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Thursday 5 October 2017

"Apparecchio alla Morte" by St Alfonso Maria de Liguori (in Italian) – XXXIII

CONSIDERAZIONE XXXII - DELLA CONFIDENZA NEL PATROCINIO DI MARIA SANTISSIMA
«Qui invenerit me, inveniet vitam, et hauriet salutem a Domino» (Prov. 8. 35).


PUNTO I
  Quanto dobbiamo ringraziare la misericordia del nostro Dio in averci data Maria per avvocata, che colle sue preghiere può ottenerci tutte le grazie che desideriamo. «O certe Dei nostri mira benignitas (esclama S. Bonaventura), qui suis reis te Dominam tribuit advocatam, ut auxilio tuo quod volueris valeas impetrare» (In Salve Reg.). Peccatori, fratelli miei, se ci troviamo rei colla divina giustizia e già condannati all'inferno per li nostri peccati, non ci disperiamo, ricorriamo a questa divina Madre, mettiamoci sotto il suo manto, ed ella ci salverà. Buona intenzione ci vuole di voler mutar vita: buona intenzione e confidenza grande in Maria, e saremo salvi. E perché? perché Maria è un'avvocata «potente», un'avvocata «pietosa», un'avvocata «che desidera di salvar tutti».
  In primo luogo consideriamo che Maria è un'avvocata «potente», che può tutto appresso il giudice a beneficio de' suoi divoti. Questo è un privilegio singolare, concedutole dallo stesso giudice ch'è suo Figlio: «Grande privilegium, quod Maria apud Filium sit potentissima» (S. Bonav. in Spec. Lect. 6). Dice Gio. Gersone (tr. 6. sup. Magn.) che la B. Vergine niente chiede da Dio con volontà assoluta, che non l'ottenga; e ch'ella come regina manda gli angeli ad illuminare, purgare e perfezionare i suoi servi. Perciò la Chiesa affin d'infonderci confidenza verso questa grande avvocata, ce la fa invocare col nome di Vergine potente: «Virgo potens, ora pro nobis». E perché il patrocinio di Maria è così potente? perché Ella è Madre di Dio. «Oratio Deiparae», dice S. Antonino, «habet rationem imperii, unde impossibile est eam non exaudiri» (Part. 4. tit. 15. c. 17. c. 4). Le preghiere di Maria, essendo ella madre, hanno una certa ragion di comando appresso Gesu-Cristo: e perciò è impossibile ch'ella, quando prega, non sia esaudita. Dice S. Giorgio Arcivescovo di Nicomedia che 'l Redentore, quasi per soddisfare all'obbligo ch'Egli ha a questa madre, per avergli dato l'esser umano, esaudisce tutte le sue dimande: «Filius quasit exsolvens debitum, petitiones tuas implet» (Orat. de Exitu Mar.). Quindi S. Teofilo Vescovo d'Alessandria lasciò scritto così: «Il Figliuolo gradisce d'esser pregato da sua Madre, perché vuole accordarle quanto gli domanda, per così ricompensare il favore da lei ricevuto in avergli data la carne». Che perciò il martire S. Metodio esclamava: «Euge, euge, quae debitorem habes Filium! Deo enim universi debemus, tibi autem ille debitor est» (Orat. Hyp. Dom.). Rallegrati, rallegrati, o Maria, che hai la sorte di avere per debitore quel Figlio, a cui tutti noi siam debitori, poiché quanto abbiamo, tutto è suo dono.
  Quindi dicea Cosma Gerosolimitano che l'aiuto di Maria è onnipotente: «Omnipotens auxilium tuum, o Maria». Sì, è onnipotente, lo conferma Riccardo di S. Lorenzo, mentr'è giusto che la Madre partecipi della potestà del Figlio; il Figlio dunque ch'è onnipotente ha fatta onnipotente la Madre: «Cum autem eadem sit potestas Filii, et Matris, ab omnipotente Filio omnipotens Mater facta est» (Lib. 4 de Laud. Virg.). Il Figlio è onnipotente per natura, la Madre è onnipotente per grazia; viene a dire ch'Ella ottiene colle sue preghiere quanto dimanda, secondo quel celebre verso: «Quod Deus imperio, tu prece, Virgo, potes». E ciò appunto fu rivelato a S. Brigida (Rev. lib. I. c. 4). Un giorno questa santa intese che Gesù parlando con Maria le disse: «Pete quod vis a me, non enim potest esse inanis petitio tua». Madre mia, cercami quanto vuoi, sai che qualunque tua domanda non può non esser da me esaudita. E poi ne soggiunse la ragione: «Quia tu mihi nihil negasti in terris. Ego nihil tibi negabo in coelis». Voi niente mi avete negato vivendo in terra, è ragione ch'io niente vi neghi ora che state meco in cielo.
  In somma non v'è alcuno, quantunque scelerato, che Maria non possa salvarlo colla sua intercessione. «Habes vires iusuperabiles (le dicea S. Gregorio Nicomediense), ne clementiam tuam superet multitudo peccatorum. Nihil tuae resistit potentiae; tuam enim gloriam Creator existimat esse propriam» (Orat. de Exitu B. V.). O Madre di Dio, niente può resistere alla vostra potenza, giacché il vostro Creatore stima la gloria vostra come propria. Voi dunque tutto potete, le dice anche S. Pier Damiani, mentre potete salvare ancora i disperati. «Nihil tibi impossibile, quae etiam desperatos in spem salutis potes relevare» (Serm. 1. de Nat. B. V.).

Affetti e preghiere
   Cara mia Regina e Madre, vi dirò con S. Germano: «Voi siete onnipotente per salvare i peccatori e non avete bisogno d'altra raccomandazione appresso Dio, perché siete la Madre della vera vita» (Serm. 3. in Dorm. B. V.). Dunque, Signora mia, s'io ricorro a Voi, non possono tutt'i peccati miei farmi diffidare della salute. Voi ottenete colle vostre preghiere quanto volete: se voi pregate per me, io certamente sarò salvo. Pregate dunque per me miserabile, (vi dirò con S. Bernardo), o gran Madre di Dio, perché il vostro Figlio vi ascolta e vi concede quanto voi gli domandate: «Loquere, Domina, quia audit Filius tuus, et quaecunque petieris impetrabis». Io son peccatore è vero, ma voglio emendarmi, e mi vanto di essere vostro servo speciale. Son indegno è vero della vostra protezione, ma io so che Voi non avete mai abbandonato alcuno, che in Voi ha posta la sua confidenza. Voi potete e volete salvarmi, ed io in Voi confido. Quando io era perduto e non pensava a Voi, Voi avete pensato a me, e mi avete ottenuta la grazia di ravvedermi; quanto più debbo ora confidare nella vostra pietà, or che mi son dedicato alla vostra servitù e a Voi mi raccomando e spero? O Maria, pregate per me, e fatemi santo. Ottenetemi la santa perseveranza, ottenetemi un grande amore verso del vostro Figlio e verso Voi, Madre mia così amabile. Io v'amo, Regina mia, e spero d'amarvi sempre. Amatemi ancora Voi, e col vostro amore mutatemi da peccatore in santo.


