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Wednesday 24 April 2024

Good Reading: "Sie pur, fuor di mie propie, c’ogni altr’arme" by Michelangelo Buonarroti (in Italian)

   La vita del mie amor non è ’l cor mio,
c’amor di quel ch’i’ t’amo è senza core;
dov’è cosa mortal, piena d’errore,
esser non può già ma’, nè pensier rio.
  Amor nel dipartir l’alma da Dio
me fe’ san occhio e te luc’ e splendore;
nè può non rivederlo in quel che more
di te, per nostro mal, mie gran desio.
  Come dal foco el caldo, esser diviso
non può dal bell’etterno ogni mie stima,
ch’exalta, ond’ella vien, chi più ’l somiglia.
  Poi che negli occhi ha’ tutto ’l paradiso,
per ritornar là dov’i’ t’ama’ prima,
ricorro ardendo sott’alle tuo ciglia.

Saturday 10 February 2024

Good Reading: "Sie pur, fuor di mie propie, c’ogni altr’arme" by Michelangelo Buonarroti (in Italian)

   Sie pur, fuor di mie propie, c’ogni altr’arme
difender par ogni mie cara cosa;
altra spada, altra lancia e altro scudo
fuor delle propie forze non son nulla,
tant’è la trista usanza, che m’ha tolta
la grazia che ’l ciel piove in ogni loco.
  Qual vecchio serpe per istretto loco
passar poss’io, lasciando le vecchie arme,
e dal costume rinnovata e tolta
sie l’alma in vita e d’ogni umana cosa,


coprendo sé con più sicuro scudo,
ché tutto el mondo a morte è men che nulla.

  Amore, i’ sento già di me far nulla;
natura del peccat’ è ’n ogni loco.
Spoglia di me me stesso, e col tuo scudo,

colla pietra e tuo vere e dolci arme,
difendimi da me, c’ogni altra cosa
è come non istata, in brieve tolta.
  Mentre c’al corpo l’alma non è tolta,
Signor, che l’universo puo’ far nulla,
fattor, governator, re d’ogni cosa,
poco ti fie aver dentr’a me loco;
. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . .
che d’ogn’ uomo veril son le vere arme,
senza le quali ogn’ uom diventa nulla.

Wednesday 7 February 2024

Good Reading: "L'alba meridionale" by Pier Paolo Pasolini (in Italian)

II
Torno... e una sera il mondo è nuovo,
una sera in cui non accade nulla - solo,
corro in macchina - e guardo in fondo
all'azzurro le case del Prenestino -
le guardo, non me ne accorgo, e invece,
quest'immagine di case popolari
dentrol'azzurro della sera, deve
restarmi come un'immagine del mondo
(davvero chiedono gli uomini altro che vivere?)
- case qui piccole, muffite, di crosta bianca,
là alte, quasi palazzi, isole color terra,
galleggianti nel fumo che le fa stupende,
sopra vuoti di strade infossate, non finite,
nel fango, sterri abbandonati, e resti
d'orti con le loro siepi - tutto tacendo
come per notturna pace, nel giorno. E gli uomini
che vivono in quest'ora al Prenestino
sono affogati anch'essi in quelle strie
sognanti di celeste con sognanti lumi
- quasi in un crepuscolo che mai
si debba fare notte - quasi consci,
in attesa di un tram, alle finestre,
che Fora vera dell'uomo è l'agonia -
e lieti, quasi, di ciò, coi loro piccoli,
i loro guai, la loro eterna sera -
ah, grazia esistenziale degli uomini,
vita che si svolge, solo, come vera,
in un paesaggio dove ogni corpo è solo
una realtà lontana, un povero innocente.

Torno, e mi trovo, prima d'un appuntamento
da Carlo o Cartone, da Nino a Via Rasella
o da Nino a Via Borgognone in una zona
oggetto di mie sole frequentazioni...
Due o tre tram e migliaia di fratelli
(col bar luccicante sullo spiazzo,
e il dolore, spento nelle coscienze italiane,
d'essere poveri, il dolore del ritorno a casa,
nel fango, sotto nuove catene di palazzi)
che lottano, si colpiscono, si odiano tra loro,
per la meta di un gradino sul tram, nel buio,
nella sera che li ignora, perduti in un caos
che il solo fatto d'appartenere a un rione remoto
lo delude nel suo essere una cosa reale.
Io mi ritrovo il vecchio cuore, e pago
il tributo ad esso, con lacrime
ricacciate, odiate, e nella bocca
le parole della bandiera rossa,
le parole che ogni uomo sa, e sa far tacere.
Nulla è mutato! siamo ancora negli Anni Cinquanta!
siamo negli Anni Quaranta! prendete le armi!
Ma la sera è più forte di ogni dolore.
Piano piano i due tre tram la vincono
sulle migliaia di operai, lo spiazzo
è quello dei dopocena, sul fango, sereno,
brilla il chiaro d'una baracca di biliardi,
la poca gente fa la coda, nel vento
di scirocco di una sera del Mille, aspettando
il suo tram che la porti alla buia borgata.
La Rivoluzione non è che un sentimento.

Tuesday 6 February 2024

Tuesday's Serial: “Convivio” by Dante Alighieri (in Italian) - the end

 

Capitolo XXII.

1. Comandamento è de li morali filosofi che de li benefici hanno parlato, che l'uomo dee mettere ingegno e sollicitudine in porgere li suoi benefici quanto puote [utili] più al ricevitore; onde io, volendo a cotale imperio essere obediente, intendo questo mio Convivio per ciascuna de le sue parti rendere utile quanto più mi sarà possibile. 2. E però che in questa parte occorre a me di potere alquanto ragionare [de l'umana felicitade, de la sua dolcezza ragionare] intendo; chè più utile ragionamento fare non si può a coloro che non la conoscono. Chè, sì come dice lo Filosofo nel primo de l'Etica e Tullio in quello del Fine de' Beni, male tragge al segno quelli che nol vede; e così male può ire a questa dolcezza chi prima non l'avvisa. 3. Onde, con ciò sia cosa che essa sia finale nostro riposo, per lo quale noi vivemo e operiamo ciò che facemo, utilissimo e necessario è questo segno vedere, per dirizzare a quello l'arco de la nostra operazione. E massimamente è da gradire quelli che a coloro che non veggiano l'addita.

4. Lasciando dunque stare l'oppinione che di quello ebbe Epicuro filosofo, e di quello ebbe Zenone, venire intendo sommariamente a la verace oppinione d'Aristotile e de li altri Peripatetici. Sì come detto è di sopra, de la divina bontade, in noi seminata e infusa dal principio de la nostra generazione, nasce uno rampollo, che li Greci chiamano 'hormen', cioè appetito d'animo naturale. 5. E sì come ne le biade che, quando nascono, dal principio hanno quasi una similitudine ne l'erba essendo, e poi si vengono per processo dissimigliando; così questo naturale appetito, che de la divina grazia surge, dal principio quasi si mostra non dissimile a quello che pur da natura nudamente viene, ma con esso, sì come l'erbate quasi di diversi biadi, si simiglia. E non pur ne li uomini, ma ne li uomini e ne le bestie ha similitudine; e ['n] questo appare, che ogni animale, sì come elli è nato, razionale come bruto, se medesimo ama, e teme e fugge quelle cose che a lui sono contrarie, e quelle odia. 6. Procedendo poi, sì come detto è, comincia una dissimilitudine tra loro, nel procedere di questo appetito, chè l'uno tiene uno cammino e l'altro un altro. Sì come dice l'Apostolo: «Molti corrono al palio, ma uno è quelli che 'l prende», così questi umani appetiti per diversi calli dal principio se ne vanno, e uno solo calle è quello che noi mena a la nostra pace. E però, lasciando stare tutti li altri, col trattato è da tenere dietro a quello che bene comincia.

7. Dico adunque che dal principio se stesso ama, avvegna che indistintamente; poi viene distinguendo quelle cose che a lui sono più amabili e meno, e più odibili [e meno], e seguita e fugge più e meno, secondo la conoscenza distingue non solamente ne l'altre cose, che secondamente ama, ma eziandio distingue in sè, che ama principalmente. 8. E conoscendo in sè diverse parti, quelle che in lui sono più nobili, più ama quelle; e con ciò sia cosa che più [nobile] parte de l'uomo sia l'animo che 'l corpo, quello più ama. E così, amando sè principalmente, e per sè l'altre cose, e amando di sè la migliore parte più, manifesto è che più ama l'animo che 'l corpo o che altra cosa: lo quale animo naturalmente più che altra cosa dee amare. 9. Dunque, se la mente si dil[et]ta sempre ne l'uso de la cosa amata, che è frutto d'amore, [e] in quella cosa che massimamente è amata è l'uso massimamente dilettoso, l'uso del nostro animo è massimamente dilettoso a noi. E quello che massimamente è dilettoso a noi, quello è nostra felicitade e nostra beatitudine, oltre la quale nullo diletto è maggiore, nè nullo altro pare; sì come veder si puote, chi bene riguarda la precedente ragione.

10. E non dicesse alcuno che ogni appetito sia animo; chè qui s'intende animo solamente quello che spetta a la parte razionale, cioè la volontade e lo intelletto; sì che se volesse chiamare animo l'appetito sensitivo, qui non ha luogo, nè instanza puote avere, chè nullo dubita che l'appetito razionale non sia più nobile che 'l sensuale, e però più amabile: e così è questo di che ora si parla. Veramente l'uso del nostro animo è doppio, cioè pratico e speculativo (pratico è tanto quanto operativo), l'uno e l'altro dilett[os]issimo, avvegna che quello del contemplare sia più, sì come di sopra è narrato. 11. Quello del pratico si è operare per noi virtuosamente, cioè onestamente, con prudenza, con temperanza, con fortezza e con giustizia; quello de lo speculativo si è non operare per noi, ma considerare l'opere di Dio e de la natura. E questo [come] quell'altro è nostra beatitudine e somma felicitade, sì come vedere si può; la quale è la dolcezza del sopra notato seme, sì come omai manifestamente appare, a la quale molte volte cotale seme non perviene per male essere coltivato, e per essere disviata la sua pullulazione. 12. E similemente puote essere per molta corr[e]zione e cultura; chè là dove questo seme dal principio non cade, si puote inducere [n]el suo processo, sì che perviene a questo frutto; ed è uno modo quasi d'insetare l'altrui natura sopra diversa radice. E però nullo è che possa essere scusato; chè se da sua naturale radice uomo non ha questa sementa, ben la puote avere per via d'insetazione. Così fossero tanti quelli di fatto che s'insetassero, quanti sono quelli che da la buona radice si lasciano disviare!

13. Veramente di questi usi l'uno è più pieno di beatitudine che l'altro; sì come è lo speculativo, lo quale sanza mistura alcuna è uso de la nostra nobilissima parte, la quale, per lo radicale amore che detto è, massimamente è amabile, sì com'è lo 'ntelletto. E questa parte in questa vita perfettamente lo suo uso avere non puote - lo quale [è ved]ere [in s]è Iddio ch'è sommo intelligibile -, se non in quanto considera lui e mira lui per li suoi effetti. 14. E che noi domandiamo questa beatitudine per somma, e non altra, cioè quella de la vita attiva, n'ammaestra lo Vangelio di Marco, se bene quello volemo guardare. Dice Marco che Maria Maddalena e Maria Iacobi e Maria Salomè andaro per trovare lo Salvatore al monimento, e quello non trovaro; ma trovaro uno giovane vestito di bianco che disse loro: «Voi domandate lo Salvatore, e io vi dico che non è qui; e però non abbiate temenza, ma ite, e dite a li discepoli suoi e a Piero che elli li precederà in Galilea; e quivi lo vedrete, sì come vi disse». 15. Per queste tre donne si possono intendere le tre sette de la vita attiva, cioè li Epicurei, li Stoici e li Peripatetici, che vanno al monimento, cioè al mondo presente che è recettaculo di corruttibili cose, e domandano lo Salvatore, cioè la beatitudine, e non la truovano; ma uno giovane truovano in bianchi vestimenti, lo quale, secondo la testimonianza di Matteo e anche de li altri, era angelo di Dio. E però Matteo disse: «L'angelo di Dio discese di cielo, e vegnendo volse la pietra e sedea sopra essa. E 'l suo aspetto era come folgore, e le sue vestimenta erano come neve».

16. Questo angelo è questa nostra nobilitade che da Dio viene, come detto è, che ne la nostra ragione parla, e dice a ciascuna di queste sette, cioè a qualunque va cercando beatitudine sue ne la vita attiva, che non è qui; ma vada, e dicalo a li discepoli e a Piero, cioè a coloro che 'l vanno cercando, e a coloro che sono sviati, sì come Piero che l'avea negato, che in Galilea li precederà: cioè che la beatitudine precederà noi in Galilea, cioè ne la speculazione. 17. Galilea è tanto a dire quanto bianchezza. Bianchezza è uno colore pieno di luce corporale più che nullo altro; e così la contemplazione è più piena di luce spirituale che altra cosa che qua giù sia. E dice: 'Elli precederà'; e non dice: 'Elli sarà con voi': a dare a intendere che ne la nostra contemplazione Dio sempre precede, nè mai lui giugnere potemo qui, lo quale è nostra beatitudine somma. E dice: 'Quivi lo vedrete, sì come disse': cioè quivi avrete de la sua dolcezza, cioè de la felicitade, sì come a voi è promesso qui; cioè, sì come stabilito è che voi avere possiate. 18. E così appare che nostra beatitudine (questa felicitade di cui si parla) prima trovare potemo quasi imperfetta ne la vita attiva, cioè ne le operazioni de le morali virtudi, e poi perfetta quasi ne le operazioni de le intellettuali. Le quali due operazioni sono vie espedite e dirittissime a menare a la somma beatitudine, la quale qui non si puote avere, come appare pur per quello che detto è.

