete in mezzo a un brulichìo di pesci d’ogni forma e grandezza, che scodinzolavano e si dibattevano come tante anime disperate.
E nel tempo stesso vide uscire dalla grotta un pescatore così brutto, ma tanto brutto, che pareva un mostro marino. Invece di capelli aveva sulla testa un cespuglio foltissimo di erba verde; verde era la pelle del suo corpo, verdi gli occhi, verde la barba lunghissima, che gli scendeva fin quaggiù. Pareva un grosso ramarro ritto sui piedi di dietro.
Quando il pescatore ebbe tirata fuori la rete dal mare, gridò tutto contento:
— Provvidenza benedetta! Anch’oggi potrò fare una bella scorpacciata di pesce!
— Manco male, che io non sono un pesce! — disse Pinocchio dentro di sè, ripigliando un po’ di coraggio.
La rete piena di pesci fu portata dentro la grotta, una grotta buia e affumicata, in mezzo alla quale friggeva una gran padella d’olio, che mandava un odorino di moccolaia, da mozzare il respiro.
— Ora vediamo un po’ che pesci abbiamo presi! — disse il pescatore verde; e ficcando nella rete una manona così spropositata, che pareva una pala da fornai, tirò fuori una manciata di triglie.
— Buone queste triglie! — disse, guardandole e annusandole con compiacenza. E dopo averle annusate, le scaraventò in una conca senz’acqua.
Poi ripetè più volte la solita operazione; e via via che cavava fuori gli altri pesci, sentiva venirsi l’acquolina in bocca e gongolando diceva:
— Buoni questi naselli!...
— Squisiti questi muggini!...
— Deliziose queste sogliole!...
— Prelibati questi ragnotti!...
— Carine queste acciughe col capo! —
Come potete immaginarvelo, i naselli, i muggini, le sogliole, i ragnotti e l’acciughe, andarono tutti alla rinfusa nella conca, a tener compagnia alle triglie.
L’ultimo che restò nella rete fu Pinocchio.
Appena il pescatore l’ebbe cavato fuori, sgranò dalla maraviglia i suoi occhioni verdi, gridando quasi impaurito:
— Che razza di pesce è questo? Dei pesci fatti a questo modo non mi ricordo di averne mangiati mai. —
E tornò a guardarlo attentamente, e dopo averlo guardato ben bene per ogni verso, finì col dire:
— Ho capito: dev’essere un granchio di mare.
Allora Pinocchio mortificato di sentirsi scambiare per un granchio, disse con accento risentito:
— Ma che granchio e non granchio? Guardi come lei mi tratta! Io, per sua regola, sono un burattino.
— Un burattino? — replicò il pescatore. — Dico la verità, il pesce burattino è per me un pesce nuovo! Meglio così! ti mangerò più volentieri.
— Mangiarmi? ma la vuol capire che io non sono un pesce? O non sente che parlo, e ragiono come lei?
— È verissimo; — soggiunse il pescatore — e siccome vedo che sei un pesce, che hai la fortuna di parlare e di ragionare come me, così voglio usarti anch’io i dovuti riguardi.
— E questi riguardi sarebbero?...
— In segno di amicizia e di stima particolare, lascerò a te la scelta del come vuoi esser cucinato. Desideri esser fritto in padella, oppure preferisci di esser cotto nel tegame colla salsa di pomidoro?
— A dir la verità, — rispose Pinocchio — se io debbo scegliere, preferisco piuttosto di esser lasciato libero, per potermene tornare a casa mia.
— Tu scherzi! Ti pare che io voglia perdere l’occasione di assaggiare un pesce così raro? Non capita mica tutti i giorni un pesce burattino in questi mari. Lascia fare a me: ti friggerò in padella assieme a tutti gli altri pesci, e te ne troverai contento. L’esser fritto in compagnia è sempre una consolazione. —
L’infelice Pinocchio, a quest’antifona, cominciò a piangere, a strillare, a raccomandarsi: e piangendo diceva: — Quant’era meglio, che fossi andato a scuola!... Ho voluto dar retta ai compagni, e ora la pago! Ih!... Ih!... Ih!... —
E perchè si divincolava come un’anguilla e faceva sforzi incredibili, per isgusciare dalle grinfie del pescatore verde, questi prese una bella buccia di giunco, e dopo averlo legato per le mani e per i piedi, come un salame, lo gettò in fondo alla conca cogli altri.