PUNTO II
            Consideriamo in secondo luogo che Maria è un'avvocata quanto potente, altrettanto «pietosa», che non sa negare il suo patrocinio ad ognuno che a lei ricorre. Gli occhi del Signore, dice Davide, stan rivolti sopra de' giusti, ma questa Madre di misericordia (come dice Riccardo di S. Lorenzo) tiene gli occhi sopra de' giusti, come sopra de' peccatori, acciocché o non cadano, o se mai son caduti, colla sua intercessione ella gli sollevi: «Sed oculi Dominae super iustos et peccatores, sicut oculi matris ad puerum, ne cadat; vel si ceciderit, ut sublevet». Dicea S. Bonaventura che guardando Maria gli parea di guardare la stessa misericordia: «Certe Domina, cum te aspicio, nihil nisi misericordiam cerno». Quindi ci esorta S. Bernardo a raccomandarci in tutti i nostri bisogni a questa potente avvocata con gran confidenza, poiché ella è tutta dolce e benigna con ognuno che a lei si raccomanda: «Quid ad Mariam accedere trepidat humana fragilitas? nihil austerum in ea, nihil terribile, tota suavis est». Perciò Maria è chiamata uliva: «Quasi oliva speciosa in campis» (Eccli. 24). Siccome dall'uliva non esce altro che olio, simbolo della pietà, così dalle mani di Maria non escono che grazie e misericordie, ch'ella dispensa a tutti coloro che si ricoverano sotto il suo patrocinio. Onde con ragione Dionisio Cartusiano la chiama l'avvocata di tutti i peccatori, che a lei ricorrono: «Advocata omnium iniquorum ad se confugientium». Oh Dio, e qual pena avrà un cristiano che si dannerà, pensando che potea in vita salvarsi con tanta facilità, ricorrendo a questa Madre di misericordia, e non l'ha fatto, e poi non sarà più a tempo di farlo! Disse la B. Vergine un giorno a S. Brigida: Io son chiamata la Madre della misericordia, e tale io sono, perché tale mi ha fatta la misericordia di Dio: «Ego vocor ab omnibus mater misericordiae, et vere misericordia illius misericordem me fecit» (Rev. lib. 1. cap. 6). Ed in verità chi ci ha data questa avvocata a difenderci, se non la misericordia di Dio, perché ci vuole salvi? «Ideo miser erit (soggiunse Maria) qui ad misericordiam, cum possit, non accedit». Misero disse, e misero in eterno sarà chi potendo in questa vita raccomandarsi a me, che sono così benigna e pietosa con tutti, infelice non ricorre e si danna.
            Forse temiamo, dice S. Bonaventura, che cercando aiuto a Maria, ella ce lo neghi? No, dice il santo: «Ipsa enim non misereri ignorat, et miseris non fatisfacere nunquam scivit». No che non sa, né ha saputo mai Maria lasciar di compatire e di aiutare qualunque miserabile che a lei è ricorso. Non sa, né può farlo, perché ella ci è stata assegnata da Dio per regina e madre di misericordia: come regina di misericordia ella è tenuta ad aver cura de' miseri: «Tu Regina misericordiae (le dice S. Bernardo), et qui subditi misericordiae, nisi miseri?» Onde il santo poi per umiltà le soggiungea così: Giacché Voi dunque, o Madre di Dio, siete la regina della misericordia, dovete avere più cura di me, che fra tutti sono il peccatore più misero: «Tu regina misericordiae, et ego miserrimus peccator, subditorum maximus; rege nos ergo, o regina misericordiae». Come madre poi di misericordia dee attendere a liberar dalla morte i suoi figli infermi, de' quali la sola sua pietà ne la rende madre. Pertanto S. Basilio la chiama, «publicum valetudinarium», pubblico spedale. Gli spedali pubblici son fatti per gl'infermi poveri, e chi è più povero, ha più ragione d'esservi accolto; e così, secondo S. Basilio, Maria dee accogliere con maggior pietà ed attenzione i peccatori più grandi, che a lei ricorrono.
            Ma non dubitiamo della pietà di Maria. Un giorno S. Brigida intese che 'l Salvatore diceva alla Madre: «Etiam diabolo misericordiam exhiberes, si humiliter peteret». Lucifero il superbo non si umilierà mai a far questo, ma se il misero si umiliasse a questa divina Madre, e la pregasse ad aiutarlo, Maria colla sua intercessione lo caccerebbe dall'inferno. Con ciò volle darci ad intendere Gesu-Cristo ciò che Maria stessa poi disse alla santa che quando ricorre a Lei un peccatore, quantunque sia grande, ella non guarda i peccati che porta, ma l'intenzione con cui viene; che se viene con buona volontà d'emendarsi, ella l'accoglie e lo guarisce da tutte le piaghe che tiene: «Quantumcunque homo peccat, si ex vera emendatione ad me reversus fuerit, statim parata sum recipere revertentem: nec attendo quantum peccaverit, sed cum quali voluntate venit. Nam non dedignor eius plagas ungere et sanare; quia vocor, et vere sum mater misericordiae». Quindi ci fa animo S. Bonaventura: «Respirate ad illam, perditi peccatores, et perducet vos ad portum» (in Psal. 8). Poveri peccatori perduti, non vi disperate, alzate gli occhi a Maria, e respirate confidando alla pietà di questa buona madre. Cerchiamo dunque (dice S. Bernardo) la grazia perduta, e cerchiamola per mezzo di Maria: «Quaeramus gratiam, et per Mariam quaeramus» (Serm. de Aquaed.). Questa grazia da noi perduta, ella l'ha ritrovata, dice Riccardo di S. Lorenzo; dunque a lei dobbiamo portarci per ricuperarla: «Cupientes invenire gratiam, quaeramus inventricem gratiae» (De Laud. Virg. lib. 2). Quando S. Gabriele andò ad annunziare a Maria la divina maternità, tra l'altre cose le disse: «Ne timeas Maria, invenisti gratiam» (Luc. 1). Ma se Maria non fu mai priva della grazia, anzi ne fu sempre piena, come potea dirle ch'ella l'avesse ritrovata? Risponde Ugon Cardinale che Maria non ritrovò la grazia per sé, perch'ella sempre l'avea goduta, ma per noi che l'abbiam perduta: onde dice Ugone che dobbiamo a lei andare e dirle: Signora, la roba dee restituirsi a chi l'ha perduta; questa grazia da Voi ritrovata non è già vostra, perché Voi l'avete sempre posseduta; ella è nostra, noi l'abbiamo per nostra colpa perduta, e a noi dunque dovete renderla: «Currant ergo, currant peccatores ad Virginem, qui gratiam amiserant peccando; secure dicant: Redde nobis rem nostram, quam invenisti».

Affetti e preghiere
Ecco, o gran Madre di Dio, a' piedi vostri un misero peccatore che non una ma più volte ha voluto perdere la grazia divina, che 'l vostro Figlio gli avea acquistata colla sua morte. O madre di misericordia, vengo a Voi coll'anima tutta piena di ferite e di piaghe, non mi sdegnate per questo, ma movetevi a maggior compassione, ed aiutatemi. Guardate la confidenza che ho in Voi, e non m'abbandonate. Io non vi cerco beni di terra, vi cerco la grazia di Dio e l'amor al vostro Figlio. Madre mia, pregate per me, e non lasciate mai di pregare. I meriti di Gesu-Cristo e la vostra intercessione mi hanno da salvare. Il vostro officio è d'intercedere per li peccatori: dunque «Advocata nostra (vi dirò con S. Tommaso da Villanova) officium tuum imple»: fate l'officio vostro, raccomandatemi a Dio, e difendetemi. Non vi è causa, per disperata che sia, che si perda quando è difesa da Voi. Voi siete la speranza de' peccatori, Voi siete la speranza mia. O Maria, io non lascerò di servirvi, d'amarvi e di ricorrere sempre a Voi; e Voi non lasciate mai di soccorrermi, specialmente allora che mi vedete in pericolo di tornare a perdere la grazia di Dio. O Maria, o gran Madre di Dio, abbiate pietà di me.

Thursday 21 September 2017

"Apparecchio alla Morte" by St Alfonso Maria de Liguori (in Italian) – XXXII

CONSIDERAZIONE XXXI - DELLA PERSEVERANZA
«Qui perseveraverit usque in finem, hic salvus erit» (Matth. 24. 13).