 

Capitolo XXIII.

1. Poi che dimostrata sufficientemente pare la diffinizione di nobilitade, e quella per le sue parti, come possibile è stato, è dichiarata, sì che vedere si puote omai che è lo nobile uomo, da procedere pare a la parte del testo che comincia: L'anima cui adorna esta bontate; ne la quale si mostrano li segni per li quali conoscere si puote il nobile uomo che detto è. 2. E dividesi questa parte in due: che ne la prima s'afferma che questa nobilitade luce e risplende per tutta la vita del nobile, manifestamente; ne la seconda si dimostra specificamente ne li suoi splendori, e comincia questa seconda parte: Ubidente, soave e vergognosa.

3. Intorno de la prima è da sapere che questo seme divino, di cui parlato è di sopra, ne la nostra anima incontanente germoglia, mettendo e diversificando per ciascuna potenza de l'anima, secondo la essigenza di quella. Germoglia dunque per la vegetativa, per la sensitiva e per la razionale; e dibrancasi per le vertuti di quelle tutte, dirizzando quelle tutte a le loro perfezioni, e in quelle sostenendosi sempre infino al punto che, con quella parte de la nostra anima che mai non muore, a l'altissimo e gloriosissimo seminadore al cielo ritorna. 4. E questo dice per quella prima che detta è. Poi quando comincia: Ubidente, soave e vergognosa, mostra quello per che potemo conoscere l'uomo nobile a li segni apparenti, che sono, di questa bontade divina, operazione; e partesi questa parte in quattro, secondo che per quattro etadi diversamente adopera, sì come per l'adolescenza, per la gioventute, per la senettute e per lo senio. E comincia la seconda parte: In giovinezza, temperata e forte; la terza comincia: E ne la sua senetta; la quarta comincia: Poi ne la quarta parte de la vita. In quest[o] è la sentenza di questa parte in generale. Intorno a la quale si vuole sapere che ciascuno effetto, in quanto effetto è, riceve la similitudine de la sua cagione, quanto è più possibile di ritenere. 6. Onde, con ciò sia cosa che la nostra vita, sì come detto è, ed ancora d'ogni vivente qua giù, sia causata dal cielo, e lo cielo a tutti questi cotali effetti, non per cerchio compiuto, ma per parte di quello a loro si scuopra; e così conviene che 'l suo movimento sia sopra essi come uno arco quasi, [e] tutte le [terrene] vite (e dico [terrene], sì de li [uomini] come de li altri viventi), [mon]tando e volgendo, convengono essere quasi ad imagine d'arco assimiglianti. Tornando dunque a la nostra, sola de la quale al presente s'intende, sì dico ch'ella procede a imagine di questo arco, montando e discendendo.

7. Ed è da sapere che questo arco [di giù, come l'arco] di su sarebbe eguale, se la materia de la nostra seminale complessione non impedisse la regola de la umana natura. Ma però che l'umido radicale [è] meno e più, e di migliore qualitade e [men buona], e più ha durare [in uno] che in uno altro effetto - lo qual è subietto e nutrimento del calore, che è nostra vita -, avviene che l'arco de la vita d'un uomo è di minore e di maggiore tesa che quello de l'altro. 8. E alcuna morte è violenta, o vero per accidentale infertade affrettata; ma solamente quella che naturale è chiamata dal vulgo, e che è, è quel termine del quale si dice per lo Salmista: «Ponesti termine, lo quale passare non si può». E però che lo maestro de la nostra vita Aristotile s'accorse di questo arco di che ora si dice, parve volere che la nostra vita non fosse altro che uno salire e uno scendere: però dice in quello dove tratta di Giovinezza e di Vecchiezza, che giovinezza non è altro se non accrescimento di quella. 9. Là dove sia lo punto sommo di questo arco, per quella disaguaglianza che detta è di sopra, è forte da sapere; ma ne li più io credo tra il trentesimo e quarantesimo anno, e io credo che ne li perfettamente naturati esso ne sia nel trentacinquesimo anno. 10. E muovemi questa ragione: che ottimamente naturato fue lo nostro salvatore Cristo, lo quale volle morire nel trentaquattresimo anno de la sua etade; chè non era convenevole la divinitade stare [in] cos[a] in discresc[er]e, nè da credere è ch'elli non volesse dimorare in questa nostra vita al sommo, poi che stato c'era nel basso stato de la puerizia. 11. E ciò manifesta l'ora del giorno de la sua morte, chè volle quella consimigliare con la vita sua; onde dice Luca che era quasi ora sesta quando morio, che è a dire lo colmo del die. Onde si può comprendere per quello 'quasi' che al trentacinquesimo anno di Cristo era lo colmo de la sua etade.

12. Veramente questo arco non pur per mezzo si distingue da le scritture; ma, seguendo le quattro combina[zioni] de le contrarie qualitadi che sono ne la nostra composizione, a le quali pare essere appropriata, dico a ciascuna, una parte de la nostra etade, in quattro parti si divide, e chiamansi quattro etadi. 13. La prima è Adolescenza, che s'appropria al caldo e a l'umido; la seconda si è Gioventute, che s'appropria al caldo e al secco; la terza si è Senettute, che s'appropria al freddo e al secco; la quarta si è Senio, che s'appropria al freddo e a l'umido, secondo che nel quarto de la Metaura scrive Alberto. 14. E queste parti si fanno simigliantemente ne l'anno, in primavera, in estate, in autunno e in inverno; e nel die, ciò è infino a la terza, e poi infino a la nona (lasciando la sesta, nel mezzo di questa parte, per la ragione che si discerne), e poi infino al vespero e dal vespero innanzi. E però li gentili, cioè li pagani, diceano che 'l carro del sole avea quattro cavalli: lo primo chiamavano Eoo, lo secondo Pirroi, lo terzo Eton, lo quarto Flegon, secondo che scrive Ovidio nel secondo del Metamorfoseos. 15. Intorno a le parti del giorno è brievemente da sapere che, come detto è di sopra nel sesto del terzo trattato, la Chiesa usa, ne la distinzione de le ore, [le ore] del dì temporali, che sono in ciascuno die dodici, o grandi o piccole, secondo la quantitade del sole; e però che la sesta ora, cioè lo mezzo die, è la più nobile di tutto lo die e la più virtuosa, li suoi offici appressa quivi da ogni parte, cioè da prima e di poi, quanto puote. 16. E però l'officio de la prima parte del die, cioè la terza, si dice in fine di quella; e quello de la terza parte e de la quarta si dice ne li principii. E però si dice mezza terza, prima che suoni per quella parte; e mezza nona, poi che per quella parte è sonato; e così mezzo vespero. E però sappia ciascuno che, ne la diritta nona, sempre dee sonare nel cominciamento de la settima ora del die: e questo basti a la presente digressione.

 

Capitolo XXIV.

1. Ritornando al proposito, dico che la umana vita si parte per quattro etadi. La prima si chiama Adolescenzia, cioè 'accrescimento di vita'; la seconda si chiama Gioventute, cioè 'etade che puote giovare', cioè perfezione dare, e così s'intende perfetta - chè nullo puote dare se non quello ch'elli ha -; la terza si chiama Senettute; la quarta si chiama Senio, sì come di sopra detto è.

2. De la prima nullo dubita, ma ciascuno savio s'accorda ch'ella dura in fino al venticinquesimo anno; e però che infino a quel tempo l'anima nostra intende a lo crescere e a lo abbellire del corpo, onde molte e grandi transmutazioni sono ne la persona, non puote perfettamente la razionale parte discernere. Per che la Ragione vuole che dinanzi a quella etade l'uomo non possa certe cose fare sanza curatore di perfetta etade.

3. De la seconda, la quale veramente è colmo de la nostra vita, diversamente è preso lo tempo da molti. Ma, lasciando ciò che ne scrivono li filosofi e li medici, e tornando a la ragione propria, dico che ne li più, ne li quali prendere si puote e dee ogni naturale giudicio, quella etade è venti anni. E la ragione che ciò mi dà si è che, se 'l colmo del nostro arco è ne li trentacinque, tanto quanto questa etade ha di salita tanto dee avere di scesa; e quella salita e quella scesa è quasi lo tenere de l'arco, nel quale poco di flessione si discerne. 4. Avemo dunque che la gioventute nel quarantacinquesimo anno si compie. E sì come l'adolescenzia è in venticinque anni che precede, montando, a la gioventute, così lo discendere, cioè la senettute, è [in] altrettanto tempo che succede a la gioventute; e così si termina la senettute nel settantesimo anno. 5. Ma però che l'adolescenza non comincia dal principio de la vita, pigliandola per lo modo che detto è, ma presso a otto anni dopo quell[o]; e però che la nostra natura si studia di salire, e a lo scendere raffrena, però che lo caldo naturale è menomato, e puote poco, e l'umido è ingrossato (non per[ò] in quantitade, ma p[ur] in qualitade, sì ch'è meno vaporabile e consumabile), avviene che oltre la senettute rimane de la nostra vita forse in quantitade di diece anni, o poco più o poco meno: e questo tempo si chiama senio. 6. Onde avemo di Platone, del quale ottimamente si può dire che fosse naturato e per la sua perfezione e per la fisonomia che di lui prese Socrate quando prima lo vide, che esso vivette ottantuno anno, secondo che testimonia Tullio in quello De Senectute. E io credo che se Cristo fosse stato non crucifisso, e fosse vivuto lo spazio che la sua vita poteva secondo natura trapassare, elli sarebbe a li ottantuno anno di mortale corpo in etternale transmutato.

7. Veramente, sì come di sopra detto è, queste etadi possono essere più lunghe e più corte secondo la complessione nostra e la composizione; ma, come elle siano in questa proporzione, come detto è, in tutti mi pare da servare, cioè di fare l'etadi in quelli cotali e più lunghe e meno secondo la integritade di tutto lo tempo de la naturale vita. Per queste tutte etadi questa nobilitade, di cui si parla, diversamente mostra li suoi effetti ne l'anima nobilitata; e questo è quello che questa parte, sopra la quale al presente si scrive, intende a dimostrare. 8. Dov'è da sapere che la nostra buona e diritta natura ragionevolmente procede in noi, sì come vedemo procedere la natura de le piante in quelle; e però altri costumi e altri portamenti sono ragionevoli ad una etade più che ad altra, ne li quali l'anima nobilitata ordinatamente procede per una semplice via, usando li suoi atti ne li loro tempi ed etadi sì come a l'ultimo suo frutto sono ordinati. E Tullio in ciò s'accorda in quello De Senectute. 9. E lasciando lo figurato che di questo diverso processo de l'etadi tiene Virgilio ne lo Eneida, e lasciando stare quello che Egidio eremita ne dice ne la prima parte de lo Reggimento de' Principi, e lasciando stare quello che ne tocca Tullio in quello de li Offici, e seguendo solo quello che la ragione per sè ne puote vedere, dico che questa prima etade è porta e via per la quale s'entra ne la nostra buona vita. 10. E questa entrata conviene avere di necessitade certe cose, le quali la buona natura, che non viene meno ne le cose necessarie, ne dà; sì come vedemo che dà a la vite le foglie per difensione del frutto, e li vignuoli con li quali difende e lega la sua imbecillitade, sì che sostiene lo peso del suo frutto.