Poi, tirato fuori un vassoiaccio di legno, pieno di farina, si dètte a infarinare tutti quei pesci: e man mano che li aveva infarinati, li buttava a friggere dentro la padella.
I primi a ballare nell’olio bollente furono i poveri naselli: poi toccò ai ragnotti, poi ai muggini, poi alle sogliole e alle acciughe, e poi venne la volta di Pinocchio. Il quale, a vedersi così vicino alla morte (e che brutta morte!) fu preso da tanto tremito e da tanto spavento, che non aveva più nè voce nè fiato per raccomandarsi.
Il povero figliuolo si raccomandava cogli occhi! Ma il pescatore verde, senza badarlo neppure, lo avvoltò cinque o sei volte nella farina, infarinandolo così bene dal capo ai piedi, che pareva diventato un burattino di gesso.
Poi lo prese per il capo, e....
XXIX.
Ritorna a casa della Fata, la quale gli promette che il giorno dopo non sarà più un burattino, ma diventerà un ragazzo. Gran colazione di caffè-e-latte per festeggiare questo grande avvenimento.
Mentre il pescatore era proprio sul punto di buttar Pinocchio nella padella, entrò nella grotta un grosso cane condotto là dall’odore acutissimo e ghiotto della frittura.
— Passa via! — gli gridò il pescatore minacciandolo e tenendo sempre in mano il burattino infarinato.
Ma il povero cane aveva una fame per quattro, e mugolando e dimenando la coda, pareva che dicesse:
― Dammi un boccone di frittura e ti lascio in pace.
— Passa via, ti dico! — gli ripetè il pescatore; e allungò la gamba per tirargli una pedata.
Allora il cane che, quando aveva fame davvero, non era avvezzo a lasciarsi posar mosche sul naso, si rivoltò ringhioso al pescatore, mostrandogli le sue terribili zanne.
In quel mentre si udì nella grotta una vocina fioca fioca, che disse:
— Salvami, Alidoro! Se non mi salvi, son fritto!...
Il cane riconobbe subito la voce di Pinocchio, e si accòrse, con sua grandissima maraviglia, che la vocina era uscita da quel fagotto infarinato, che il pescatore teneva in mano.
Allora che cosa fa? Spicca un gran lancio da terra, abbocca quel fagotto infarinato, e tenendolo leggermente coi denti, esce correndo dalla grotta, e via come un baleno!
Il pescatore arrabbiatissimo di vedersi strappar di mano un pesce, che egli avrebbe mangiato tanto volentieri, si provò a rincorrere il cane; ma fatti pochi passi, gli venne un nodo di tosse e dovè tornarsene indietro.
Intanto Alidoro, ritrovata che ebbe la viottola che conduceva al paese, si fermò e posò delicatamente in terra l’amico Pinocchio.
— Quanto ti debbo ringraziare! — disse il burattino.
— Non c’è bisogno — replicò il cane — tu salvasti me, e quel che è fatto è reso. Si sa: in questo mondo bisogna tutti aiutarsi l’uno con l’altro.
— Ma come mai sei capitato in quella grotta?
— Ero sempre qui disteso sulla spiaggia più morto che vivo, quando il vento mi ha portato da lontano un odorino di frittura. Quell’odorino mi ha stuzzicato l’appetito, e io gli sono andato dietro. Se arrivavo un minuto più tardi!...
— Non me lo dire! — urlò Pinocchio che tremava ancora dalla paura. — Non me lo dire! Se tu arrivavi un minuto più tardi, a quest’ora io ero bell’e fritto, mangiato e digerito. Brrr! mi vengono i brividi soltanto a pensarvi!... —
Alidoro, ridendo, stese la zampa destra verso il burattino, il quale gliela strinse forte forte in segno di grande amicizia: e dopo si lasciarono.
Il cane riprese la strada di casa: e Pinocchio, rimasto solo, andò a una capanna lì poco distante, e domandò a un vecchietto che stava sulla porta a scaldarsi al sole:
— Dite, galantuomo, sapete nulla di un povero ragazzo ferito nel capo e che si chiamava Eugenio?
— Il ragazzo è stato portato da alcuni pescatori in questa capanna, e ora...
— Ora sarà morto!... — interruppe Pinocchio, con gran dolore.
— No: ora è vivo, ed è già ritornato a casa sua.
— Davvero?... davvero?... — gridò il burattino, saltando dall’allegrezza. — Dunque la ferita non era grave?...