PUNTO I
              Dice S. Girolamo che molti cominciano bene, ma pochi son quelli che perseverano: «Incipere multorum est, perseverare paucorum» (Lib. I. contra Iovin.). Cominciò bene un Saulle, un Giuda, un Tertulliano; ma poi finirono male, perché non perseverarono nel bene. «Non quaeruntur in christianis initia, sed finis» (S. Hieron. Ep. ad Fur.). Il Signore (siegue a dire il santo) non richiede solamente i principii della buona vita, ma anche il fine; il fine è quello che otterrà il premio. Dice S. Bonaventura che alla sola perseveranza si dà la corona: «Sola perseverantia coronatur». Che perciò S. Lorenzo Giustiniani chiamava la perseveranza la porta del cielo: «coeli ianuam». Dunque non può entrare in paradiso, chi non trova la porta per entrarvi. Fratello mio, voi al presente avete lasciato il peccato, e giustamente sperate d'essere stato perdonato. Siete dunque amico di Dio, ma sappiate che non ancora siete salvo. E quando sarete salvo? Quando avrete perseverato sino alla fine: «Qui perseveraverit usque in finem, hic salvus erit». Avete cominciata la buona vita, ringraziate il Signore;  ma vi avverte S. Bernardo che a chi comincia è solamente promesso il premio, ma poi solamente vien dato a chi persevera: «Incohantibus praemium promittitur, perseverantibus datur» (Serm. 6. de Modo bene viv.). Non basta correre al pallio, ma bisogna correre sino a prenderlo: «Sic currite, ut comprehendatis», dice l'Apostolo (1. Cor. 9. 24).
              Or già avete posta la mano all'aratro, avete principiato a viver bene; ma ora piucché mai temete e tremate. «Cum metu et tremore vestram salutem operamini» (Philip. 2. 12). E perché? perché se (non voglia mai Dio) vi voltate a guardare indietro e ritornate alla mala vita, Dio vi dichiarerà escluso dal paradiso. «Nemo mittens manum ad aratrum, et respiciens retro, aptus est regno Dei» (Luc. 9. 62). Ora per grazia del Signore fuggite le male occasioni, frequentate i sagramenti, fate ogni giorno la meditazione; beato voi se seguite a far così, e così facendo vi troverà Gesu-Cristo, quando verrà a giudicarvi: «Beatus ille servus, quem cum venerit Dominus eius, invenerit sic facientem» (Matth. 24. 46). Ma non credete che ora che vi siete posto a servire a Dio, sian quasi finite, o mancate le tentazioni; udite quel che vi dice lo Spirito Santo: «Fili, accedens ad servitutem Dei, praepara animam tuam ad tentationem» (Eccli. 2. 1). Sappiate che or più che mai dovete apparecchiarvi alle battaglie; perché i nemici, il mondo, il demonio e la carne or più che mai si armeranno a combattervi, per farvi perdere quanto avete acquistato. Dice Dionisio Cartusiano che quanto più alcuno si dà a Dio, tanto più l'inferno cerca di abbatterlo: «Quanto quis fortius nititur Deo servire, tanto acrius contra eum saevit adversarius». E ciò sta abbastanza espresso nel Vangelo di S. Luca, dove si dice: «Cum immundus spiritus exierit ab homine, quaerens requiem et non inveniens, dicit: Revertar in domum meam, unde exivi. Tunc vadit, et assumit septem alios spiritus nequiores se, et ingressi habitant ibi; et fiunt novissima eorum peiora prioribus» (Luc. 11. 24). Il demonio quando è discacciato da un'anima, non trova riposo e mette tutta l'opera per ritornare ad entrarvi, chiama anche compagni in aiuto, e se gli riesce di rientrarvi, sarà assai più grande per quell'anima la seconda ruina, che non fu la prima.
              Andate dunque considerando di qual'armi avete ad avvalervi, per difendervi da questi nemici e conservarvi in grazia di Dio. Per non esser vinto dal demonio, non v'è altra difesa che l'orazione. Dice S. Paolo che noi non abbiamo a combattere contra uomini come noi di carne e sangue, ma contra i principi dell'inferno: «Non est nobis colluctatio adversus carnem et sanguinem, sed adversus principes et potestates» (Eph. 6. 12). E vuole con ciò avvertirci che noi non abbiamo forze da resistere a tali potenze, onde abbiamo bisogno che Dio ci aiuti. Coll'aiuto divino potremo tutto: «Omnia possum in eo qui me confortat» (Phil. 4. 13): così egli dicea, e così dobbiamo dire ciascuno di noi. Ma quell'aiuto non si dona, se non a chi lo domanda coll'orazione. «Petite, et accipietis». Non ci fidiamo dunque de' nostri propositi; se mettiamo a questi confidenza, sarem perduti: tutta la confidenza, quando siam tentati dal demonio, mettiamola all'aiuto di Dio con raccomandarci allora a Gesu-Cristo ed a Maria SS. E specialmente dobbiamo ciò fare, quando siam tentati contro la castità, poiché questa tentazione fra tutte è la più terribile, ed è quella con cui il demonio riporta più vittorie. Noi non abbiamo forza di conservar la castità. Iddio ce l'ha da dare. Dicea Salomone: «Et ut scivi quoniam aliter non possum esse continens, nisi Deus det... adii Dominum, et deprecatus sum illum» (Sap. 8. 21). Bisogna dunque in tale tentazione subito ricorrere a Gesu-Cristo ed alla sua santa Madre, invocando allora spesso i loro SS. nomi di Gesù, e di Maria. Chi fa così, vincerà; chi non fa così, sarà perduto.

Affetti e preghiere
              «Ne proiicias me a facie tua». Ah mio Dio, non mi discacciate dalla vostra faccia. Già so che Voi non mi abbandonerete mai, s'io non sono il primo ad abbandonarvi; ma di questo io tremo per la sperienza della mia debolezza. Signore, Voi m'avete da dar fortezza che mi bisogna contro l'inferno, che pretende di vedermi di nuovo fatto suo schiavo. Ve la cerco per amore di Gesu-Cristo. Stabilite, o mio Salvatore, fra me e Voi una pace perpetua, che non abbia più a rompersi in eterno. E perciò datemi il vostro santo amore. «Qui non diligit, manet in morte». Chi non v'ama, è morto. Da questa morte infelice Voi m'avete da salvare, o Dio dell'anima mia. Io ero perduto, già lo sapete. Tutta è stata vostra bontà il ridurmi a questo stato in cui mi vedo, e spero di stare in grazia vostra. Deh non permettete, Gesù mio, per quella morte amara che soffriste per me, ch'io l'abbia volontariamente da tornare a perdere. Io v'amo sopra ogni cosa. Spero di vedermi sempre ligato da questo santo amore, per così legato morire, e legato vivere in eterno.
              O Maria, Voi vi chiamate la madre della perseveranza. Questo gran dono per Voi si dispensa: a Voi lo domando, e per Voi lo spero.