11. Dà adunque la buona natura a questa etade quattro cose, necessarie a lo entrare ne la cittade del bene vivere. La prima si è obedienza; la seconda soavitade; la terza vergogna; la quarta adornezza corporale, sì come dice lo testo ne la prima particola. 12. È dunque da sapere, che sì come quello che mai non fosse stato in una cittade, non saprebbe tenere le vie sanza insegnamento di colui che l'hae usata; così l'adolescente, che entra ne la selva erronea di questa vita, non saprebbe tenere lo buono cammino, se da li suoi maggiori non li fosse mostrato. Nè lo mostrare varrebbe, se a li loro comandamenti non fosse obediente; e però fu a questa etade necessaria la obedienza. 13. Ben potrebbe alcuno dire così: dunque potrà essere detto quelli obediente che crederà li malvagi comandamenti, come quelli che crederà li buoni? Rispondo che non fia quella obedienza, ma transgressione: chè se lo re comanda una via e lo servo ne comanda un'altra, non è da obedire lo servo; chè sarebbe disobedire lo re e così sarebbe transgressione. 14. E però dice Salomone, quando intende correggere suo figlio (e questo è lo primo suo comandamento): «Audi, figlio mio, l'ammaestramento del tuo padre». E poi lo rimuove incontanente da l'altrui reo consiglio e ammaestramento, dicendo: 'Non ti possano quello fare di lusinghe nè di diletto li peccatori, che tu vadi con loro'. Onde, sì come, nato, tosto lo figlio a la tetta de la madre s'apprende, così tosto, come alcuno lume d'animo in esso appare, si dee volgere a la correzione del padre, e lo padre lui ammaestrare. 15. E guardisi che non li dea di sè essemplo ne l'opera, che sia contrario a le parole de la correzione: chè naturalmente vedemo ciascuno figlio più mirare a le vestigie de li paterni piedi che a l'altre. E però dice e comanda la Legge, che a ciò provede, che la persona del padre sempre santa e onesta dee apparere a li suoi figli; e così appare che la obedienza fue necessaria in questa etade. 16. E però scrive Salomone ne li Proverbi, che quelli che umilemente e obedientemente sostiene dal correttore le sue corrett[iv]e riprensioni, «sarà glorioso»; e dice 'sarà', a dare ad intendere che elli parla a lo adolescente, che non puote essere, ne la presente etade. E se alcuno calunniasse: 'Ciò che detto è, è pur del padre e non d'altri', dico che al padre si dee riducere ogni altra obedienza. 17. Onde dice l'Apostolo a li Colossensi: «Figliuoli, obedite a li vostri padri per tutte cose, per ciò che questo vuole Iddio». E se non è in vita lo padre, riducere si dee a quelli che per lo padre è ne l'ultima volontade in padre lasciato; e se lo padre muore intestato, riducere si dee a colui cui la Ragione commette lo suo governo. 18. E poi deono essere obediti maestri e maggiori, c[ui] in alcuno modo pare dal padre, o da quelli che loco paterno tiene, essere commesso. Ma però che lungo è stato lo capitolo presente per le utili digressioni che contiene, per l'altro capitolo l'altre cose sono da ragionare.

 

Capitolo XXV.

1. Non solamente questa anima e natura buona in adolescenza è obediente, ma eziandio soave; la quale cosa è l'altra ch'è necessaria in questa etade a bene intrare ne la porta de la gioventute. Necessaria è, poi che noi non potemo perfetta vita avere sanza amici, sì come ne l'ottavo de l'Etica vuole Aristotile; e la maggiore parte de l'amistadi si paiono seminare in questa etade prima, però che in essa comincia l'uomo ad essere grazioso, o vero lo contrario: la quale grazia s'acquista per soavi reggimenti, che sono dolce e cortesemente parlare, dolce e cortesemente servire e operare. 2. E però dice Salomone a lo adolescente figlio: «Li schernidori Dio li schernisce, e a li mansueti Dio darà grazia». E altrove dice: «Rimuovi da te la mala bocca, e li altri atti villani siano di lungi da te». Per che appare, che necessaria sia questa soavitade, come detto è.

3. Anche è necessaria a questa etade la passione de la vergogna; e però la buona e nobile natura in questa etade la mostra, sì come lo testo dice. E però che la vergogna è apertissimo segno in adolescenza di nobilitade, perchè quivi è massimamente necessaria al buono fondamento de la nostra vita, a lo quale la nobile natura intende, di quella è alquanto con diligenza da parlare. 4. Dico che per vergogna io intendo tre passioni necessarie al fondamento de la nostra vita buona: l'una si è stupore; l'altra si è pudore; la terza si è verecundia; avvegna che la volgare gente questa distinzione non discerna. E tutte e tre queste sono necessarie a questa etade per questa ragione: a questa etade è necessario d'essere reverente e disidiroso di sapere; a questa etade è necessario d'essere rifrenato, sì che non transvada; a questa etade è necessario d'essere penitente del fallo, sì che non s'ausi a fallare. E tutte queste cose fanno le passioni sopra dette, che vergogna volgarmente sono chiamate. 5. Chè lo stupore è uno stordimento d'animo per grandi e maravigliose cose vedere o udire o per alcuno modo sentire: che, in quanto paiono grandi, fanno reverente a sè quelli che le sente; in quanto paiono mirabili, fanno voglioso di sapere di quelle. E però li antichi regi ne le loro magioni faceano magnifici lavorii d'oro e di pietre e d'artificio, acciò che quelli che le vedessero divenissero stupidi, e però reverenti, e domandatori de le condizioni onorevoli de lo rege. 6. E però dice Stazio, lo dolce poeta, nel primo de la Tebana Istoria, che quando Adrasto, rege de li Argi, vide Polinice coverto d'un cuoio di leone, e vide Tideo coverto d'un cuoio di porco selvatico, e ricordossi del risponso che Apollo dato avea per le sue figlie, che esso divenne stupido; e però più reverente e più disideroso di sapere.

7. Lo pudore è uno ritraimento d'animo da laide cose, con paura di cadere in quelle; sì come vedemo ne le vergini e ne le donne buone e ne li adolescenti, che tanto sono pudici, che non solamente là dove richesti o tentati sono di fallare, ma dove pure alcuna imaginazione di venereo compimento avere si puote, tutti si dipingono ne la faccia di palido o di rosso colore. 8. Onde dice lo sopra notato poeta ne lo allegato libro primo di Tebe, che quando Aceste, nutrice d'Argia e di Deifile, figlie d'Adrasto rege, le menò dinanzi da li occhi del santo padre ne la presenza de li due peregrini, cioè Polinice e Tideo, le vergini palide e rubicunde si fecero, e li loro occhi fuggiro da ogni altrui sguardo, e solo ne la paterna faccia, quasi come sicuri, si tennero. 9. Oh quanti falli rifrena esto pudore! quante disoneste cose e dimande fa tacere! quante disoneste cupiditati raffrena! quante male tentazioni non pur ne la pudica persona diffida, ma eziandio in quello che la guarda! quante laide parole ritene! Chè, sì come dice Tullio nel primo de li Offici: Nullo atto è laido, che non sia laido quello nominare; e però lo pudico e nobile uomo mai non parla sì, che ad una donna non fossero oneste le sue parole. Ahi quanto sta male a ciascuno nobile uomo che onore vada cercando, menzionare cose che ne la bocca d'ogni donna stean male!

10. La verecundia è una paura di disonoranza per fallo commesso; e di questa paura nasce un pentimento del fallo, lo quale ha in sè una amaritudine che è gastigamento a più non fallire. Onde dice questo medesimo poeta, in quella medesima parte, che quando Polinice fu domandato da Adrasto rege del suo essere, ch'elli dubitò prima di dicere, per vergogna del fallo che contra lo padre fatto avea, e ancora per li falli d'Edippo suo padre, chè paiono rimanere in vergogna del figlio; e non nominò suo padre, ma li antichi suoi e la terra e la madre. Per che bene appare, vergogna essere necessaria in quella etade.

11. E non pure obedienza, soavitade e vergogna la nobile natura in questa etade dimostra, ma dimostra bellezza e snellezza nel corpo; sì come dice lo testo quando dice: E sua persona adorna. E questo 'adorna' è verbo e non nome: verbo, dico, indicativo del tempo presente in terza persona. Ove è da sapere che anco è necessaria questa opera a la nostra buona vita; chè la nostra anima conviene grande parte de le sue operazioni operare con organo corporale, e allora opera bene che 'l corpo è bene per le sue parti ordinato e disposto. 12. E quando elli è bene ordinato e disposto, allora è bello per tutto e per le parti; chè l'ordine debito de le nostre membra rende uno piacere non so di che armonia mirabile, e la buona disposizione, cioè la sanitade, getta sopra quelle uno colore dolce a riguardare. 13. E così dicere che la nobile natura lo suo corpo abbellisca e faccia conto e accorto, non è altro a dire se non che l'acconcia a perfezione d'ordine, e, co[sì questa come l']altre cose che ragionate sono, appare essere necessarie a l'adolescenza: le quali la nobile anima, cioè la nobile natura, [dà, e] ad esse primamente intende, sì come cosa che, come detto è, da la divina provedenza è seminata.

 

Capitolo XXVI.

1. Poi che sopra la prima particola di questa parte, che mostra quello per che potemo conoscere l'uomo nobile a li segni apparenti, è ragionato, da procedere è a la seconda parte, la quale comincia: In giovinezza, temperata e forte. 2. Dice adunque che sì come la nobile natura in adolescenza ubidente, soave e vergognosa, e adornatrice de la sua persona si mostra, così ne la gioventute si fa temperata, forte, amorosa, cortese e leale: le quali cinque cose paiono, e sono, necessarie a la nostra perfezione, in quanto avemo rispetto a noi medesimi. 3. E intorno di ciò si vuole sapere che tutto quanto la nobile natura prepara ne la prima etade, è apparecchiato e ordinato per provedimento di Natura universale, che ordina la particulare a sua perfezione. Questa perfezione nostra si può doppiamente considerare. Puotesi considerare secondo che ha rispetto a noi medesimi: e questa ne la nostra gioventute si dee avere, che è colmo de la nostra vita. 4. Puotesi considerare secondo che ha rispetto ad altri; e però che prima conviene essere perfetto, e poi la sua perfezione comunicare ad altri, convienesi questa secondaria perfezione avere appresso questa etade, cioè ne la senettute, sì come di sotto si dicerà.

5. Qui adunque è da reducere a mente quello che di sopra, nel ventiduesimo capitolo di questo trattato, si ragiona de lo appetito che in noi dal nostro principio nasce. Questo appetito mai altro non fa che cacciare e fuggire; e qualunque ora esso caccia quello che e quanto si conviene, e fugge quello che e quanto si conviene, l'uomo è ne li termini de la sua perfezione. 6. Veramente questo appetito conviene essere cavalcato da la ragione; chè sì come uno sciolto cavallo, quanto ch'ello sia di natura nobile, per sè, sanza lo buono cavalcatore, bene non si conduce, così questo appetito, che irascibile e concupiscibile si chiama, quanto ch'ello sia nobile, a la ragione obedire conviene, la quale guida quello con freno e con isproni, come buono cavaliere. 7. Lo freno usa quando elli caccia, e chiamasi quello freno temperanza, la quale mostra lo termine infino al quale è da cacciare; lo sprone usa quando fugge, per lui tornare a lo loco onde fuggire vuole, e questo sprone si chiama fortezza, o vero magnanimitate, la quale vertute mostra lo loco dove è da fermarsi e da pugnare. 8. E così infrenato mostra Virgilio, lo maggiore nostro poeta, che fosse Enea, ne la parte de lo Eneida ove questa etade si figura; la quale parte comprende lo quarto, lo quinto e lo sesto libro de lo Eneida. E quanto raffrenare fu quello, quando, avendo ricevuto da Dido tanto di piacere quanto di sotto nel settimo trattato si dicerà, e usando con essa tanto di dilettazione, elli si partio, per seguire onesta e laudabile via e fruttuosa, come nel quarto de l'Eneida scritto è! 9. Quanto spronare fu quello, quando esso Enea sostenette solo con Sibilla a intrare ne lo Inferno a cercare de l'anima di suo padre Anchise, contra tanti pericoli, come nel sesto de la detta istoria si dimostra! Per che appare che, ne la nostra gioventute, essere a nostra perfezione ne convegna 'temperati e forti'. E questo fa e dimostra la buona natura, sì come lo testo dice espressamente.

10. Ancora è a questa etade, a sua perfezione, necessario d'essere amorosa; però che ad essa si conviene guardare diretro e dinanzi, sì come cosa che è nel meridionale cerchio: conviensi amare li suoi maggiori, da li quali ha ricevuto ed essere e nutrimento e dottrina, sì che esso non paia ingrato; conviensi amare li suoi minori, acciò che, amando quelli, dea loro de li suoi benefici, per li quali poi ne la minore prosperitade esso sia da loro sostenuto e onorato. 11. E questo amore mostra che avesse Enea lo nomato poeta nel quinto libro sopra detto, quando lasciò li vecchi Troiani in Cicilia raccomandati ad Aceste, e partilli da le fatiche; e quando ammaestrò in questo luogo Ascanio, suo figliuolo, con li altri adolescentuli armeggiando. Per che appare a questa etade necessario essere amare, come lo testo dice.

12. Ancora è necessario a questa etade essere cortese; chè, avvegna che a ciascuna etade sia bello l'essere di cortesi costumi, a questa è massimamente necessario; però che [lievemente merita perdono l'adolescenza, se di cortesia manchi, per minoranza d'etade, e però che,] nel contrario, non la puote avere la senettute, per la gravezza sua e per la severitade che a lei si richiede; e così lo senio maggiormente. 13. E questa cortesia mostra che avesse Enea questo altissimo poeta, nel sesto sopra detto, quando dice che Enea rege, per onorare lo corpo di Miseno morto, che era stato trombatore d'Ettore e poi s'era raccomandato a lui, s'accinse e prese la scure ad aiutare tagliare le legne per lo fuoco che dovea ardere lo corpo morto, come era di loro costume. Per che bene appare questa essere necessaria a la gioventute, e però la nobile anima in quella la dimostra, come detto è.