— Ma poteva riuscire gravissima e anche mortale, — rispose il vecchietto — perchè gli tirarono nel capo un grosso libro rilegato in cartone.
— E chi glielo tirò?
— Un suo compagno di scuola: un certo Pinocchio....
— E chi è questo Pinocchio? — domandò il burattino facendo lo gnorri.
— Dicono che sia un ragazzaccio, un vagabondo, un vero rompicollo.
— Calunnie! Tutte calunnie!
— Lo conosci tu questo Pinocchio?
— Di vista! — rispose il burattino.
— E tu, che concetto ne hai? — gli chiese il vecchietto.
— A me mi pare un gran buon figliuolo, pieno di voglia di studiare, obbediente, affezionato al suo babbo e alla sua famiglia.... —
Mentre il burattino sfilava a faccia fresca tutte queste bugie, si toccò il naso e si accorse che il naso gli era allungato più di un palmo. Allora tutto impaurito cominciò a gridare:
— Non date retta, galantuomo, a tutto il bene che ve ne ho detto; perchè conosco benissimo Pinocchio e posso assicurarvi anch’io che è davvero un ragazzaccio, un disubbidiente e uno svogliato, e che invece di andare a scuola, va coi compagni a fare lo sbarazzino! —
Appena ebbe pronunziate queste parole, il suo naso raccorcì e tornò alla grandezza naturale, come era prima.
— E perchè sei tutto bianco a codesto modo? — gli domandò a un tratto il vecchietto.
— Vi dirò.... senza avvedermene, mi sono strofinato a un muro, che era imbiancato di fresco — rispose il burattino vergognandosi a raccontare che lo avevano infarinato come un pesce, per poi friggerlo in padella.
— O della tua giacchetta, de’ tuoi calzoncini e del tuo berretto, che cosa ne hai fatto?
— Ho incontrato i ladri e mi hanno spogliato. Dite, buon vecchio, non avreste per caso da darmi un po’ di vestituccio, tanto perchè io possa ritornare a casa?
— Ragazzo mio; in quanto a vestiti, io non ho che un piccolo sacchetto, dove ci tengo i lupini. Se lo vuoi, piglialo: eccolo là. — E Pinocchio non se lo fece dire due volte: prese subito il sacchetto dei lupini che era vuoto, e dopo averci fatto colle forbici una piccola buca nel fondo e due buche dalle parti, se lo infilò a uso camicia. E vestito leggerino a quel modo, si avviò verso il paese. Ma, lungo la strada, non si sentiva punto tranquillo; tant’è vero che faceva un passo avanti e uno indietro, e discorrendo da sè solo, andava dicendo:
— Come farò a presentarmi alla mia buona Fatina? Che dirà quando mi vedrà?... Vorrà perdonarmi questa seconda birichinata?... Scommetto che non me la perdona!... oh! non me la perdona di certo!... E mi sta il dovere: perchè io sono un monello che prometto sempre di correggermi, e non mantengo mai!...
Arrivò al paese che era già notte buia; e perchè faceva tempaccio e l’acqua veniva giù a catinelle, andò diritto diritto alla casa della Fata, coll’animo risoluto di bussare alla porta e di farsi aprire.
Ma quando fu lì, sentì mancarsi il coraggio, e invece di bussare, si allontanò, correndo, una ventina di passi. Poi tornò una seconda volta alla porta, e non concluse nulla: poi si avvicinò una terza volta e nulla: la quarta volta prese, tremando, il battente di ferro in mano e bussò un piccolo colpettino.
Aspetta, aspetta, finalmente dopo mezz’ora si aprì una finestra dell’ultimo piano (la casa era di quattro piani) e Pinocchio vide affacciarsi una grossa Lumaca, che aveva un lumicino acceso sul capo, la quale disse:
— Chi è a quest’ora?
— La Fata è in casa? — domandò il burattino.
— La Fata dorme e non vuol essere svegliata: ma tu chi sei?
— Sono io!
— Chi io?
— Pinocchio.
— Chi Pinocchio?
— Il burattino, quello che sta in casa colla Fata.
— Ah! ho capito; — disse la Lumaca — aspettami costì, che ora scendo giù e ti apro subito.
— Spicciatevi, per carità, perchè io muoio dal freddo.