PUNTO II
              Vediamo ora, come si ha da vincere il mondo. È un gran nemico il demonio, ma peggiore è il mondo. Se 'l demonio non s'avvalesse del mondo e degli uomini cattivi (per cui s'intende il mondo), non riporterebbe le vittorie che ottiene. Il Redentore non tanto ci avvertì a guardarci da' demoni, quanto dagli uomini: «Cavete autem ab hominibus» (Matth. 10. 17). Gli uomini spesso son peggiori de' demonii, perché i demonii fuggono all'orazione e all'invocarsi i nomi SS. di Gesù e di Maria; ma i mali compagni se tentano alcuno a peccare, e quegli risponde qualche parola spirituale, essi non fuggono, ma più lo tentano e lo deridono, chiamandolo uomo vile, senza creanza, che non vale a niente; e quand'altro non possono dire, lo chiamano ippocrita che finge santità. E certe anime deboli, per non sentire questi rimproveri o derisioni, miseramente si accompagnano con quei ministri di Lucifero e tornano al vomito. Fratello mio, persuadetevi, che se volete viver bene, avete da esser senza meno burlato e vilipeso da' malvagi. «Abominantur impii eos, qui in recta sunt via» (Prov. 29. 27). Chi vive male, non può vedere coloro che vivon bene; e perché? perché la loro vita è loro un continuo rimprovero, e perciò vorrebbero che tutti l'imitassero, per non avere la pena del rimorso che loro cagiona la buona vita degli altri. Non v'è rimedio (dice l'Apostolo), chi serve Dio ha da essere perseguitato dal mondo. «Omnes qui pie volunt vivere in Christo Iesu, persecutionem patientur» (2. Tim. 3. 12). Tutt'i santi sono stati perseguitati. Chi più santo di Gesu-Cristo? e 'l mondo lo perseguitò, sino a farlo morir svenato in una croce.
              Non v'è riparo a ciò, perché le massime del mondo sono tutte contrarie a quelle di Gesu-Cristo. Quel ch'è stimato dal mondo, da Gesu-Cristo è chiamata pazzia: «Sapientia enim huius mundi stultitia est apud Deum» (1. Cor. 3. 19). All'incontro il mondo chiama pazzia ciò, ch'è stimato da Gesu-Cristo, come sono le croci, i dolori, i disprezzi. «Verbum enim crucis pereuntibus quidem stultitia est» (1. Cor. 1. 18). Ma consoliamoci, che se i cattivi ci maledicono e ci vituperano, Iddio ci benedice e ci loda. «Maledicent illi, et tu benedices» (Ps. 108. 28). Non ci basta forse l'esser lodati da Dio, da Maria, da tutti gli angeli, da' santi e da tutti gli uomini da bene? Lasciamo dunque lor dire a' peccatori quello che vogliono, e seguitiamo noi a dar gusto a Dio, ch'è così grato e fedele con chi lo serve. Con quanta maggior ripugnanza e contraddizione faremo il bene, tanto sarà maggiore il gusto di Dio e 'l merito nostro. Figuriamoci, come nel mondo non vi fosse altro che Dio e noi. Quando questi malvagi ci burlano, raccomandiamoli al Signore; ed all'incontro ingraziamo Dio, che dà luce a noi, che non dona a questi miserabili, e seguiamo il nostro cammino. Non ci vergogniamo di comparir cristiani, perché se noi ci vergogniamo di Gesu-Cristo, Egli si protesta che si vergognerà pur5 di noi e di tenerci alla sua destra nel giorno del giudizio: «Nam qui me erubuerit, et meum sermonem, hunc Filius hominis erubescet, cum venerit in maiestate sua» (Luc. 9. 26).
              Se vogliamo salvarci, bisogna che ci risolviamo a patire e a farci forza, anzi violenza. «Arcta est via, quae ducit ad vitam». (Matth. 7. 14). «Regnum coelorum vim patitur, et violenti rapiunt illud» (Idem. 11. 12). Chi non si fa forza, non si salva. Non ci è rimedio, poiché abbiamo da andare contro la nostra natura ribelle, se vogliamo praticare il bene. Specialmente dobbiamo farci forza al principio, per estirpare i mal'abiti ed acquistare i buoni; perché fatto poi il buon abito, si rende facile, anzi dolce l'osservanza della divina legge. Disse il Signore a S. Brigida che chi nel praticar la virtù con pazienza, ed animo soffrisce le prime punture delle spine, dopo le spine gli diventeranno rose. Sta attento dunque, cristiano mio, Gesu-Cristo ora ti dice quel che disse al paralitico: «Ecce sanus factus es, iam noli peccare, ne deterius tibi contingat» (Io. 5. 14). Intendi (ripiglia S. Bernardo), se per disgrazia ricadi, sappi che la tua ruina sarà peggiore di tutte le tue prime cadute: «Audis: recidere quam incidere esse deterius». Guai dice il Signore a coloro, che prendono la via di Dio, e poi la lasciano. «Vae, filii desertores» (Is. 30. 1). Questi tali son puniti, come ribelli della luce: «Ipsi fuerunt rebelles lumini» (Iob. 24. 13). E 'l castigo di questi ribelli che sono stati favoriti da Dio d'una gran luce, e poi gli sono infedeli, è il restar ciechi, e così finir la vita ne' loro peccati: «Si autem averterit se iustus a iustitia sua... nunquid vivet? omnes iustitiae eius, quas fecerat, non recordabuntur... in peccato morietur» (Ezech. 18. 24).

Affetti e preghiere
              Ah mio Dio, un tal castigo già io più volte me l'ho meritato, mentre più volte ho lasciato il peccato per mezzo della luce, che Voi mi avete data, e poi miseramente vi sono ritornato. Ringrazio infinitamente la vostra misericordia di non avermi abbandonato nella cecità, con lasciarmi affatto privo di luce, come io meritava. Troppo dunque, o Gesù mio, io vi sono obbligato; e troppo ingrato vi sarei se ritornassi a voltarvi le spalle. No, mio Redentore, «misericordias Domini in aeternum cantabo». Io spero nella vita che mi resta, e per tutta l'eternità di cantar sempre e lodare le vostre grandi misericordie, con amarvi sempre, e non vedermi più privo della vostra grazia. Le ingratitudini che per lo passato vi ho usate, e che ora detesto e maledico sopra ogni male, mi serviranno per farmi piangere sempre amaramente i torti che vi ho fatti, e per più accendermi ad amar Voi, che dopo tante offese da me ricevute, mi avete fatte grazie così grandi. Sì che v'amo, o mio Dio, degno d'infinito amore. D'ogg'innanzi Voi avete da esser l'unico amor mio, l'unico mio bene. O Eterno Padre per li meriti di Gesu-Cristo vi domando la perseveranza finale nella vostra grazia e nel vostro amore. Io già so che Voi me la concederete, sempre ch'io ve la chiederò. Ma chi m'assicura ch'io sarò attento a chiedervi questa perseveranza? Per questo, Dio mio, vi domando la perseveranza e la grazia di sempre cercarvela.
              O Maria avvocata mia, rifugio e speranza mia, ottenetemi Voi colla vostra intercessione la costanza di domandare sempre a Dio la perseveranza finale. Ve ne prego ad ottenermela per quanto amate Gesu-Cristo.