14. Ancora è necessario a questa etade essere leale. Lealtade è seguire e mettere in opera quello che le leggi dicono, e ciò massimamente si conviene a lo giovane: però che lo adolescente, come detto è, per minoranza d'etade lievemente merita perdono; lo vecchio per più esperienza dee essere giusto, e non essaminatore di legge, se non in quanto lo suo diritto giudicio e la legge è tutto uno quasi e, quasi sanza legge alcuna, dee giustamente sè guidare: che non può fare lo giovane. E basti che esso seguiti la legge, e in quella seguitare si diletti: sì come dice lo predetto poeta, nel predetto quinto libro, che fece Enea, quando fece li giuochi in Cicilia ne l'anniversario del padre; che ciò che promise per le vittorie, lealmente diede poi a ciascuno vittorioso, sì come era di loro lunga usanza, che era loro legge. 15. Per che è manifesto che a questa etade lealtade, cortesia, amore, fortezza e temperanza siano necessarie, sì come dice lo testo che al presente è ragionato; e però la nobile anima tutte le dimostra.

 

Capitolo XXVII.

1. Veduto e ragionato è assai sofficientemente sopra quella particola che 'l testo pone, mostrando quelle probitadi che a la gioventute presta la nobile anima; per che da intendere pare a la terza parte che comincia: è ne la sua senetta, ne la quale intende lo testo mostrare quelle cose che la nobile natura mostra e dee avere ne la terza etade, cioè senettude. 2. E dice che l'anima nobile ne la senetta sì è prudente, sì è giusta, sì è larga, e allegra di dir bene in prode d'altrui e d'udire quello, cioè che è affabile. E veramente queste quattro vertudi a questa etade sono convenientissime. E a ciò vedere, è da sapere che, sì come dice Tullio in quello De Senectute, «certo corso ha la nostra buona etade, e una via semplice è quella de la nostra buona natura; e a ciascuna parte de la nostra etade è data stagione a certe cose». 3. Onde sì come a l'adolescenza dato è, com'è detto di sopra, quello per che a perfezione e a maturitade venire possa, così a la gioventute è data la perfezione, e [a la senettute] la maturitade acciò che la dolcezza del suo frutto e a sè e ad altrui sia profittabile; chè sì come Aristotile dice, l'uomo è animale civile, per che a lui si richiede non pur a sè ma altrui essere utile. Onde si legge di Catone che non a sè, ma a la patria e a tutto lo mondo nato esser credea. 4. Dunque appresso la propria perfezione, la quale s'acquista ne la gioventute, conviene venire quella che alluma non pur sè ma li altri; e conviensi aprire l'uomo quasi com'una rosa che più chiusa stare non puote, e l'odore che dentro generato è spandere: e questo conviene essere in questa terza etade, che per mano corre. 5. Conviensi adunque essere prudente, cioè savio: e a ciò essere si richiede buona memoria de le vedute cose, buona conoscenza de le presenti e buona provedenza de le future. E, sì come dice lo Filosofo nel sesto de l'Etica, «impossibile è essere savio a chi non è buono», e però non è da dire savio chi con sottratti e con inganni procede, ma è da chiamare astuto; chè sì come nullo dicerebbe savio quelli che si sapesse bene trarre de la punta d'uno coltello ne la pupilla de l'occhio, così non è da dire savio quelli che ben sa una malvagia cosa fare, la quale facendo, prima sè sempre che altrui offende.

6. Se bene si mira, da la prudenza vegnono li buoni consigli, li quali conducono sè e altri a buono fine ne le umane cose e operazioni; e questo è quello dono che Salomone, veggendosi al governo del populo essere posto, chiese a Dio, sì come nel terzo libro de li Regi è scritto. 7. Nè questo cotale prudente non attende [chi] li domandi 'Consigliami', ma proveggendo per lui, sanza richesta colui consiglia; sì come la rosa, che non pur a quelli che va a lei per lo suo odore rende quello, ma eziandio a qualunque appresso lei va. 8. Potrebbe qui dire alcuno medico o legista: 'Dunque porterò io lo mio consiglio e darollo eziandio che non mi sia chesto, e de la mia arte non averò frutto?' Rispondo, sì come dice nostro Signore: «A grado riceveste, a grado e date». 9. Dico dunque, messer lo legista, che quelli consigli che non hanno rispetto a la tua arte e che procedono solo da quel buono senno che Dio ti diede (che è prudenza, de la quale si parla), tu non li dei vendere a li figli di Colui che te l'ha dato: quelli che hanno rispetto a l'arte, la quale hai comperata, vendere puoi; ma non sì che non si convegnano alcuna volta decimare e dare a Dio, cioè a quelli miseri a cui solo lo grado divino è rimaso.

10. Conviensi anche a questa etade essere giusto, acciò che li suoi giudicii e la sua autoritade sia un lume e una legge a li altri. E perchè questa singulare vertù, cioè giustizia, fue veduta per li antichi filosofi apparire perfetta in questa etade, lo reggimento de le cittadi commisero in quelli che in questa etade erano; e però lo collegio de li rettori fu detto Senato. 11. Oh misera, misera patria mia! quanta pietà mi stringe per te, qual volta leggo, qual volta scrivo cosa che a reggimento civile abbia rispetto! Ma però che di giustizia nel penultimo trattato di questo volume si tratterà, basti qui al presente questo poco avere toccato di quella.

12. Conviensi anche a questa etade essere largo; però che allora si conviene la cosa quando più satisface al debito de la sua natura, nè mai a lo debito de la larghezza non si può satisfacere così come in questa etade. Chè se volemo bene mirare al processo d'Aristotile nel quarto de l'Etica, e a quello di Tullio in quello de li Offici, la larghezza vuole essere a luogo e a tempo, tale che lo largo non noccia a sè nè ad altrui. 13. La quale cosa avere non si puote sanza prudenza e sanza giustizia; le quali virtudi anzi a questa etade avere perfette per via naturale è impossibile. Ahi malestrui e malnati, che disertate vedove e pupilli, che rapite a li men possenti, che furate e occupate l'altrui ragioni; e di quelle corredate conviti, donate cavalli e arme, robe e denari, portate le mirabili vestimenta, edificate li mirabili edifici, e credetevi larghezza fare! 14. E che è questo altro a fare che levare lo drappo di su l'altare e coprire lo ladro la sua mensa? Non altrimenti si dee ridere, tiranni, de le vostre messioni, che del ladro che menasse a la sua casa li convitati, e la tovaglia furata di su l'altare, con li segni ecclesiastici ancora, ponesse in su la mensa e non credesse che altri se n'accorgesse. 15. Udite, ostinati, che dice Tullio contro a voi nel libro de li Offici: «Sono molti, certo desiderosi d'essere apparenti e gloriosi, che tolgono a li altri per dare a li altri, credendosi buoni essere tenuti, [se li] arricchiscono per qual ragione essere voglia. Ma ciò tanto è contrario a quello che far si conviene, che nulla è più».

16. Conviensi anche a questa etade essere affabile, ragionare lo bene, e quello udire volontieri: imperò che allora è buono ragionare lo bene, quando esso è ascoltato. E questa etade pur ha seco un'ombra d'autoritade, per la quale più pare che lei l'uomo ascolti che nulla più tostana etade, e più belle e buone novelle pare dover savere per la lunga esperienza de la vita. Onde dice Tullio in quello De Senectute, in persona di Catone vecchio: «A me è ricresciuto e volontà e diletto di stare in colloquio più ch'io non solea».

17. E che tutte e quattro queste cose convegnono a questa etade, n'ammaestra Ovidio nel settimo Metamorfoseos, in quella favola dove scrive come Cefalo d'Atene venne ad Eaco re per soccorso, ne la guerra che Atene ebbe con Creti. Mostra che Eaco vecchio fosse prudente, quando, avendo per pestilenza di corrompimento d'aere quasi tutto lo popolo perduto, esso saviamente ricorse a Dio e a lui domandò lo ristoro de la morta gente; e per lo suo senno, che a pazienza lo tenne e a Dio tornare lo fece, lo suo popolo ristorato li fu maggiore che prima. 18. Mostra che esso fosse giusto, quando dice che esso fu partitore a nuovo popolo e distributore de la terra diserta sua. Mostra che fosse largo, quando disse a Cefalo dopo la dimanda de lo aiuto: «O Atene, non domandate a me aiutorio, ma toglietevelo; e non dite a voi dubitose le forze che ha questa isola. E tutto questo è [lo] stato de le mie cose: forze non ci menomano, anzi ne sono a noi di soperchio; e lo avversario è grande, e lo tempo da dare è, bene avventuroso e sanza escusa». 19. Ahi quante cose sono da notare in questa risposta! Ma a buono intenditore basti essere posto qui come Ovidio lo pone. Mostra che fosse affabile, quando dice e ritrae per lungo sermone a Cefalo la istoria de la pestilenza del suo popolo diligentemente, e lo ristoramento di quello. 20. Per che assai è manifesto a questa etade essere quattro cose convenienti; per che la nobile natura in essa le mostra, sì come lo testo dice. E perchè più memorabile sia l'essemplo che detto è, dice di Eaco re che questi fu padre di Telamon, [di Peleus] e di Foco, del quale Telamon nacque Aiace, e di Peleus Achilles.

 

Capitolo XXVIII.

1. Appresso de la ragionata particola è da procedere a l'ultima, cioè a quella che comincia: Poi ne la quarta parte de la vita; per la quale lo testo intende mostrare quello che fa la nobile anima ne l'ultima etade, cioè nel senio. 2. E dice ch'ella fa due cose: l'una, che ella ritorna a Dio, sì come a quello porto onde ella si partio quando venne ad intrare nel mare di questa vita; l'altra si è che ella benedice lo cammino che ha fatto, però che è stato diritto e buono e sanza amaritudine di tempesta. 3. E qui è da sapere che, sì come dice Tullio in quello De Senectute, la naturale morte è quasi a noi porto di lunga navigazione e riposo. Ed è così: [chè], come lo buono marinaio, come esso appropinqua al porto, cala le sue vele, e soavemente, con debile conducimento, entra in quello; così noi dovemo calare le vele de le nostre mondane operazioni e tornare a Dio con tutto nostro intendimento e cuore, sì che a quello porto si vegna con tutta soavitade e con tutta pace. 4. E in ciò avemo da la nostra propria natura grande ammaestramento di soavitade, chè in essa cotale morte non è dolore nè alcuna acerbitate, ma sì come uno pomo maturo leggiermente e sanza violenza si dispicca dal suo ramo, così la nostra anima sanza doglia si parte dal corpo ov'ella è stata. Onde Aristotile in quello De Iuventute et Senectute dice che «sanza tristizia è la morte ch'è ne la vecchiezza». 5. E sì come a colui che viene di lungo cammino, anzi ch'entri ne la porta de la sua cittade, li si fanno incontro li cittadini di quella, così a la nobile anima si fanno incontro, e deono fare, quelli cittadini de la etterna vita; e così fanno per le sue buone operazioni e contemplazioni: chè, già essendo a Dio renduta e astrattasi da le mondane cose e cogitazioni, vedere le pare coloro che appresso di Dio crede che siano. 6. Odi che dice Tullio, in persona di Catone vecchio: «A me pare già vedere e levomi in grandissimo studio di vedere li vostri padri, che io amai, e non pur quelli [che io stesso conobbi], ma eziandio quelli di cui udi' parlare». 7. Rendesi dunque a Dio la nobile anima in questa etade, e attende lo fine di questa vita con molto desiderio e uscir le pare de l'albergo e ritornare ne la propria mansione, uscir le pare di cammino e tornare in cittade, uscir le pare di mare e tornare a porto. O miseri e vili che con le vele alte correte a questo porto, e là ove dovereste riposare, per lo impeto del vento rompete, e perdete voi medesimi là dove tanto camminato avete! 8. Certo lo cavaliere Lancelotto non volse entrare con le vele alte, nè lo nobilissimo nostro latino Guido montefeltrano. Bene questi nobili calaro le vele de le mondane operazioni, che ne la loro lunga etade a religione si rendero, ogni mondano diletto e opera disponendo. 9. E non si puote alcuno escusare per legame di matrimonio, che in lunga etade lo tegna; chè non torna a religione pur quelli che a santo Benedetto, a santo Augustino, a santo Francesco e a santo Domenico si fa d'abito e di vita simile, ma eziandio a buona e vera religione si può tornare in matrimonio stando, chè Dio non volse religioso di noi se non lo cuore. 10. E però dice santo Paulo a li Romani: «Non quelli ch'è manifestamente, è Giudeo, nè quella ch'è manifesta in carne è circuncisione; ma quelli ch'è in ascoso, è Giudeo, e la circuncisione del cuore, in ispirito non in littera, è circuncisione; la loda de la quale è non da li uomini, ma da Dio».