— Ragazzo mio, io sono una Lumaca, e le Lumache non hanno mai fretta. —
— Intanto passò un’ora, ne passarono due, e la porta non si apriva: per cui Pinocchio, che tremava dal freddo, dalla paura e dall’acqua che aveva addosso, si fece cuore e bussò una seconda volta, e bussò più forte.
A quel secondo colpo si aprì una finestra del piano di sotto e si affacciò la solita Lumaca.
— Lumachina bella, — gridò Pinocchio dalla strada, — sono due ore che aspetto! E due ore a questa serataccia, diventano più lunghe di due anni. Spicciatevi, per carità.
— Ragazzo mio, — gli rispose dalla finestra quella bestiuola tutta pace e tutta flemma — ragazzo mio, io sono una Lumaca, e le Lumache non hanno mai fretta. —
E la finestra si richiuse.
Di lì a poco suonò la mezzanotte: poi il tocco, poi le due dopo mezzanotte, e la porta era sempre chiusa.
Allora Pinocchio, perduta la pazienza, afferrò con rabbia il battente della porta per bussare un gran colpo da far rintronare tutto il casamento; ma il battente che era di ferro, diventò a un tratto un’anguilla viva, che sgusciandogli dalle mani sparì in un rigagnolo d’acqua, che scorreva in mezzo alla strada.
— Ah! sì? — gridò Pinocchio sempre più accecato dalla collera. — Se il battente è sparito, io seguiterò a bussare a furia di calci. —
E tiratosi un poco indietro, lasciò andare una solennissima pedata nell’uscio della casa. Il colpo fu così forte, che il piede penetrò nel legno fino a mezzo: e quando il burattino si provò a ricavarlo fuori, fu tutta fatica inutile: perchè il piede c’era rimasto conficcato dentro, come un chiodo ribadito.
Figuratevi il povero Pinocchio! Dovè passare tutto il resto della notte con un piede in terra e con quell’altro per aria.
La mattina, sul far del giorno, finalmente la porta si aprì. Quella brava bestiòla della Lumaca, a scendere dal quarto piano fino all’uscio di strada, ci aveva messo solamente nove ore. Bisogna proprio dire che avesse fatto una sudata.
— Che cosa fate con codesto piede conficcato nell’uscio? — domandò ridendo al burattino.
— È stata una disgrazia. Vedete un po’, Lumachina bella, se vi riesce di liberarmi da questo supplizio.
— Ragazzo mio, costì ci vuole un legnaiolo, e io non ho mai fatto la legnaiola.
— Pregate la Fata da parte mia!...
— La Fata dorme e non vuol essere svegliata.
— Ma che cosa volete che io faccia, inchiodato tutto il giorno a questa porta?
— Divertiti a contare le formicole che passano per la strada.
— Portatemi almeno qualche cosa da mangiare, perchè mi sento rifinito.
— Subito! — disse la Lumaca.
Difatti dopo tre ore e mezzo, Pinocchio la vide tornare con un vassoio d’argento in capo. Nel vassoio c’era un pane, un pollastro arrosto e quattro albicocche mature.
— Ecco la colazione che vi manda la Fata — disse la Lumaca.
Alla vista di quella grazia di Dio, il burattino sentì consolarsi tutto. Ma quale fu il suo disinganno, quando incominciando a mangiare, si dovè accorgere che il pane era di gesso, il pollastro di cartone e le quattro albicocche di alabastro, colorite, come se fossero vere.
Voleva piangere, voleva darsi alla disperazione, voleva buttar via il vassoio e quel che c’era dentro; ma invece, o fosse il gran dolore o la gran languidezza di stomaco, fatto sta che cadde svenuto.
Quando si riebbe, si trovò disteso sopra un sofà, e la Fata era accanto a lui.
— Anche per questa volta ti perdono — gli disse la Fata — ma guai a te, se me ne fai un’altra delle tue!... —
Pinocchio promise e giurò che avrebbe studiato, e che si sarebbe condotto sempre bene. E mantenne la parola per tutto il resto dell’anno. Difatti agli esami delle vacanze, ebbe l’onore di essere il più bravo della scuola; e i suoi portamenti, in generale, furono giudicati così lodevoli e soddisfacenti, che la Fata, tutta contenta, gli disse:
— Domani finalmente il tuo desiderio sarà appagato!
— Cioè?