PUNTO III
              Veniamo al terzo nemico, ch'è il peggiore di tutti, cioè la carne; e vediamo come abbiamo a difendercene. Per prima, coll'orazione; ma ciò l'abbiam già considerato di sopra. Per secondo col fuggir l'occasione, e questo vogliamo ora ben ponderare. Dice S. Bernardino da Siena che il più grande di tutti i consigli, anzi quasi il fondamento della religione, è il consiglio di fuggir le occasioni pericolose: «Inter consilia Christi unum celeberrimum, et quasi religionis fundamentum est, fugere peccatorum occasiones» (Tom. I. Serm. 21. a. 3. c. 3). Confessò una volta il demonio costretto dagli esorcismi, che tra tutte le prediche quella che più gli dispiace, è la predica della fuga dell'occasione; e con ragione, perché il demonio si ride di tutti i propositi e promesse che fa un peccator che si pente, se colui non lascia l'occasione. L'occasione specialmente in materia di piaceri di senso è come una benda che si mette avanti gli occhi, e non fa vedere più alla persona né propositi fatti, né lumi ricevuti, né verità eterne, in somma la fa scordare di tutto e la rende come cieca. Questa fu la causa della ruina de' nostri primi progenitori, il non fuggir l'occasione. Dio avea proibito anche di toccare il frutto vietato: «Praecepit nobis Deus (disse Eva al serpente) ne comederemus, et ne tangeremus illud» (Gen. 3). Ma l'incauta «vidit, tulit, comedit». Prima cominciò a mirare il pomo, dipoi lo prese in mano, e poi lo mangiò. Chi volontariamente si mette nel pericolo, in quello resterà perduto. «Qui amat periculum, in illo peribit» (Eccli. 3. 27). Dice S. Pietro che il demonio «circuit quaerens quem devoret»; onde per rientrare in un'anima da cui è stato discacciato (dice S. Cipriano), che fa? va trovando l'occasione: «Explorat an sit pars, cuius aditu penetretur». Se l'anima si lascia indurre a mettersi nell'occasione, già di nuovo entrerà in lei il nemico e la divorerà. Dice in oltre Guerrico Abbate che Lazzaro risorse legato, «prodiit ligatus manibus, et pedibus»; e risorgendo così, tornò a morire. Povero (vuol dire questo autore) chi risorge dal peccato, ma risorge legato dall'occasione; questi ancorché risorgesse, pure tornerà a morire. Chi dunque vuole salvarsi, bisogna che lasci non solo il peccato, ma anche l'occasione di peccare, cioè quel compagno, quella casa, quella corrispondenza.
              Ma dirai, ora ho mutata vita e non ci ho più mal fine con quella persona, anzi neppure tentazione. Rispondo: Nella Mauritania narrasi esservi certe orse, che vanno a caccia delle scimie; le scimie, vedendo l'orsa, si salvano sugli alberi, e l'orsa si stende sotto l'albero e si finge morta; quando poi vede scese le scimie, s'alza, le afferra e le divora. Così fa il demonio; fa vedere morta la tentazione, ma quando la persona è scesa poi a mettersi nell'occasione, fa sorgere la tentazione che la divora. Oh quante misere anime che frequentavano l'orazione, la comunione, e che poteano chiamarsi sante, col porsi poi all'occasione son rimaste preda dell'inferno. Si riferisce nell'Istorie ecclesiastiche che una santa matrona, la quale facea l'officio pietoso di seppellire i martiri, una volta ne trovò uno, il quale non era ancora spirato, lo portò in sua casa, quegli guarì; che avvenne? coll'occasione vicina questi due santi (come poteano chiamarsi) prima perderono la grazia di Dio e poi anche la fede.
              Ordinò il Signore ad Isaia che predicasse che ogni uomo è fieno: «Clama, omnis caro foenum» (Is. 40. 6). Qui riflette il Grisostomo e dice: È possibile che 'l fieno non arda, quando v'è posto il fuoco? «Lucernam in foenum pone, ac tum aude negare, quod foenum exuratur». E così dice poi S. Cipriano, è impossibile star nelle fiamme e non bruciare: «Impossibile est flammis circumdari, et non ardere» (De Sing. Cler.). La fortezza nostra, ci avverte il profeta, è come la fortezza della stoppa posta nella fiamma. «Et erit fortitudo vestra ut favilla stupae» (Is. 1. 32). Parimenti dice Salomone, pazzo sarebbe chi pretendesse camminar sulle brace senza bruciarsi: «Nunquid potest homo ambulare super prunas, ut non comburantur plantae eius?» (Prov. 6. 17). E così ancora è pazzo chi pretende di porsi all'occasione, senza cadere. Bisogna dunque fuggire dal peccato come dalla faccia del serpente: «Quasi a facie colubri fuge peccatum» (Eccli. 21. 1). Bisogna fuggire non solo il morso del serpe, dice Galfrido, non solo il toccarlo, ma anche l'accostarsegli vicino: «Fuge etiam tactus, etiam accessum». Ma quella casa, tu dici, quell'amicizia giova agl'interessi miei. Ma se vedi già che quella casa è via dell'inferno per te «via inferi domus eius» (Prov. 7. 27), non ci è rimedio bisogna che la lasci, se vuoi salvarti. Ancorché fosse l'occhio tuo destro, dice il Signore, se vedi che ti è causa di dannarti, bisogna che lo svelli e lo gitti da te lontano. «Si oculus tuus dexter scandalizat te, erue eum, et proiice abs te» (Matth. 5. 30). E si noti la parola «abs te»; bisogna gittarlo non vicino, ma lontano: viene a dire che bisogna togliere ogni occasione. Dicea S. Francesco d'Assisi che il demonio tenta d'altra maniera le persone spirituali, che si son date a Dio, di quella che tenta i malviventi; al principio non cerca di legarle con una fune, si contenta legarle con un capello, poi le lega con un filo, poi con uno spago, indi con una fune, e così finalmente le strascina al peccato. E perciò chi vuol esser libero da questo pericolo, bisogna che spezzi a principio tutti i capelli, tutte le occasioni, quei saluti, quei regali, quei biglietti, e simili. E parlando specialmente di chi ha avuto l'abito nel vizio impuro, non gli basterà il fuggire le occasioni prossime: s'egli non fuggirà anche le rimote, pure tornerà a cadere.
              È necessario a chi vuole veramente salvarsi stabilire e rinnovare continuamente la risoluzione di non volersi più separare da Dio, con andare spesso replicando quel detto de' santi: «Si perda tutto, e non si perda Dio». Ma non basta il solo risolvere di non volerlo più perdere, bisogna pigliare anche i mezzi per non perderlo. E il primo mezzo è il fuggir le occasioni, del che già si è parlato. Il 2. è frequentare i sacramenti della confessione e comunione. In quella casa che spesso si scopa, non ci regnano l'immondezze. Colla confessione si mantiene purgata l'anima, e con essa non solamente s'ottiene la remissione delle colpe, ma ancora l'aiuto per resistere alle tentazioni. La comunione poi si chiama pane celeste, perché siccome il corpo non può vivere senza il cibo terreno, così l'anima non può vivere senza questo cibo celeste. «Nisi manducaveritis carnem Filii hominis, et biberitis eius sanguinem, non habebitis vitam in vobis» (Io. 6. 54). All'incontro a chi spesso mangia questo pane, sta promesso che viverà in eterno:
              «Si quis manducaverit ex hoc pane, vivet in aeternum» (Io. 6. 52). Che perciò il Concilio di Trento chiama la comunione medicina che ci libera da' peccati veniali, e ci preserva da' mortali: «Antidotum quo liberamur a culpis quotidianis, et a peccatis mortalibus praeservamur» (Trid. Sess. 13. c. 2). Il 3. mezzo è la meditazione, o sia l'orazione mentale. «Memorare novissima tua, et in aeternum non peccabis» (Eccli. 7. 40). Chi tiene avanti gli occhi le verità eterne, la morte, il giudizio, l'eternità, non caderà in peccato. Iddio nella meditazione c'illumina: «Accedite ad eum, et illuminamini» (Ps. 33. 6). Ivi ci parla e ci fa intendere quel che abbiamo da fuggire e quel che abbiamo da fare. «Ducam eam in solitudinem, et loquar ad cor eius» (Osea 2. 14). La meditazione poi è quella beata fornace, dove si accende il divino amore. «In meditatione mea exardescet ignis» (Ps. 38. 4). In oltre, come già più volte si è considerato, per conservarsi in grazia di Dio è assolutamente necessario il sempre pregare e chiedere le grazie che ci abbisognano; chi non fa l'orazione mentale, difficilmente prega, e non pregando certamente si perderà.
              Bisogna dunque pigliare i mezzi per salvarsi e fare una vita ordinata. Nella mattina al levarsi fare gli atti cristiani di ringraziamento, amore, offerta e proposito, colla preghiera a Gesù ed a Maria, che lo preservino in quel giorno da' peccati. Dopo far la meditazione e sentir la Messa. Nel giorno poi la lezione spirituale, la visita al SS. Sagramento ed alla divina Madre. Nella sera il rosario, e l'esame di coscienza. La comunione più volte la settimana, secondo il consiglio del direttore, che stabilmente dee tenersi. Sarebbe molto utile ancor far gli esercizi spirituali in qualche casa religiosa. Bisogna onorare ancora con qualche ossequio speciale Maria SS. per esempio col digiuno del sabato. Ella si chiama Madre della perseveranza, e la promette a chi la serve: «Qui operantur in me, non peccabunt» (Eccli. 24. 31). Sopra tutto bisogna sempre domandare a Dio la santa perseveranza, e specialmente in tempo di tentazioni, invocando allora più spesso i nomi SS. di Gesù e di Maria, finché la tentazione persiste. Se farete così certamente vi salverete: e se non lo farete, certamente vi dannerete.

Affetti e preghiere
              Caro mio Redentore vi ringrazio di questi lumi che mi date, e de' mezzi che mi fate conoscere per salvarmi. Io vi prometto di volerli stabilmente eseguire. Datemi Voi l'aiuto per esservi fedele. Vedo che Voi mi volete salvo, ed io voglio salvarmi, principalmente per compiacere il vostro Cuore, che tanto desidera la mia salute. Non voglio no, mio Dio, resistere più all'amore, che mi portate. Quest'amore ha fatto che mi sopportaste con tanta pazienza, mentre io vi offendeva. Voi mi chiamate al vostro amore, ed io altro non desidero che amarvi. V'amo, bontà infinita, v'amo, bene infinito. Deh vi prego per li meriti di Gesu-Cristo, non permettete ch'io vi sia più ingrato; o fatemi finire d'esservi ingrato, o fatemi finire di vivere. Signore avete cominciata l'opera, compitela ora: «Confirma hoc Deus quod operatus es in nobis». Datemi luce, datemi forza, datemi amore.
              O Maria, Voi che siete la tesoriera delle grazie, Voi soccorretemi. Dichiaratemi per vostro servo qual io voglio essere; e pregate Gesù per me. Prima i meriti di Gesu-Cristo, e poi le vostre preghiere mi hanno da salvare.