11. E benedice anco la nobile anima in questa etade li tempi passati; e bene li può benedicere, però che, per quelli rivolvendo la sua memoria, essa si rimembra de le sue diritte operazioni, sanza le quali al porto, ove s'appressa, venire non si potea con tanta ricchezza nè con tanto guadagno. 12. E fa come lo buono mercatante, che, quando viene presso al suo porto, essamina lo suo procaccio e dice, 'Se io non fosse per cotal cammino passato, questo tesoro non avre' io, e non avrei di ch'io godesse ne la mia cittade, a la quale io m'appresso'; e però benedice la via che ha fatta. 13. E che queste due cose convegnano a questa etade, ne figura quello grande poeta Lucano nel secondo de la sua Farsalia, quando dice che Marzia tornò a Catone e richiese lui e pregollo che la dovesse riprendere [g]ua[s]ta: per la quale Marzia s'intende la nobile anima. 14. E potemo così ritrarre la figura a veritade. Marzia fu vergine, e in quello stato si significa l'adolescenza; [poi si maritò] a Catone, e in quello stato si significa la gioventute; fece allora figli, per li quali si significano le vertudi che di sopra si dicono a li giovani convenire; e partissi da Catone, e maritossi ad Ortensio, per che [si] significa che si partì la gioventute e venne la senettute; fece figli di questo anche, per che si significano le vertudi che di sopra si dicono convenire a la senettute. 15. Morì Ortensio; per che si significa lo termine de la senettute; e vedova fatta - per lo quale vedovaggio si significa lo senio - tornò Marzia dal principio del suo vedovaggio a Catone, per che si significa la nobile anima dal principio del senio tornare a Dio. E quale uomo terreno più degno fu di significare Iddio, che Catone? Certo nullo.

16. E che dice Marzia a Catone? «Mentre che in me fu lo sangue», cioè la gioventute, «mentre che in me fu la maternale vertute», cioè la senettute, che bene è madre de l'alte [vertu]di, sì come di sopra è mostrato, «io» dice Marzia «feci e compiei li tuoi comandamenti», cioè a dire che l'anima stette ferma a le civili operazioni. Dice: «E tolsi due mariti», cioè a due etadi fruttifera sono stata. 17. «Ora» dice Marzia «che 'l mio ventre è lasso, e che io sono per li parti vota, a te mi ritorno, non essendo più da dare ad altro sposo»; cioè a dire che la nobile anima, cognoscendosi non avere più ventre da frutto, cioè li suoi membri sentendosi a debile stato venuti, torna a Dio, colui che non ha mestiere de le membra corporali. E dice Marzia: «Dammi li patti de li antichi letti, dammi lo nome solo del maritaggio»; che è a dire che la nobile anima dire a Dio: 'Dammi, Signor mio, omai lo riposo di te; dammi, almeno, che io in questa tanta vita sia chiamata tua'. 18. E dice Marzia: «Due ragioni mi muovono a dire questo: l'una si è che dopo di me si dica ch'io sia morta moglie di Catone; l'altra, che dopo me si dica che tu non mi scacciasti, ma di buono animo mi maritasti». 19. Per queste due cagioni si muove la nobile anima; e vuole partire d'esta vita sposa di Dio, e vuole mostrare che graziosa fosse a Dio la sua [oper]azione. Oh sventurati e male nati, che innanzi volete partirvi d'esta vita sotto lo titolo d'Ortensio che di Catone! Nel nome di cui è bello terminare ciò che de li segni de la nobilitade ragionare si convenia, però che in lui essa nobilitade tutti li dimostra per tutte etadi.

 

Capitolo XXIX.  

1. Poi che mostrato [ha] lo testo quelli segni li quali per ciascuna etade appaiono nel nobile uomo e per li quali conoscere si puote, e sanza li quali essere non puote, come lo sole sanza luce e lo fuoco sanza caldo, grida lo testo a la gente, a l'ultimo di ciò che di nobilità è ritratto, e dice: 'O voi che udito m'avete, vedete quanti sono coloro che sono ingannati!': cioè coloro che, per essere di famose e antiche generazioni e per essere discesi di padri eccellenti, credono essere nobili, nobilitade non avendo in loro. 2. E qui surgono due quistioni, a le quali ne la fine di questo trattato è bello intendere. Potrebbe dire ser Manfredi da Vico, che ora Pretore si chiama e Prefetto: 'Come che io mi sia, io reduco a memoria e rappresento li miei maggiori, che per loro nobilitade meritaro l'officio de la Prefettura, e meritaro di porre mano a lo coronamento de lo Imperio, meritaro di ricevere la rosa dal romano Pastore: onore deggio ricevere e reverenza da la gente'. E questa è l'una questione. 3. L'altra è, che potrebbe dire quelli da Santo Nazzaro di Pavia, e quelli de li Piscitelli da Napoli: 'Se la nobilitade è quello che detto è, cioè seme divino ne la umana anima graziosamente posto, e le progenie, o vero schiatte, non hanno anima, sì come è manifesto, nulla progenie, o vero schiatta, nobile dicere si potrebbe: e questo è contra l'oppinione di coloro che le nostre progenie dicono essere nobilissime in loro cittadi'. 4. A la prima questione risponde Giovenale ne l'ottava satira, quando comincia quasi esclamando: «Che fanno queste onoranze che rimangono da li antichi, se per colui che di quelle si vuole ammantare male si vive? se per colui che de li suoi antichi ragiona e mostra le grandi e mirabili opere, s'intende a misere e vili operazioni? Avvegna [che, «chi dicerà»], dice esso poeta satiro, «nobile per la buona generazione quelli che de la buona generazione degno non è? Questo non è altro che chiamare lo nano gigante». 5. Poi appresso, a questo cotale dice: «Da te a la statua fatta in memoria del tuo antico non ha dissimilitudine altra, se non che la sua testa è di marmo, e la tua vive». E in questo, con reverenza lo dico, mi discordo dal Poeta, chè la statua di marmo, di legno o di metallo, rimasa per memoria d'alcuno valente uomo, si dissimiglia ne lo effetto molto dal malvagio discendente. 6. Però che la statua sempre afferma la buona oppinione in quelli che hanno udito la buona fama di colui cui è la statua, e ne li altri genera: lo ma[l]estr[u]o figlio o nepote fa tutto lo contrario, chè l'oppinione di coloro che hanno udito bene de li suoi maggiori, fa più debile; chè dice alcuno loro pensiero: 'Non può essere che de li maggiori di costui sia tanto quanto si dice, poi che de la loro semenza sì fatta pianta si vede'. Per che non onore, ma disonore dee ricevere quelli che a li buoni mala testimonianza porta. 7. E però dice Tullio che 'lo figlio del valente uomo dee procurare di rendere al padre buona testimonianza'. Onde, al mio giudicio, così come chi uno valente uomo infama è degno d'essere fuggito da la gente e non ascoltato, così lo ma[l]estr[u]o disceso de li buoni maggiori è degno d'essere da tutti scacciato, e de' si lo buono uomo chiudere li occhi per non vedere quello vituperio vituperante de la bontade, che in sola la memoria è rimasa. E questo basti, al presente, a la prima questione che si movea.

8. A la seconda questione si può rispondere, che una progenie per sè non hae anima, e ben è vero che nobile si dice ed è per certo modo. Onde è da sapere che ogni tutto si fa de le sue parti. È alcuno tutto che ha una essenza simplice con le sue parti, sì come in uno uomo è una essenza di tutto e di ciascuna parte sua; e ciò che si dice ne la parte, per quello medesimo modo si dice essere in tutto. 9. Un altro tutto è che non ha essenza comune con le parti, sì come una massa di grano; ma è la sua una essenza secondaria che resulta da molti grani, che vera e prima essenza in loro hanno. E in questo tutto cotale si dicono essere le qualitadi de le parti così secondamente come l'essere; onde si dice una bianca massa, perchè li grani onde è la massa sono bianchi. 10. Veramente questa bianchezza è pur ne li grani prima, e secondariamente resulta in tutta la massa, e così secondariamente bianca dicere si può; e per cotale modo si può dicere nobile una schiatta, o vero una progenie. Onde è da sapere che, sì come a fare una [bianca] massa convegnono vincere li bianchi grani, così a fare una nobile progenie convegnono in essa li nobili uomini [vincere] (dico 'vincere' essere più che li altri), sì che la bontade con la sua grida oscuri e celi lo contrario che dentro è. 11. E sì come d'una massa bianca di grano si potrebbe levare a grano a grano lo formento, e a grano [a grano] restituire meliga rossa, e tutta la massa finalmente cangerebbe colore; così de la nobile progenie potrebbero li buoni morire a uno a uno e nascere in quella li malvagi, tanto che cangerebbe lo nome, e non nobile ma vile da dire sarebbe. E così basti a la seconda questione essere risposto.

 

Capitolo XXX.

1. Come di sopra nel terzo capitolo di questo trattato si dimostra, questa canzone ha tre parti principali. Per che, ragionate le due (de le quali la prima cominciò nel capitolo predetto, e la seconda nel sestodecimo; sicchè la prima per tredici e la seconda per quattordici è determinata, sanza lo proemio del trattato de la canzone, che in due capitoli si comprese), in questo trentesimo e ultimo capitolo, de la terza parte principale brievemente è da ragionare, la quale per tornata di questa canzone fatta fu ad alcuno adornamento, e comincia: Contra-li-erranti mia, tu te n'andrai. 2. E qui primamente si vuole sapere che ciascuno buono fabricatore, ne la fine del suo lavoro, quello nobilitare e abbellire dee in quanto puote, acciò che più celebre e più prezioso da lui si parta. E questo intendo, non come buono fabricatore ma come seguitatore di quello, fare in questa parte.

3. Dico adunque: Contra-li-erranti mia. Questo Contra-li-erranti è tutto una par[ola], e è nome d'esta canzone, tolto per essemplo del buono frate Tommaso d'Aquino, che a uno suo libro, che fece a confusione di tutti quelli che disviano da nostra Fede, puose nome Contra-li-Gentili. 4. Dico adunque che 'tu andrai': quasi dica: 'Tu se' omai perfetta, e tempo è di non stare ferma, ma di gire, chè la tua impresa è grande'; e quando tu sarai In parte dove sia la donna nostra, dille lo tuo mestiere. Ove è da notare che, sì come dice nostro Signore, non si deono le margarite gittare innanzi a li porci, però che a loro non è prode, e a le margarite è danno; e, come dice Esopo poeta ne la prima Favola, più è prode al gallo uno grano che una margarita, e però questa lascia e quello coglie. 5. E in ciò considerando, a cautela di ciò comando a la canzone che suo mestiere discuopra là dove questa donna, cioè la filosofia, si troverà. Allora si troverà questa donna nobilissima quando si truova la sua camera, cioè l'anima in cui essa alberga. Ed essa filosofia non solamente alberga pur ne li sapienti, ma eziandio, come provato è di sopra in altro trattato, essa è dovunque alberga l'amore di quella. E a questi cotali dico che manifesti lo suo mestiere, perchè a loro sarà utile la sua sentenza, e da loro ricolta.

6. E dico ad essa: Dì a questa donna, «Io vo parlando de l'amica vostra». Bene è sua amica nobilitade; chè tanto l'una con l'altra s'ama, che nobilitate sempre la dimanda, e filosofia non volge lo sguardo suo dolcissimo a l'altra parte. Oh quanto e come bello adornamento è questo che ne l'ultimo di questa canzone si dà ad essa, chiamandola amica di quella la cui propria ragione è nel secretissimo de la divina mente!

Tuesday 30 January 2024

Tuesday's Serial: “Convivio” by Dante Alighieri (in Italian) - XII

 

Capitolo XIV.

1. Riprovato l'altrui errore quanto è in quella parte che a le ricchezze s'appoggiava, [seguita che si riprovi quanto è] in quella parte, che tempo diceva essere cagione di nobilitade, dicendo antica ricchezza. E questa riprovagione si fa in quella parte che comincia: Nè voglion che vil uom gentil divegna. 2. E in prima si ripruova ciò per una ragione di costoro medesimi che così errano; poi, a maggiore loro confusione, questa loro ragione anche si distrugge: e ciò si fa quando dice: Ancor, segue di ciò che innanzi ho messo. Ultimamente conchiude manifesto essere lo loro errore, e però essere tempo d'intendere a la veritade: e ciò si fa quando dice: Per che a 'ntelletti sani.

3. Dico adunque: Nè voglion che vil uom gentil divegna. Dove è da sapere che oppinione di questi erranti è che uomo prima villano mai gentile uomo dicer non si possa; nè uomo che figlio sia di villano similemente dicere mai non si possa gentile. E ciò rompe la loro sentenza medesima, quando dicono che tempo si richiede a nobilitade, ponendo questo vocabulo 'antico'; però ch'è impossibile per processo di tempo venire a la generazione di nobilitade per questa loro ragione che detta è, la quale toglie via che villano uomo mai possa esser gentile per opera che faccia, o per alcuno accidente, e toglie via la mutazione di villano padre in gentile figlio. 4. Chè se lo figlio del villano è pur villano, e lo figlio fia pur figlio di villano e così fia anche villano, e anche suo figlio, e così sempre, e mai non s'avrà a trovare là dove nobilitade per processo di tempo si cominci. 5. E se l'avversario, volendosi difendere, dicesse che la nobilitade si comincerà in quel tempo che si dimenticherà lo basso stato de li antecessori, rispondo che ciò fia contra loro medesimi, che pur di necessitade quivi sarà transmutazione di viltade in gentilezza, d'un uomo in altro o di padre a figlio, ch'è contra ciò che essi pongono.