— Domani finirai di essere un burattino di legno, e diventerai un ragazzo per bene. —
Chi non ha veduto la gioia di Pinocchio, a questa notizia tanto sospirata, non potrà mai figurarsela. Tutti i suoi amici e compagni di scuola dovevano essere invitati per il giorno dopo a una gran colazione in casa della Fata, per festeggiare insieme il grande avvenimento: e la Fata aveva fatto preparare dugento tazze di caffè-e-latte e quattrocento panini imburrati di dentro e di fuori. Quella giornata prometteva di riuscire molto bella e molto allegra: ma....
Disgraziatamente, nella vita dei burattini, c’è sempre un ma, che sciupa ogni cosa.
XXX.
Pinocchio, invece di diventare un ragazzo, parte di nascosto col suo amico Lucignolo per il «Paese dei balocchi.»
Com’è naturale, Pinocchio chiese subito alla Fata il permesso di andare in giro per la città a fare gl’inviti: e la Fata gli disse:
— Va’ pure a invitare i tuoi compagni per la colazione di domani: ma ricordati di tornare a casa prima che faccia notte. Hai capito?
— Fra un’ora prometto di essere bell’e ritornato — replicò il burattino.
— Bada, Pinocchio! I ragazzi fanno presto a promettere, ma il più delle volte, fanno tardi a mantenere.
— Ma io non sono come gli altri: io, quando dico una cosa, la mantengo.
— Vedremo. Caso poi tu disubbidissi, tanto peggio per te.
— Perchè?
— Perchè i ragazzi che non dànno retta ai consigli di chi ne sa più di loro, vanno sempre incontro a qualche disgrazia.
— E io l’ho provato! — disse Pinocchio. — Ma ora non ci ricasco più!
— Vedremo se dici il vero.—
Senza aggiungere altre parole, il burattino salutò la sua buona Fata, che era per lui una specie di mamma, e cantando e ballando uscì fuori dalla porta di casa.
In poco più d’un’ora, tutti i suoi amici furono invitati. Alcuni accettarono subito e di gran cuore: altri, da principio, si fecero un po’ pregare: ma quando seppero che i panini da inzuppare nel caffè-e-latte sarebbero stati imburrati anche dalla parte di fuori, finirono tutti col dire: — «Verremo anche noi, per farti piacere.»
Ora bisogna sapere che Pinocchio, fra i suoi amici e compagni di scuola, ne aveva uno prediletto e carissimo, il quale si chiamava di nome Romeo: ma tutti lo chiamavano col soprannome di Lucignolo, per via del suo personalino asciutto, secco e allampanato, tale e quale come il lucignolo nuovo di un lumino da notte.
Lucignolo era il ragazzo più svogliato e più birichino di tutta la scuola: ma Pinocchio gli voleva un gran bene. Difatti andò subito a cercarlo a casa, per invitarlo alla colazione, e non lo trovò: tornò una seconda volta, e Lucignolo non c’era: tornò una terza volta, e fece la strada invano.
Dove poterlo ripescare? Cerca di qua, cerca di là, finalmente lo vide nascosto sotto il portico di una casa di contadini.
— Che cosa fai costì? — gli domandò Pinocchio, avanzandosi.
— Aspetto la mezzanotte, per partire....
— Dove vai?
— Lontano, lontano, lontano!
— E io che son venuto a cercarti a casa tre volte!...
— Che cosa volevi da me?
— Non sai il grande avvenimento? Non sai la fortuna che mi è toccata?
— Quale?
— Domani finisco di essere un burattino e divento un ragazzo come te, e come tutti gli altri.
— Buon pro ti faccia.
— Domani dunque ti aspetto a colazione a casa mia.
— Ma se ti dico che parto questa sera.
— A che ora?
— Fra poco.
— E dove vai?
— Vado ad abitare in un paese.... che è il più bel paese di questo mondo: una vera cuccagna!...
— E come si chiama?
— Si chiama il «Paese dei balocchi.» Perchè non vieni anche tu?
— Io? no davvero!
— Hai torto, Pinocchio! Credilo a me, che se non vieni, te ne pentirai. Dove vuoi trovare un paese più sano per noialtri ragazzi? Lì non vi sono scuole: lì non vi sono maestri: lì non vi sono libri. In quel paese benedetto non si studia mai. Il giovedì non si fa scuola: e ogni settimana è composta di sei giovedì e di una domenica. Figurati che le vacanze dell’autunno cominciano col primo di gennaio e finiscono coll’ultimo di dicembre. Ecco un paese, come piace veramente a me! Ecco come dovrebbero essere tutti i paesi civili!...