Thursday 14 September 2017

"Apparecchio alla Morte" by St Alfonso Maria de Liguori (in Italian) – XXXI

CONSIDERAZIONE XXX - DELLA PREGHIERA
«Petite, et dabitur vobis... omnis enim qui petit, accipit» (Luc. 11. 10).

PUNTO I
              Non solo in questo, ma in mille luoghi dell'antico e nuovo Testamento promette Dio di esaudir chi lo prega. «Clama ad me, et exaudiam te» (Iob. 33. 3): Volgiti a me, ed io ti esaudirò. «Invoca me, et eruam te» (Ps. 49. 15): Chiamami, ed io ti libererò da' pericoli. «Si quid petieritis me in nomine meo, hoc faciam» (Io. 14. 14): Quel che mi domanderai per li meriti miei, tutto farò. «Quodcunque volueritis, petetis, et fiet nobis» (Io. 15. 7): Cercate quanto volete, basta che lo cerchiate, e vi sarà conceduto. E tanti altri passi simili. Quindi disse Teodoreto che l'orazione è una ma può ottenere tutte le cose: «Oratio cum sit una, omnia potest». Dice S. Bernardo che quando noi preghiamo, il Signore o ci darà la grazia richiesta, o un'altra per noi più utile. «Aut dabit quod petimus, aut quod nobis noverit esse utilius» (Serm. 5. in Fer. 4. Ciner.). Intanto ci fa animo a pregare il profeta, assicurandoci che Dio è tutto pietà verso coloro che lo chiamano in aiuto: «Tu Domine suavis, et mitis, et multae misericordiae omnibus invocantibus te» (Ps. 85). E maggior animo ci fa S. Giacomo dicendo: «Si quis vestrum indiget sapientia, postulet a Deo, qui dat omnibus affluenter, nec improperat» (Epist. 1. 5). Dice questo apostolo che quando il Signore è pregato, allarga le mani e dona più di ciò che gli si domanda, «dat omnibus affluenter, nec improperat», né ci rimprovera i disgusti che gli abbiamo dati; quando è pregato, par che si dimentichi di tutte l'offese che gli abbiamo fatte.
              Diceva S. Giovanni Climaco che la preghiera in certo modo fa violenza a Dio a concederci quanto gli cerchiamo: «Oratio pie Deo vim infert». Violenza, ma violenza che gli è cara, e da noi la desidera. «Haec vis grata Deo», scrisse Tertulliano. Sì, perché (siccome parla S. Agostino) ha più desiderio Dio di far bene a noi, che noi di riceverlo: «Plus vult ille tibi beneficia elargiri, quam tu accipere concupiscas». E la ragione di ciò si è, perché Dio di sua natura è bontà infinita: «Deus cuius natura bonitas», scrive S. Leone. E perciò ha un sommo desiderio di far parte a noi de' suoi beni. Quindi dicea S. Maria Maddalena de' Pazzi che Dio resta quasi obbligato a quell'anima, che lo prega, mentre così gli apre la via a contentare il suo desiderio di dispensare a noi le sue grazie. E Davide dicea che questa bontà del Signore in esaudire subito chi lo prega, facea conoscergli ch'Egli era il suo vero Dio: «In quacunque die invocavero te, ecce cognovi quia Deus meus es tu» (Ps. 55. 10). A torto taluni si lamentano (avverte S. Bernardo) che manchi loro il Signore; molto più giustamente si lamenta il Signore che molti a lui mancano, lasciando di venire a cercargli le grazie: «Multi queruntur deesse sibi gratiam, sed multo iustius gratia quereretur deesse sibi multos». E di ciò appunto par che si lamentasse un giorno il Redentore co' suoi discepoli: «Usque modo non petistis quidquam in nomine meo; petite et accipietis, ut gaudium vestrum sit plenum» (Io. 16. 24). Non vi lamentate di me (par che dicesse), se non siete stati pienamente felici, lamentatevi di voi, che non mi avete richieste le grazie; chiedetemele da oggi avanti e sarete contenti.
              Da ciò i monaci antichi conclusero nelle loro conferenze non esservi esercizio più utile per salvarsi, che 'l sempre pregare e dire: Signore, aiutatemi: «Deus, in adiutorium meum intende». Il Ven. P. Paolo Segneri dicea di se stesso che nelle sue meditazioni prima tratteneasi in fare affetti, ma poi conoscendo la grande efficacia della preghiera, procurava per lo più di trattenersi in pregare. Facciamo noi sempre lo stesso. Abbiamo un Dio che troppo ci ama, ed è sollecito della nostra salute, e perciò sta sempre pronto ad esaudir chi lo prega. I principi della terra, dice il Grisostomo a pochi danno udienza, ma Dio la dà ad ognun che la vuole: «Aures principis paucis patent, Dei vero omnibus volentibus» (Lib. 2. de Orat. ad Deum).

Affetti e preghiere
              Eterno Dio, io vi adoro e ringrazio di quanti beneficii mi avete fatti, d'avermi creato e redento per mezzo di Gesu-Cristo, d'avermi fatto cristiano, d'avermi aspettato quand'io stava in peccato, e d'avermi tante volte perdonato. Ah mio Dio, io non sarei mai caduto in offendervi, se nelle tentazioni fossi a Voi ricorso. Vi ringrazio della luce colla quale ora mi fate conoscere, che tutta la mia salute consiste nel pregarvi e domandarvi le grazie. Ecco vi prego in nome di Gesu-Cristo a donarmi un gran dolore de' miei peccati, la santa perseveranza nella vostra grazia, una buona morte, il paradiso; ma sopra tutto il sommo dono del vostro amore ed una perfetta rassegnazione nella vostra ss. volontà. Io già so che non le merito queste grazie, ma Voi l'avete promesse a chi ve le domanda per li meriti di Gesu-Cristo; io per li meriti di Gesu-Cristo a Voi le chiedo, e le spero.
              O Maria, le vostre preghiere ottengono quanto dimandano, pregate Voi per me.


PUNTO II
              Consideriamo in oltre la necessità della preghiera. Dice S. Gio. Grisostomo che siccome il corpo è morto senza l'anima, così l'anima è morta senza orazione. Dice similmente che come l'acqua è necessaria alle piante per non seccare, così l'orazione è necessaria a noi per non perderci. «Non minus quam arbores aquis, precibus indigemus» (Tom. 1. Hom. 77). Dio vuol salvi tutti: «Omnes homines vult salvos fieri» (1. Tim. 2. 4). E non vuole che alcuno si perda: «Patienter agit propter vos, nolens aliquos perire, sed omnes ad poenitentiam reverti» (2. Petr. 3. 9). Ma vuole che noi gli domandiamo le grazie necessarie per salvarci; poiché da una parte non possiamo osservare i divini precetti e salvarci senza l'attuale aiuto del Signore; e dall'altra Egli non vuole darci le grazie (ordinariamente parlando), se non ce le cerchiamo. Che perciò disse il sagro Concilio di Trento che Dio non impone precetti impossibili, poiché o ci dona la grazia prossima ed attuale ad osservarli, oppure ci dà la grazia di cercargli questa grazia attuale: «Deus impossibilia non iubet, sed iubendo monet et facere quod possis, et petere quod non possis, et adiuvat ut possis» (Sess. 6. cap. 11). Mentre insegna S. Agostino che eccettuate le prime grazie, come sono la chiamata alla fede, o alla penitenza, tutte l'altre (e specialmente la perseveranza) Dio non le concede se non a chi prega: «Constat alia Deus dare etiam non orantibus, sicut initium fidei; alia nonnisi orantibus praeparasse, sicut usque in finem perseverantiam» (De dono persev. cap. 6).
              Da ciò concludono i Teologi con S. Basilio, S. Agostino, S. Gio. Grisostomo, Clemente Alessandrino ed altri che la preghiera agli adulti è necessaria di necessità di mezzo. Sicché senza pregare è impossibile ad ognuno il salvarsi. E ciò dice il dottissimo Lessio doversi tener di fede: «Fide tenendum est orationem adultis ad salutem esse necessariam, ut colligitur ex Scripturis» (De Iust. lib. 2. cap. 37. n. 9).
              Le Scritture son chiare. «Oportet semper orare» (Luc. 18. 1). «Orate, ut non intretis in tentationem» (Io. 4. 2). «Petite, et accipiets» (Io. 16. 24). «Sine intermissione orate» (1. Thess. 5. 17). Or le suddette parole: «Oportet, orate, petite», secondo la sentenza comune de' dottori con S. Tommaso (2. p. qu. 39. a. 5) importano precetto, che obbliga sotto colpa grave specialmente in tre casi: 1. quando l'uomo sta in peccato; 2. quando è in pericolo di morte; 3. quando è in grave pericolo di peccare; e ordinariamente poi insegnano i dottori che chi per un mese, o al più due non prega, non è scusato da peccato mortale (vedi Lessio nel luogo cit.). La ragione è, perché la preghiera è un mezzo, senza di cui non possiamo ottenere gli aiuti necessari a salvarci da' peccati.
               «Petite, et accipietis». Chi cerca ottiene; dunque, dice S. Teresa, chi non cerca non ottiene. E prima lo disse S. Giacomo: «Non habetis, propter quod non postulatis» (Iac. 4. 2). E specialmente è necessaria la preghiera, per ottenere la virtù della continenza. «Et ut scivi, quia aliter non possum esse continens, nisi Deus det... adii Dominum, et deprecatus sum» (Sap. 8. 21). Concludiamo questo punto. Chi prega, certamente si salva; chi non prega, certamente si danna. Tutti coloro che si son salvati, si son salvati col pregare. Tutti coloro che si son dannati, si son dannati per non pregare; e questa è, e sarà per sempre la loro maggior disperazione nell'inferno, l'aversi potuto così facilmente salvare col pregare, ed ora non essere più a tempo di farlo.