6. E se l'avversario pertinacemente si difendesse, dicendo che bene vogliono questa transmutazione potersi fare quando lo basso stato de li antecessori corre in oblivione, avvegna che 'l testo ciò non curi, degno è che la chiosa a ciò risponda. E però rispondo così: che di ciò che dicono seguitano quattro grandissimi inconvenienti, sì che buona ragione essere non può. 7. L'uno si è che quanto la natura umana fosse migliore tanto sarebbe più malagevole e più tarda generazione di gentilezza; che è massimo inconveniente, con ciò sia cosa, com'ho no[t]ato, che la cosa quanto è migliore tanto è più cagione di bene; e nobilitade intra li beni sia commemorata. 8. E che ciò fosse così si pruova. Se la gentilezza o ver nobilitade, che per una cosa intendo, si generasse per oblivione, più tosto sarebbe generata la nobilitade quanto li uomini fossero più smemorati, [chè] tanto più tosto ogni oblivione verrebbe. Dunque, quanto li uomini smemorati più fossero, più tosto sarebbero nobili; e per contrario, quanto con più buona memoria, tanto più tardi nobili si farebbero.

9. Lo secondo si è, che 'n nulla cosa, fuori de li uomini, questa distinzione si potrebbe fare, cioè nobile o vile; che è molto inconveniente, con ciò sia cosa che in ciascuna spezie di cose veggiamo l'imagine di nobilitade e di viltade: onde spesse volte diciamo uno nobile cavallo e uno vile, e uno nobile falcone e uno vile, e una nobile margherita e una vile. 10. E che non si potesse fare questa distinzione, così si pruova. Se l'oblivione de li bassi antecessori è cagione di nobilitade, e là ovunque bassezza d'antecessori mai non fu, non può essere l'oblivione di quelli - con ciò sia cosa che l'oblivione sia corruzione di memoria, e in questi altri animali e piante e minere bassezza e altezza non si noti, però che in uno sono naturati solamente ed iguale stato -, in loro generazione di nobilitade essere non può; e così nè viltade, con ciò sia cosa che l'una e l'altra si guardi come abito e privazione, che sono ad uno medesimo subietto possibili; e però in loro de l'una e de l'altra non potrebbe essere distinzione. 11. E se l'avversario volesse dicere che ne l'altre cose nobilità s'intende per la bontà de la cosa, ma ne li uomini s'intende perchè di sua bassa condizione non è memoria, rispondere si vorrebbe non con le parole ma col coltello a tanta bestialitade, quanta è dare a la nobilitade de l'altre cose bontade per cagione, e a quella de li uomini principio di dimenticanza.

12. Lo terzo si è che molte volte verrebbe prima lo generato che lo generante; che è del tutto impossibile; e ciò si può così mostrare. Pognamo che Gherardo da Cammino fosse stato nepote del più vile villano che mai bevesse del Sile o del Cagnano, e la oblivione ancora non fosse del suo avolo venuta: chi sarà oso di dire che Gherardo da Cammino fosse vile uomo? e chi non parlerà meco, dicendo quello essere stato nobile? Certo nullo, quanto vuole sia presuntuoso, però che egli fu, e fia sempre la sua memoria. 13. E se la oblivione del suo basso antecessore non fosse venuta, sì come si suppone, ed ello fosse grande di nobilitade e la nobilitade in lui si vedesse così apertamente come aperta si vede, prima sarebbe stata in lui che 'l generante suo fosse stato: e questo è massimamente impossibile.

14. Lo quarto si è che tale uomo sarebbe tenuto nobile morto che non fu nobile vivo; che più inconveniente essere non potrebbe; e ciò così si mostra. Pognamo che ne la etade di Dardano de' suoi antecessori bassi fosse memoria, e pognamo che ne la etade di Laomedonte questa memoria fosse disfatta, e venuta l'oblivione. Secondo l'oppinione avversa, Laomedonte fu gentile e Dardano fu villano in loro vita. Noi, a li quali la memoria de li loro anticessori, dico di là da Dardano, [anche non è rimasa, dir dovremmo che Dardano] vivendo fosse villano e morto sia nobile. 15. E non è contro a ciò, che si dice Dardano esser stato figlio di Giove, chè ciò è favola, de la quale, filosoficamente disputando, curare non si dee; e pur se volesse a la favola fermare l'avversario, di certo quello che la favola cuopre disfà tutte le sue ragioni. E così è manifesto, la ragione che ponea la oblivione causa di nobilitade essere falsa ed erronea.

 

Capitolo XV.

1. Da poi che, per la loro medesima sentenza, la canzone ha riprovato tempo non richiedersi a nobilitade, incontanente seguita a confondere la premessa loro oppinione, acciò che di loro false ragioni nulla ruggine rimagna ne la mente che a la verità sia disposta; e questo fa quando dice: Ancor, segue di ciò che innanzi ho messo. 2. Ove è da sapere che, se uomo non si può fare di villano gentile o di vile padre non può nascere gentile figlio, sì come messo è dinanzi per loro oppinione, che de li due inconvenienti l'uno seguire conviene: l'uno sì è che nulla nobilitade sia; l'altro sì è che 'l mondo sempre sia stato con più uomini, sì che da uno solo la umana generazione discesa non sia. 3. E ciò si può mostrare. Se nobilitade non si genera di nuovo, sì come più volte è detto che la loro oppinione vuole (non generandosi di vile uomo in lui medesimo, nè di vile padre in figlio), sempre è l'uomo tale quale nasce, e tale nasce quale è lo padre; e così questo processo d'una condizione è venuto infino dal primo parente: per che tale quale fu lo primo generante, cioè Adamo, conviene essere tutta l'umana generazione, chè da lui a li moderni non si puote trovare per quella ragione alcuna transmutanza. 4. Dunque, se esso Adamo fu nobile, tutti siamo nobili, e se esso fu vile, tutti siamo vili; che non è altro che torre via la distinzione di queste condizioni, e così è torre via quelle. E questo dice, che di quello ch'e messo dinanzi seguita che siam tutti gentili o ver villani. 5. E se questo non è, [e] pur alcuna gente è da dire nobile e alcuna è da dir vile, di necessitade, da poi che la transmutazione di viltade in nobilitade è tolta via, conviene l'umana generazione da diversi principii essere discesa, cioè da uno nobile e da uno vile. E ciò dice la canzone, quando dice: O che non fosse ad uom cominciamento, cioè uno solo: non dice 'cominciamenti'. E questo è falsissimo appo lo Filosofo, appo la nostra Fede che mentire non puote, appo la legge e credenza antica de li Gentili. 6. Chè, avvegna che 'l Filosofo non pogna lo processo da uno primo uomo, pur vuole una sola essenza essere in tutti li uomini, la quale diversi principii avere non puote; e Plato vuole che tutti li uomini da una sola Idea dependano, e non da più, che è dare loro uno solo principio. E sanza dubbio forte riderebbe Aristotile udendo fare spezie due de l'umana generazione, sì come de li cavalli e de li asini; che, perdonimi Aristotile, asini ben si possono dire coloro che così pensano. 7. Che appo la nostra fede, la quale del tutto è da conservare, sia falsissimo, per Salomone si manifesta, che là dove distinzione fa di tutti li uomini a li animali bruti, chiama quelli tutti figli d'Adamo; e ciò fa quando dice: «Chi sa se li spiriti de li figliuoli d'Adamo vadano suso, e quelli de le bestie vadano giuso?». 8. E che appo li Gentili falso fosse, ecco la testimonianza d'Ovidio nel primo del suo Metamorfoseos, dove tratta la mondiale constituzione secondo la credenza pagana, o vero de li Gentili, dicendo: «Nato è l'uomo» - non disse 'li uomini'; disse 'nato', e 'l'uomo' - «o vero che questo l'artefice de le cose di seme divino fece, o vero che la recente terra, di poco dipartita dal nobile corpo sottile e diafano, li semi del cognato cielo ritenea. La quale, mista con l'acqua del fiume, lo figlio di Iapeto, cioè Prometeus, compuose in imagine de li Dei, che tutto governano». Dove manifestamente pone lo primo uomo uno solo essere stato. 9. E però dice la canzone: Ma ciò io non consento, cioè che cominciamento ad uomo non fosse. E soggiugne la canzone: Ned ellino altressì, se son cristiani: e dice 'cristiani' e non 'filosofi' o vero 'Gentili', [de li quali] le sentenze anco [non] sono in contro, però che la cristiana sentenza è di maggiore vigore, ed è rompitrice d'ogni calunnia, mercè de la somma luce del cielo che quella allumina.

10. Poi quando dico: Per che a 'ntelletti sani È manifesto i lor diri esser vani, conchiudo lo loro errore essere confuso, e dico che tempo è d'aprire li occhi a la veritade; questo dice quando dico: E dicer voglio omai, sì com'io sento. Dico adunque che, per quello che detto è, è manifesto a li sani intelletti che i detti di costoro sono vani, cioè sanza midolla di veritade. E dico sani non sanza cagione. 11. Onde è da sapere che lo nostro intelletto si può dir sano e infermo: e dico intelletto per la nobile parte de l'anima nostra, che con uno vocabulo 'mente' si può chiamare. Sano dire si può, quando per malizia d'animo o di corpo impedito non è ne la sua operazione; che è conoscere quello che le cose sono, sì come vuole Aristotile nel terzo de l'Anima. 12. Chè, secondo la malizia de l'anima, tre orribili infermitadi ne la mente de li uomini ho vedute. L'una è di naturale [jat]tanza causata: chè sono molti tanto presuntuosi, che si credono tutto sapere, e per questo le non certe cose affermano per certe; lo qual vizio Tullio massimamente abomina nel primo de li Offici e Tommaso nel suo Contra-li-Gentili dicendo: «Sono molti tanto di suo ingegno presuntuosi, che credono col suo intelletto poter misurare tutte le cose, estimando tutto vero quello che a loro pare, falso quello che a loro non pare». 13. E quinci nasce che mai a dottrina non vegnono; credendo da sè sufficientemente essere dottrinati, mai non domandano, mai non ascoltano, disiano essere domandati e, anzi la domandagione compiuta, male rispondono. E per costoro dice Salomone ne li Proverbii: «Vedesti l'uomo ratto a rispondere? di lui stoltezza, più che correzione, è da [sperare]». 14. L'altra è di naturale pusillanimitade causata: chè sono molti tanto vilmente ostinati, che non possono credere che nè per loro nè per altrui si possano le cose sapere; e questi cotali mai per loro non cercano nè ragionano, mai quello che altri dice non curano. E contra costoro Aristotile parla nel primo de l'Etica, dicendo quelli essere insufficienti uditori de la morale filosofia. Costoro sempre come bestie in grossezza vivono, d'ogni dottrina disperati. 15. La terza è da levitade di natura causata: chè sono molti di sì lieve fantasia che in tutte le loro ragioni transvanno, e anzi che silogizzino hanno conchiuso, e di quella conclusione vanno transvolando ne l'altra, e pare loro sottilissimamente argomentare, e non si muovono da neuno principio, e nulla cosa veramente veggiono vera nel loro imaginare. 16. E di costoro dice lo Filosofo che non è da curare nè da avere con essi faccenda, dicendo nel primo de la Fisica, che «contra quelli che niega li principii disputare non si conviene». E di questi cotali sono molti idioti che non saprebbero l'a. b. c., e vorrebbero disputare in geometria, in astrologia e in fisica.

17. E secondo malizia, o vero difetto di corpo, può essere la mente non sana: quando per difetto d'alcuno principio da la nativitade, sì come [ne'] mentecatti; quando per l'alterazione del cerebro, sì come sono frenetici. E di questa infertade de la mente intende la legge, quando lo Inforzato dice: «In colui che fa testamento, di quel tempo nel quale lo testamento fa, sanitade di mente, non di corpo, è a domandare». Per che a quelli intelletti che per malizia d'animo o di corpo infermi non sono, liberi, espediti e sani a la luce de la veritade, dico essere manifesto l'oppinione de la gente, che detto è, essere vana, cioè sanza valore.

18. Appresso soggiugne, che io così li giudico falsi e vani, e così li ripruovo; e ciò si fa quando si dice: E io così per falsi li riprovo. E appresso dico che da venire è a la veritade mostrare; e dico che mostrare [è] quello, cioè che cosa è gentilezza, e come si può conoscere l'uomo in cui essa è. E ciò dico quivi: E dicer voglio omai, sì com'io sento.

 

Capitolo XVI.

1. «Lo rege si letificherà in Dio, e saranno lodati tutti quelli che giurano in lui, però che serrata è la bocca di coloro che parlano le inique cose». Queste parole posso io qui veramente proponere; però che ciascuno vero rege dee massimamente amare la veritade. Ond'è scritto nel libro di Sapienza: «Amate lo lume di sapienza, voi che siete dinanzi a li populi»; e lume di sapienza è essa veritade. Dico adunque che però si rallegrerà ogni rege che riprovata è la falsissima e dannosissima oppinione de li malvagi e ingannati uomini che di nobilitade hanno infino a ora iniquamente parlato.

2. Convienesi procedere al trattato de la veritade, secondo la divisione fatta nel terzo capitolo di questo trattato. Questa seconda parte adunque, che comincia: Dico ch'ogni vertù principalmente, intende diterminare d'essa nobilitade secondo la veritade; e partesi questa parte in due: che ne la prima s'intende mostrare che è questa nobilitade; ne la seconda s'intende mostrare come conoscere si puote colui dov'ella è: e comincia questa parte seconda: L'anima cui adorna esta bontate. 3. La prima parte ha due parti ancora: che ne la prima si cercano certe cose che sono mestiere a veder la diffinizione di nobilitade; ne la seconda si cerca de la sua diffinizione: e comincia questa seconda parte: È gentilezza dovunqu'è vertute.