— Ma come si passano le giornate nel «Paese dei balocchi?»
— Si passano baloccandosi e divertendosi dalla mattina alla sera. La sera poi si va a letto, e la mattina dopo si ricomincia daccapo. Che te ne pare?
— Uhm!... — fece Pinocchio; e tentennò leggermente il capo, come dire: — «È una vita che la farei volentieri anch’io!»
— Dunque, vuoi partire con me? Sì o no? Risolviti.
— No, no, no e poi no. Oramai ho promesso alla mia buona Fata di diventare un ragazzo per bene, e voglio mantenere la promessa. Anzi, siccome vedo che il sole va sotto, così ti lascio subito e scappo via. Dunque addio, e buon viaggio.
— Dove corri con tanta furia?
— A casa. La mia buona Fata vuole che ritorni prima di notte.
— Aspetta altri due minuti.
— Faccio troppo tardi.
— Due minuti soli.
— E se poi la Fata mi grida?
— Lasciala gridare. Quando avrà gridato ben bene, si cheterà — disse quella birba di Lucignolo.
— E come fai? Parti solo o in compagnia?
— Solo? Saremo più di cento ragazzi.
— E il viaggio lo fate a piedi?
— Fra poco passerà di qui il carro che mi deve prendere e condurre fin dentro ai confini di quel fortunatissimo paese.
— Che cosa pagherei che il carro passasse ora!...
— Perchè?
— Per vedervi partire tutti insieme.
— Rimani qui un altro poco e ci vedrai.
— No, no: voglio ritornare a casa.
— Aspetta altri due minuti.
— Ho indugiato anche troppo. La Fata starà in pensiero per me.
— Povera Fata! Che ha paura forse che ti mangino i pipistrelli?
— Ma dunque, — soggiunse Pinocchio — tu sei veramente sicuro che in quel paese non ci sono punte scuole?…
— Neanche l’ombra.
— E nemmeno maestri?
— Nemmeno uno.
— E non c’è mai l’obbligo di studiare?
— Mai, mai, mai!
— Che bel paese! — disse Pinocchio, sentendo venirsi l’acquolina in bocca. — Che bel paese! Io non ci sono stato mai, ma me lo figuro!…
— Perchè non vieni anche tu?
— È inutile che tu mi tenti! Oramai ho promesso alla mia buona Fata di diventare un ragazzo di giudizio, e non voglio mancare alla parola.
— Dunque addio, e salutami tanto le scuole ginnasiali!… e anche quelle liceali, se le incontri per la strada.
— Addio, Lucignolo: fa’ buon viaggio, divertiti e rammentati qualche volta degli amici. —
Ciò detto, il burattino fece due passi in atto di andarsene: ma poi, fermandosi e voltandosi all’amico, gli domandò:
— Ma sei proprio sicuro che in quel paese tutte le settimane sieno composte di sei giovedì e di una domenica?
— Sicurissimo.
— Ma lo sai dicerto, che le vacanze abbiano principio col primo di gennaio e finiscano coll’ultimo di dicembre?
— Di certissimo!
— Che bel paese! — ripetè Pinocchio, sputando dalla soverchia consolazione. Poi, fatto un animo risoluto, soggiunse in fretta e in furia:
— Dunque, addio davvero: e buon viaggio.
— Addio.
— Fra quanto partirete?
— Fra poco.
— Peccato! Se alla partenza mancasse un’ora sola, sarei quasi quasi capace di aspettare.
— E la Fata?…
— Oramai ho fatto tardi!… e tornare a casa un’ora prima o un’ora dopo è lo stesso.
— Povero Pinocchio! E se la Fata ti grida?
— Pazienza! La lascerò gridare. Quando avrà gridato ben bene si cheterà. —
Intanto si era già fatta notte e notte buia: quando a un tratto videro muoversi in lontananza un lumicino.... e sentirono un suono di bubboli e uno squillo di trombetta, così piccolino e soffocato, che pareva il sibilo di una zanzara.
— Eccolo! — gridò Lucignolo, rizzandosi in piedi.
— Chi è? — domandò sottovoce Pinocchio.
— È il carro che viene a prendermi. Dunque, vuoi venire, sì o no?
— Ma è proprio vero — domandò il burattino — che in quel paese i ragazzi non hanno mai l’obbligo di studiare?
— Mai, mai, mai!
— Che bel paese!... che bel paese!... che bel paese!... —
No comments:
Post a Comment