Affetti e preghiere
              Ah mio Redentore, e come ho potuto per lo passato vivere così scordato di Voi? Voi stavate apparecchiato a farmi tutte le grazie ch'io vi avessi cercate, aspettavate solo ch'io ve le domandassi; ma io non ho pensato ad altro che a contentare i miei sensi, poco importandomi di restar privo del vostro amore e delle vostre grazie. Signore, scordatevi di tante mie ingratitudini e abbiate pietà di me; perdonatemi tanti disgusti che vi ho dati e datemi perseveranza. Datemi la grazia di cercarvi sempre il vostro aiuto per non offendervi, o Dio dell'anima mia. Non permettete che in ciò io sia trascurato, come sono stato per lo passato. Datemi luce e forza di sempre raccomandarmi a Voi, e specialmente quando i nemici mi tentano di nuovo ad offendervi. Fatemi, Dio mio, questa grazia per li meriti di Gesu-Cristo, e per l'amor che gli portate. Basta, Signor mio, quanto v'ho offeso; voglio amarvi in questa vita che mi resta. Datemi il vostro santo amore, e questo mi ricordi di cercarvi aiuto, sempre che mi troverò in pericolo di perdervi col peccato.
              Maria speranza mia, da Voi spero la grazia di raccomandarmi sempre a Voi, ed al vostro Figlio nelle mie tentazioni. Esauditemi, Regina mia, per quanto amate Gesu-Cristo.


PUNTO III
              Consideriamo per ultimo le condizioni della preghiera. Molti pregano e non ottengono, perché non pregano come si dee. «Petitis et non accipitis, eo quod male petatis» (Iac. 4. 3). Per ben pregare primieramente vi bisogna umiltà. «Deus superbis resistit, humilibus autem dat gratiam» (Iac. 4. 6). Dio non esaudisce le domande de' superbi, ma all'incontro non fa partire da sé le preghiere degli umili senza esaudirle. «Oratio humiliantis se nubes penetrabit, et non discedet, donec Altissimus aspiciat» (Eccli. 35. 21). E ciò, benché per lo passato sieno stati peccatori. «Cor contritum et humiliatum Deus non despicies» (Ps. 50). Per secondo vi bisogna confidenza. «Nullus speravit in Domino, et confusus est» (Eccli. 2. 11). A tal fine ci insegnò Gesu-Cristo che cercando le grazie a Dio non lo chiamiamo con altro nome che di Padre (Pater noster); acciocché lo preghiamo con quella confidenza, con cui ricorre un figlio al proprio padre. Chi cerca dunque con confidenza ottiene tutto: «Omnia quaecunque orantes petitis, credite quia accipietis, et evenient vobis» (Marc. 11). E chi può temere, dice S. Agostino, ch'abbia a mancargli ciò che gli viene promesso dalla stessa verità ch'è Dio? «Quis falli metuit, dum promittit veritas?» Non è Dio come gli uomini, dice la Scrittura, che promettono e poi mancano, o perché mentiscono allorché promettono, o pure perché poi mutano volontà: «Non est Deus quasi homo, ut mentiatur, nec ut mutetur; dixit ergo, et non faciet?» (Num. 23). E perché mai, soggiunge lo stesso S. Agostino, tanto ci esorterebbe  il Signore a chieder le grazie, se non ce le volesse concedere? «Non nos hortaretur ut peteremus nisi dare vellet» (De Verb. Dom. Serm. 5). Col promettere Egli si è obbligato a concederci le grazie che gli domandiamo: «Promittendo debitorem se fecit» (S. Aug. ibid. Serm. 2).
              Ma dirà colui: Io son peccatore e perciò non merito d'esser esaudito. Ma risponde S. Tommaso che la preghiera in impetrar le grazie non si appoggia a' nostri meriti, ma alla divina pietà: «Oratio in impetrando non innititur nostris meritis, sed soli divinae misericordiae» (2. 2. qu. 178. a. 2. ad 1). «Omnis qui petit accipit» (Luc. 11. 10). Commenta l'autor dell'Opera imperfetta: «Omnis sive iustus, sive peccator sit» (Hom. 18). Ma in ciò il medesimo nostro Redentore ci tolse ogni timore, dicendo: «Amen, amen dico vobis, si quid petieritis Patrem in nomine meo, dabit vobis» (Io. 16. 23). Peccatori, (come dicesse) se voi non avete merito, l'ho io appresso mio Padre: cercate dunque in nome mio, ed io vi prometto che avrete quanto dimandate. Qui non però bisogna intendere che tal promessa non è fatta per le grazie temporali, come di sanità, di beni di fortuna e simili, poiché queste grazie molte volte il Signore giustamente ce le nega, perché vede che ci nocerebbero alla salute eterna. «Quid infirmo sit utile, magis novit medicus, quam aegrotus», dice S. Agostino (to. 3. c. 212). E soggiunge, che Dio nega ad alcuno per misericordia quel che concede ad un altro per ira: «Deus negat propitius, quae concedit iratus». Onde le grazie temporali debbon da noi cercarsi sempre con condizione, se giovano all anima. Ma all'incontro le spirituali, come il perdono, la perseveranza, l'amor divino e simili debbon chiedersi assolutamente con fiducia ferma di ottenerle. «Si vos cum sitis mali (disse Gesu-Cristo), nostis bona data dare filiis vestris, quanto magis Pater vester de coelo dabit spiritum bonum petentibus se?» (Lucae 11. 13).
              Bisogna sopra tutto la perseveranza in pregare. Dice Cornelio a Lapide (in Luc. cap. 11) che il Signore «vult nos esse perseverantes in oratione usque ad importunitatem». E ciò significano quelle Scritture: «Oportet semper orare» (Luc. 11). «Vigilate omni tempore orantes» (Luc. 21. 36). «Sine intermissione orate» (1. Thess. 5. 17). Ciò significano ancora quelle parole replicate: «Petite, et accipietis; quaerite, et invenietis; pulsate, et aperietur vobis» (Luc. 11. 9). Bastava l'aver detto «petite»; ma no, volle il Signore farc'intendere che dobbiamo fare come i mendici, che non lasciano di cercare d'insistere e di bussare la porta sin tanto che non han la limosina. E specialmente la perseveranza finale è una grazia che non si ottiene senza una continua orazione. Questa perseveranza non si può meritare da noi, ma colle preghiere, dice S. Agostino, che in certo modo si merita: «Hoc Dei donum suppliciter emereri potest: idest supplicando impetrari» (De dono persev. cap. 6). Preghiamo dunque sempre, e non lasciamo di pregare, se vogliamo salvarci. E chi è confessore, o predicatore, non lasci mai di esortare a pregare, se vuole veder salvate  l'anime. E come dice S. Bernardo, ricorriamo ancora sempre all'intercessione di Maria: «Quaeramus gratiam, et per Mariam quaeramus; quia quod quaerit invenit et frustrari non potest» (Serm. de Aquaeduct.).