4. A perfettamente entrare per lo trattato è prima da vedere due cose: l'una, che per questo vocabulo 'nobilitade' s'intende, solo semplicemente considerato; l'altra è per che via sia da camminare a cercare la prenominata diffinizione. Dico adunque che, se volemo riguardo avere de la comune consuetudine di parlare, per questo vocabulo 'nobilitade' s'intende perfezione di propria natura in ciascuna cosa. 5. Onde non pur de l'uomo è predicata, ma eziandio di tutte cose - chè l'uomo chiama nobile pietra, nobile pianta, nobile cavallo, nobile falcone - qualunque in sua natura si vede essere perfetta. E però dice Salomone ne lo Ecclesiastes: «Beata la terra lo cui re è nobile», che non è altro a dire, se non lo cui rege è perfetto, secondo la perfezione de l'animo e del corpo; e così manifesta per quello che dice dinanzi quando dice: «Guai a te, terra, lo cui rege è pargolo», cioè non perfetto uomo: e non è pargolo uomo pur per etade, ma per costumi disordinati e per difetto di vita, sì come n'ammaestra lo Filosofo nel primo de l'Etica. 6. Bene sono alquanti folli che credono che per questo vocabulo 'nobile' s'intenda 'essere da molti nominato e conosciuto', e dicono che viene da uno verbo che sta per conoscere, cioè 'nosco'. E questo è falsissimo; chè, se ciò fosse, quali cose più fossero nomate e conosciute in loro genere, più sarebbero in loro genere nobili: e così la guglia di San Piero sarebbe la più nobile pietra del mondo; e Asdente, lo calzolaio da Parma, sarebbe più nobile che alcuno suo cittadino; e Albuino de la Scala sarebbe più nobile che Guido da Castello di Reggio: che ciascuna di queste cose è falsissima. E però è falsissimo che 'nobile' vegna da 'conoscere', ma viene da 'non vile'; onde 'nobile' è quasi 'non vile'. 7. Questa perfezione intende lo Filosofo nel settimo de la Fisica quando dice: «Ciascuna cosa è massimamente perfetta quando tocca e aggiugne la sua virtude propria, e allora è massimamente secondo sua natura; onde allora lo circulo si può dicere perfetto quando veramente è circulo», cioè quando aggiugne la sua propria virtude; e allora è in tutta sua natura, e allora si può dire nobile circulo. 8. E questo è quando in esso è uno punto lo quale equalmente distante sia da la circunferenza, sua virtute part[icular]e; per[ò] lo circulo che ha figura d'uovo non è nobile, nè quello che ha figura di presso che piena luna, però che non è in quello sua natura perfetta. E così manifestamente vedere si può che generalmente questo vocabulo, cioè nobilitade, dice in tutte cose perfezione di loro natura: e questo è quello che primamente si cerca, per meglio entrare nel trattato de la parte che esponere s'intende.

9. Secondamente è da vedere come da camminare è a trovare la diffinizione de l'umana nobilitade, a la quale intende lo presente processo. Dico adunque che, con ciò sia cosa che in quelle cose che sono d'una spezie, sì come sono tutti li uomini, non si può per li principii essenziali la loro ottima perfezione diffinire, conviensi quella e diffinire e conoscere per li loro effetti. 10. E però si legge nel Vangelio di santo Matteo - quando dice Cristo: «Guardatevi da li falsi profeti» -: «A li frutti loro conoscerete quelli». E per lo cammino diritto è da vedere, questa diffinizione che cercando si vae, per li frutti: che sono morali vertù e intellettuali, de le quali essa nostra nobilitade è seme, sì come ne la sua diffinizione sarà pienamente manifesto. E queste sono quelle due cose che vedere si convenia prima che ad altre si procedesse, sì come in questo capitolo di sopra si dice.

 

Capitolo XVII.

1. Appresso che vedute sono quelle due cose che parevano utili a vedere prima che sopra lo testo si procedesse, ad esso esponere è da procedere. E dice e comincia adunque: Dico ch'ogni vertù principalmente Vien da una radice: Vertute, dico, che fa l'uom felice In sua operazione. E soggiungo: Questo è, secondo che l'Etica dice, Un abito eligente, ponendo tutta la diffinizione de la morale virtù, secondo che nel secondo de l'Etica è per lo Filosofo diffinito. 2. In che due cose principalmente s'intende: l'una è che ogni vertù vegna d'uno principio; l'altra sì è che queste ogni vertù siano le vertù morali, di cui si parla; e ciò si manifesta quando dice: Questo è, secondo che l'Etica dice. Dove è da sapere che propiissimi nostri frutti sono le morali vertudi, però che da ogni canto sono in nostra podestade. 3. E queste diversamente da diversi filosofi sono distinte e numerate; ma però che in quella parte dove aperse la bocca la divina sentenza d'Aristotile da lasciare mi pare ogni altrui sentenza, volendo dire quali queste sono, brevemente secondo la sua sentenza trapasserò di quelle ragionando.

4. Queste sono undici vertudi dal detto Filosofo nomate. La prima si chiama Fortezza, la quale è arme e freno a moderare l'audacia e la timiditate nostra, ne le cose che sono corr[u]zione de la nostra vita. La seconda è Temperanza, che è regola e freno de la nostra gulositade e de la nostra soperchievole astinenza ne le cose che conservano la nostra vita. La terza si è Liberalitade, la quale è moderatrice del nostro dare e del nostro ricevere le cose temporali. 5. La quarta si è Magnificenza, la quale è moderatrice de le grandi spese, quelle facendo e sostenendo a certo termine. La quinta si è Magnanimitade, la quale è moderatrice e acquistatrice de' grandi onori e fama. La sesta si è Amativa d'onore, la quale è moderatrice e ordina noi a li onori di questo mondo. La settima si è Mansuetudine, la quale modera la nostra ira e la nostra troppa pazienza contra li nostri mali esteriori. 6. L'ottava si è Affabilitade, la quale fa noi ben convenire con li altri. La nona si è chiamata Veritade, la quale modera noi dal vantare noi oltre che siamo e da lo diminuire noi oltre che siamo, in nostro sermone. La decima si è chiamata Eutrapelia, la quale modera noi ne li sollazzi facendo, quelli usando debitamente. L'undecima si è Giustizia, la quale ordina noi ad amare e operare dirittura in tutte cose. 7. E ciascuna di queste vertudi ha due inimici collaterali, cioè vizii, uno in troppo e un altro in poco; e queste tutte sono li mezzi intra quelli, e nascono tutte da uno principio, cioè da l'abito de la nostra buona elezione: onde generalmente si può dicere di tutte che siano abito elettivo consistente nel mezzo. 8. E queste sono quelle che fanno l'uomo beato, o vero felice, ne la loro operazione, sì come dice lo Filosofo nel primo de l'Etica quando diffinisce la Felicitade, dicendo che «Felicitade è operazione secondo virtude in vita perfetta». Bene si pone Prudenza, cioè senno, per molti, essere morale virtude, ma Aristotile dinumera quella intra le intellettuali; avvegna che essa sia conduttrice de le morali virtù e mostri la via per ch'elle si compongono e sanza quella essere non possono.

9. Veramente è da sapere che noi potemo avere in questa vita due felicitadi, secondo due diversi cammini, buono e ottimo, che a ciò ne menano: l'una è la vita attiva, e l'altra la contemplativa; la quale, avvegna che per l'attiva si pervegna, come detto è, a buona felicitade, ne mena ad ottima felicitade e beatitudine, secondo che pruova lo Filosofo nel decimo de l'Etica. 10. E Cristo l'afferma con la sua bocca, nel Vangelio di Luca, parlando a Marta, e rispondendo a quella: «Marta, Marta, sollicita se' e turbiti intorno a molte cose: certamente una cosa è necessaria», cioè 'quello che fai'. E soggiugne: «Maria ottima parte ha eletta, la quale non le sarà tolta». E Maria, secondo che dinanzi è scritto a queste parole del Vangelio, a' piedi di Cristo sedendo, nulla cura del ministerio de la casa mostrava; ma solamente le parole del Salvatore ascoltava. 11. Che se moralemente ciò volemo esponere, volse lo nostro Segnore in ciò mostrare che la contemplativa vita fosse ottima, tutto che buona fosse l'attiva: ciò è manifesto a chi ben vuole porre mente a le evangeliche parole. Potrebbe alcuno però dire, contra me argomentando: 'Poichè la felicitade de la vita contemplativa è più eccellente che quella de l'attiva, e l'una e l'altra possa essere e sia frutto e fine di nobilitade, perchè non anzi si procedette per la via de le virtù intellettuali che de le morali?' 12. A ciò si può brievemente rispondere che in ciascuna dottrina si dee avere rispetto a la facultà del discente, e per quella via menarlo che più a lui sia lieve. Onde, perciò che le virtù morali paiano essere e siano più comuni e più sapute e più richieste che l'altre e [im]itate ne lo aspetto di fuori, utile e convenevole fu più per quello cammino procedere che per l'altro; chè così bene [non] si verrebbe a la conoscenza de le api per lo frutto de la cera ragionando come per lo frutto del mele, tutto che l'uno e l'altro da loro procede.

 

Capitolo XVIII.

1. Nel precedente capitolo è diterminato come ogni vertù morale viene da uno principio, cioè buona e abituale elezione; e ciò importa lo testo presente infino a quella parte che comincia: Dico che nobiltate in sua ragione. 2. In questa parte adunque si procede per via probabile a sapere che ogni sopra detta virtude, singularmente o ver generalmente presa, proceda da nobilitade sì come effetto da sua cagione. E fondasi sopra una proposizione filosofica, che dice che quando due cose si truovano convenire in una, che ambo queste si deono riducere ad alcuno terzo, o vero l'una a l'altra, sì come effetto a cagione; però che una cosa avuta prima e per sè non può essere se non da uno: e se quelle non fossero ambedue effetto d'un terzo, o vero l'una de l'altra, ambedue avrebbero quella cosa prima e per sè, ch'è impossibile. 3. Dice adunque che nobilitade e vertute cotale, cioè morale, convegnono in questo, che l'una e l'altra importa loda di colui di cui si dice; e dico ciò quando dice: Per che in medesmo detto Convegnono ambedue, ch'en d'uno effetto, cioè lodare e rendere pregiato colui cui esser si dicono. E poi conchiude prendendo la vertude de la sopra notata proposizione, e dice che però conviene l'una procedere da l'altra, o vero ambe da un terzo; e soggiunge che più tosto è da presummere l'una venire da l'altra, che ambe da terzo, s'elli appare che l'una vaglia quanto l'altra, e più ancora; e ciò dice: Ma se l'una val ciò che l'altra vale. 4. Ove è da sapere che qui non si procede per necessaria dimostrazione, sì come sarebbe a dire, se lo freddo è generativo de l'acqua, e noi vedemo li nuvoli [generare acqua, che lo freddo è generativo de li nuvoli]; sì di bella e convenevole induzione, che se in noi sono più cose laudabili, [e] in noi è lo principio de le nostre lodi, ragionevole è queste a questo principio riducere; e quello che comprende più cose, più ragionevolemente si dee dire principio di quelle, che quelle principio di lui. 5. Chè lo piè de l'albero, che tutti li altri rami comprende, si dee principio dire e cagione di quelli, e non quelli di lui; e così nobilitade, [che] comprende ogni vertude, sì come cagione effetto comprende, [e] molte altre nostre operazioni laudabili, si dee avere per tale, che la vertude sia da ridurre ad essa prima che ad altro terzo che in noi sia.

6. Ultimamente dice, che quello ch'è detto (cioè, che ogni vertù morale vegna da una radice, e che vertù cotale e nobilitade convegnano in una cosa, come detto è di sopra; e che però si convegna l'una reducere a l'altra, o vero ambe ad uno terzo; e che se l'una vale quello che l'altra e più, di quella [questa] proceda maggiormente che d'altro terzo), tutto sia per supposto, cioè ordito e apparecchiato a quello che per innanzi s'intende. E così termina questo verso e questa presente parte.

 

Capitolo XlX.

1. Poi che ne la precedente parte sono pertrattate certe cose e diterminate, ch'erano necessarie a vedere come diffinire si possa questa buona cosa di che si parla, procedere si conviene a la seguente parte, che comincia: È gentilezza dovunqu'è vertute. 2. E questa si vuole in due parti reducere: ne la prima si pruova certa cosa che dinanzi è toccata e lasciata non provata; ne la seconda, conchiudendo, si truova questa diffinizione che cercando si va. E comincia questa seconda parte: Dunque verrà, come dal nero il perso.

3. Ad evidenza de la prima parte, da reducere a memoria è che di sopra si dice che se nobilitade vale e si stende più che vertute, [vertute] più tosto procederà da essa. La qual cosa ora in questa parte pruova, cioè che nobilitade più si stenda; e rende essemplo del cielo, dicendo che dovunque è vertude, quivi è nobilitade. 4. E quivi si vuole sapere che, sì come scritto è in Ragione e per regola di Ragione si tiene, in quelle cose che per sè sono manifeste non è mestiere di pruova; e nulla n'è più manifesta che nobilitade essere dove è vertude, e ciascuna cosa volgarmente vedemo, in sua natura [virtuosa], nobile esser chiamata. 5. Dice dunque: Sì com'è 'l cielo dovunqu'è la stella, e non è questo vero e converso, cioè rivolto, che dovunque è cielo sia la stella, così è nobilitade dovunque è vertude, e non vertude dovunque nobilitade: e con bello e convenevole essemplo, chè veramente è cielo ne lo quale molte e diverse stelle rilucono. Riluce in essa le intellettuali e le morali virtudi; riluce in essa le buone disposizioni da natura date, cioè pietade e religione, e le laudabili passioni, cioè vergogna e misericordia e altre molte; riluce in essa le corporali bontadi, cioè bellezza, fortezza e quasi perpetua valitudine. 6. E tante sono le sue stelle, che [n]el cielo si stendono, che certo non è da maravigliare se molti e diversi frutti fanno ne la umana nobilitade; tante sono le nature e le potenze di quella, in una sotto una semplice sustanza comprese e adunate, ne le quali sì come in diversi rami fruttifica diversamente. Certo da dovvero ardisco a dire che la nobilitade umana, quanto è da la parte di molti suoi frutti, quella de l'angelo soperchia, tutto che l'angelica in sua unitade sia più divina. 7. Di questa nobilitade nostra, che in tanti e tali frutti fruttificava, s'accorse lo Salmista, quando fece quel Salmo che comincia: «Segnore nostro Iddio, quanto è ammirabile lo nome tuo ne l'universa terra!», là dove commenda l'uomo, quasi maravigliandosi del divino affetto in essa umana creatura, dicendo: «Che cosa è l'uomo, che tu, Dio, lo visiti? Tu l'hai fatto poco minore che li angeli, di gloria e d'onore l'hai coronato, e posto lui sopra l'opere de le mani tue». Veramente dunque bella e convenevole comparazione fu del cielo a l'umana nobilitade.

8. Poi quando dice: E noi in donna e in età novella, pruova ciò che dico, mostrando che la nobilitade si stenda in parte dove virtù non sia. E dice poi: vedem questa salute: e tocca nobilitade, che bene è vera salute, essere là dove è vergogna, cioè tema di disnoranza, sì come è ne le donne e ne li giovani, dove la vergogna è buona e laudabile; la qual vergogna non è virtù, ma certa passione buona. 9. E dice: E noi in donna e in età novella, cioè in giovani; però che, secondo che vuole lo Filosofo nel quarto de l'Etica, «vergogna non è laudabile nè sta bene ne li vecchi e ne li uomini studiosi», però che a loro si conviene di guardare da quelle cose che a vergogna li conducano. 10. A li giovani e a le donne non è tanto richesto di c[au]tela, e però in loro è laudabile la paura del disnore ricevere per la colpa; che da nobilitade viene, e nobilitade si puote credere e in loro chiamare, sì come viltade e ignobilitade la sfacciatezza. Onde buono e ottimo segno di nobilitade è ne li pargoli e imperfetti d'etade, quando dopo lo fallo nel viso loro vergogna si dipinge, che è allora frutto di vera nobilitade.

 

Capitolo XX.

1. Quando appresso seguita: Dunque verrà, come dal nero il perso, procede lo testo a la diffinizione di nobilitade, la qual si cerca, e per la quale si potrà vedere che è questa nobilitade di che tanta gente erroneamente parla. Dice dunque, conchiudendo da quello che dinanzi detto è: dunque ogni vertude, o vero il gener loro, cioè l'abito elettivo consistente nel mezzo, verrà da questa, cioè nobilitade. 2. E rende essemplo ne li colori, dicendo: sì come lo perso dal nero discende, così questa, cioè vertude, discende da nobilitade. Lo perso è uno colore misto di purpureo e di nero, ma vince lo nero, e da lui si dinomina; e così la vertù è una cosa mista di nobilitade e di passione; ma perchè la nobilitade vince in quella, è la vertù dinominata da essa, e appellata bontade. 3. Poi appresso argomenta, per quello che detto è, che nessuno, per poter dire: 'Io sono di cotale schiatta', non dee credere essere con essa, se questi frutti non sono in lui. E rende incontanente ragione, dicendo che quelli che hanno questa grazia, cioè questa divina cosa, sono quasi come dei, sanza macula di vizio; e ciò dare non può se non Iddio solo, appo cui non è scelta di persone, sì come le divine Scritture manifestano. 4. E non paia troppo alto dire ad alcuno, quando si dice: Ch'elli son quasi dei; chè, sì come di sopra nel settimo capitolo del terzo trattato si ragiona, così come uomini sono vilissimi e bestiali, così uomini sono nobilissimi e divini, e ciò pruova Aristotile nel settimo de l'Etica per lo testo d'Omero poeta. 5. Sì che non dica quelli de li Uberti di Fiorenza, nè quelli de li Visconti da Melano: 'Perch'io sono di cotale schiatta, io sono nobile'; chè 'l divino seme non cade in ischiatta, cioè in istirpe, ma cade ne le singulari persone, e, sì come di sotto si proverà, la stirpe non fa le singulari persone nobili, ma le singulari persone fanno nobile la stirpe.

6. Poi, quando dice: Chè solo Iddio a l'anima la dona, ragione è del suscettivo, cioè del subietto dove questo divino dono discende: ch'è bene divino dono, secondo la parola de l'Apostolo: «Ogni ottimo dato e ogni dono perfetto di suso viene, discendendo dal padre de' lumi». 7. Dice adunque che Dio solo porge questa grazia a l'anima di quelli cui vede stare perfettamente ne la sua persona, acconcio e disposto a questo divino atto ricevere. Chè, secondo dice lo Filosofo nel secondo de l'Anima, «le cose convengono essere disposte a li loro agenti, e a ricevere li loro atti»; onde se l'anima è imperfettamente posta, non è disposta a ricevere questa benedetta e divina infusione: sì come se una pietra margarita è male disposta, o vero imperfetta, la vertù celestiale ricever non può, sì come disse quel nobile Guido Guinizzelli in una sua canzone, che comincia: Al cor gentil ripara sempre Amore. 8. Puote adunque l'anima stare non bene ne la persona per manco di complessione, o forse per manco di temporale: e in questa cotale questo raggio divino mai non risplende. E possono dire questi cotali, la cui anima è privata di questo lume, che essi siano sì come valli volte ad aquilone, o vero spelunche sotterranee, dove la luce del sole mai non discende, se non ripercussa da altra parte da quella illuminata.

9. Ultimamente conchiude, e dice che, per quello che dinanzi detto è (cioè che le vertudi sono frutto di nobilitade, e che Dio questa metta ne l'anima che ben siede), che ad alquanti, cioè a quelli che hanno intelletto, che sono pochi, è manifesto che nobilitade umana non sia altro che 'seme di felicitade', messo da Dio ne l'anima ben posta, cioè lo cui corpo è d'ogni parte disposto perfettamente. Chè se le vertudi sono frutto di nobilitade, e felicitade è dolcezza [per quelle] comparata, manifesto è essa nobilitade essere semente di felicitade, come detto è. 10. E se bene si guarda, questa diffinizione tutte e quattro le cagioni, cioè materiale, formale, efficiente e finale, comprende: materiale in quanto dice: ne l'anima ben posta, che è materia e subietto di nobilitade: formale in quanto dice che è seme; efficiente in quanto dice: Messo da Dio ne l'anima; finale in quanto dice: di felicità. E così è diffinita questa nostra bontade, la quale in noi similemente discende da somma e spirituale Virtude, come virtude in pietra da corpo nobilissimo celestiale.

 

Capitolo XXI.

1. Acciò che più perfettamente s'abbia conoscenza de la umana bontade, secondo che in noi è principio di tutto bene, la quale nobilitade si chiama, da chiarire è in questo speziale capitolo come questa bontade discende in noi; e prima per modo naturale, e poi per modo teologico, cioè divino e spirituale. 2. In prima è da sapere che l'uomo è composto d'anima e di corpo; ma ne l'anima è quella; sì come detto è che è a guisa di semente de la virtù divina. Veramente per diversi filosofi de la differenza de le nostre anime fue diversamente ragionato: chè Avicenna e Algazel volsero che esse da loro e per loro principio fossero nobili e vili; e Plato e altri volsero che esse procedessero da le stelle, e fossero nobili e più e meno secondo la nobilitade de la stella. 3. Pittagora volse che tutte fossero d'una nobilitade, non solamente le umane, ma con le umane quelle de li animali bruti e de le piante, e le forme de le minere; e disse che tutta la differenza è de le corpora e de le forme. Se ciascuno fosse a difendere la sua oppinione, potrebbe essere che la veritade si vedrebbe essere in tutte; ma però che ne la prima faccia paiono un poco lontane dal vero, non secondo quelle procedere si conviene, ma secondo l'oppinione d'Aristotile e de li Peripatetici. 4. E però dico che quando l'umano seme cade nel suo recettaculo, cioè ne la matrice, esso porta seco la vertù de l'anima generativa e la vertù del cielo e la vertù de li elementi legati, cioè la complessione; e matura e dispone la materia a la vertù formativa, la quale diede l'anima del generante; e la vertù formativa prepara li organi a la vertù celestiale, che produce de la potenza del seme l'anima in vita. 5. La quale, incontanente produtta, riceve da la vertù del motore del cielo lo intelletto possibile; lo quale potenzialmente in sè adduce tutte le forme universali, secondo che sono nel suo produttore, e tanto meno quanto più dilungato da la prima Intelligenza è.

6. Non si maravigli alcuno, s'io parlo sì che par forte ad intendere; chè a me medesimo pare maraviglia, come cotale produzione si può pur conchiudere e con lo intelletto vedere. Non è cosa da manifestare a lingua, lingua, dico, veramente volgare. Per che io voglio dire come l'Apostolo: «O altezza de le divizie de la sapienza di Dio, come sono incomprensibili li tuoi giudicii e investigabili le tue vie!». 7. E però che la complessione del seme puote essere migliore e men buona, e la disposizione del seminante puote essere migliore e men buona, e la disposizione del Cielo a questo effetto puote essere buona, migliore e ottima (la quale si varia per le constellazioni, che continuamente si transmutano); incontra che de l'umano seme e di queste vertudi più pura [e men pura] anima si produce; e, secondo la sua puritade, discende in essa la vertude intellettuale possibile che detta è, e come detto è. 8. E s'elli avviene che, per la puritade de l'anima ricevente, la intellettuale vertude sia bene astratta e assoluta da ogni ombra corporea, la divina bontade in lei multiplica, sì come in cosa sufficiente a ricevere quella, e quindi sì multiplica ne l'anima questa intelligenza, secondo che ricevere puote. E questo è quel seme di felicitade del quale al presente si parla. 9. E ciò è concordevole a la sentenza di Tullio in quello De Senectute, che, parlando in persona di Catone, dice: «Imperciò celestiale anima discese in noi, de l'altissimo abitaculo venuta in loco lo quale a la divina natura e a la etternitade è contrario». E in questa cotale anima è la vertude sua propria, e la intellettuale, e la divina, cioè quella influenza che detta è: però è scritto nel libro de le Cagioni: «Ogni anima nobile ha tre operazioni, cioè animale, intellettuale e divina». 10. E sono alcuni di tale oppinione che dicono, se tutte le precedenti vertudi s'accordassero sovra la produzione d'un'anima ne la loro ottima disposizione, che tanto discenderebbe in quella de la deitade, che quasi sarebbe un altro Iddio incarnato. E quasi questo è tutto ciò che per via naturale dicere si puote.

11. Per via teologica si può dire che, poi che la somma deitade, cioè Dio, vede apparecchiata la sua creatura a ricevere del suo beneficio, tanto largamente in quella ne mette quanto apparecchiata è a riceverne. E però che da ineffabile caritate vegnono questi doni, e la divina caritate sia appropriata a lo Spirito Santo, quindi è che chiamati sono doni di Spirito Santo. 12. Li quali, secondo che li distingue Isaia profeta, sono sette, cioè Sapienza, Intelletto, Consiglio, Fortezza, Scienza, Pietade e Timore di Dio. Oh buone biade, e buona e ammirabile sementa! e oh ammirabile e benigno seminatore, che non attende se non che la natura umana li apparecchi la terra a seminare! e beati quelli che tale sementa coltivano come si conviene! 13. Ove è da sapere che 'l primo e lo più nobile rampollo che germogli di questo seme, per essere fruttifero, si è l'appetito de l'animo, lo quale in greco è chiamato 'hormen'. E se questo non è bene culto e sostenuto diritto per buona consuetudine, poco vale la sementa, e meglio sarebbe non essere seminato. 14. E però vuole santo Augustino, e ancora Aristotile nel secondo de l'Etica, che l'uomo s'ausi a ben fare e a rifrenare le sue passioni, acciò che questo tallo, che detto è, per buona consuetudine induri, e rifermisi ne la sua rettitudine, sì che possa fruttificare, e del suo frutto uscire la dolcezza de l'umana felicitade.