Affetti e preghiere
              Mio Dio, io spero che già mi abbiate perdonato, ma i nemici non lasceranno di combattermi sino alla morte; se non mi aiutate, tornerò a perdermi. Deh per li meriti di Gesu-Cristo vi cerco la santa perseveranza. «Ne permittas me separari a Te». E la stessa grazia vi cerco per tutti coloro che ora stanno in grazia vostra. Io sto certo, fidato sulla vostra promessa che mi darete la perseveranza, se io seguirò a domandarvela. Ma di questo io temo, temo nelle tentazioni di lasciare di ricorrere a Voi, e così di nuovo io ricada. Vi cerco dunque la grazia di non lasciar mai di pregare. Fate che nelle occasioni di ricadere, sempre io a Voi mi raccomandi ed invochi in mio aiuto i nomi ss. di Gesù e di Maria. Dio mio, così propongo e così spero di fare colla vostra grazia. Esauditemi per amore di Gesu-Cristo.
              O Maria, Madre mia, impetratemi che ne' pericoli di perdere Dio, sempre io ricorra a Voi e al vostro Figlio.

Thursday 7 September 2017

"Apparecchio alla Morte" by St Alfonso Maria de Liguori (in Italian) – XXX

CONSIDERAZIONE XXIX - DEL PARADISO
«Tristitia vestra vertetur in gaudium» (Io. 16. 20).

PUNTO I
              Procuriamo al presente di soffrir con pazienza le afflizioni di questa vita, offerendole a Dio in unione delle pene che patì Gesu-Cristo per nostro amore; e facciamoci animo colla speranza del paradiso. Finiranno un giorno tutte queste angustie, dolori, persecuzioni, timori; e salvandoci, diventeranno per noi gaudii e contenti nel regno de' beati. Così ci fa animo il Signore: «Tristitia vestra vertetur in gaudium» (Io. 16. 20). Consideriamo dunque oggi qualche cosa del paradiso. Ma che diremo di questo paradiso, se neppure i santi più illuminati han saputo darci ad intendere le delizie, che Dio riserva a' suoi servi fedeli? Davide altro non seppe dirne che 'l paradiso è un bene troppo desiderabile: «Quam dilecta tabernacula tua, Domine virtutum!» (Ps. 83. 2). Ma voi almeno, S. Paolo mio, voi che aveste la sorte d'essere stato rapito a vedere il cielo («Raptus in paradisum»), diteci qualche cosa di ciò che avete veduto. No, dice l'Apostolo, ciò che ho veduto, non è possibile spiegarlo. Son le delizie del paradiso: «Arcana verba, quae non licet homini loqui» (2. Cor. 12. 4). Sono sì grandi che non possono spiegarsi, se non si godono. Altro io non posso dirvi, dice l'Apostolo, che «oculus non vidit, nec auris audivit, neque in cor hominis ascendit, quae praeparavit Deus iis, qui diligunt illum» (1. Cor. 2. 9). Niun uomo in terra ha vedute mai, né udite, né comprese le bellezze, le armonie, i contenti, che Dio ha preparati a coloro che l'amano.
              Non possiamo noi esser capaci de i beni del paradiso, perché non abbiamo altre idee, che de' beni di questa terra. Se i cavalli avessero mai il discorso, e sapessero che il padrone sposandosi ha preparato un gran banchetto, s'immaginerebbero che il banchetto non consisterebbe in altro, che in buona paglia, buona avena ed orzo: perché i cavalli non hanno idea d'altri cibi che di questi. Così pensiamo noi de i beni del paradiso. È bello il vedere in tempo d'està nella notte il cielo stellato: è gran delizia in tempo di primavera trovarsi in una marina, quando il mare è placido, in cui vi si vedono dentro scogli vestiti d'erba, e pesci che guizzano: è gran delizia il trovarsi in un giardino pieno di frutti e fiori, circondato da fontane che scorrono, e con uccelli che van volando e cantando d'intorno. Dirà taluno: Oh che paradiso! Che paradiso? che paradiso? altri sono i beni del paradiso. Per intendere qualche cosa in confuso del paradiso, si consideri ch'ivi sta un Dio onnipotente, impegnato a deliziare le anime che ama. Dice S. Bernardo: Vuoi sapere che cosa vi è in paradiso? «Nihil est quod nolis, totum est quod velis». Ivi non vi è cosa che dispiaccia, e vi è tutto quello che piace.
              Oh Dio, che dirà l'anima in entrare in quel regno beato! Immaginiamoci che muoia quella verginella, o quel giovine, ch'essendosi consagrato all'amore di Gesu-Cristo, arrivata la morte, lascia già questa terra. L'anima è presentata al giudizio, il giudice l'abbraccia e le dichiara ch'è salva. Le viene ad incontro l'Angelo Custode, e se ne rallegra; ella lo ringrazia dell'assistenza fattale, e l'Angelo poi le dice: Via su, anima bella, allegramente già sei salva, vieni a vedere la faccia del tuo Signore. Ecco l'anima già passa le nubi, le sfere, le stelle: entra nel cielo. Oh Dio, che dirà nel metter piede la prima volta in quella patria beata, e in dar la prima occhiata a quella città di delizie! Gli angeli e i santi le verranno ad incontro, e giubilando le daranno il benvenuto. Ivi che consolazione avrà in incontrarsi co' suoi parenti, o amici entrati già prima in paradiso, e co' suoi santi avvocati! Vorrà l'anima allora genuflettersi avanti di loro per venerarli, ma le diranno quei santi: «Vide ne faceris, conservus tuus sum» (Apoc. 22. 9). Indi sarà portata a baciare i piedi a Maria ch'è la Regina del paradiso. Qual tenerezza sentirà l'anima in conoscere di vista la prima volta quella divina Madre, che tanto l'ha aiutata a salvarsi! Poiché allora vedrà l'anima tutte le grazie, che le ha ottenute Maria, dalla quale poi si vedrà amorosamente abbracciata. Indi dalla stessa Regina sarà l'anima condotta a Gesù, che la riceverà come sposa e le dirà: «Veni de Libano, sponsa mea, veni, coronaberis» (Cant. 4. 8). Sposa mia, allegramente, son finite le lagrime, le pene e i timori; ricevi la corona eterna, ch'io t'ho acquistata col mio sangue. Gesù stesso poi la porterà a ricever la benedizione dal suo Padre divino, che abbracciandola la benedirà dicendole: «Intra in gaudium Domini tui» (Matth. 25. 21). Ella sarà beata della medesima beatitudine ch'Egli gode.

Affetti e preghiere
              Ecco, mio Dio a' piedi vostri un ingrato, creato da Voi per lo paradiso, ma egli tante volte per miseri piaceri ve l'ha rinunziato in faccia, contentandosi d'esser condannato all'inferno. Ma spero che Voi già m'abbiate perdonato tutte l'ingiurie che v'ho fatto, delle quali sempre di nuovo mi pento, e voglio pentirmene sino alla morte; e voglio che sempre Voi di nuovo me le torniate a perdonare. Ma oh Dio, che benché Voi m'abbiate già perdonato, sempre non però sarà vero ch'io ho avuto l'animo di amareggiare Voi, mio Redentore, che per condurmi al vostro regno avete data la vita. Ma sia sempre lodata e benedetta la vostra misericordia, o Gesù mio, che con tanta pazienza m'avete sopportato; e in vece di castighi avete accresciute verso di me le grazie, i lumi e le chiamate. Vedo, caro mio Salvatore, che proprio mi volete salvo, mi volete nella vostra patria ad amarvi eternamente, ma volete ch'io prima v'ami in questa terra. Sì, che voglio amarvi. Ancorché non vi fosse paradiso, io voglio amarvi, finché vivo, con tutta l'anima, con tutte le mie forze. Mi basti il sapere che Voi, mio Dio, desiderate esser amato da me. Gesù mio, assistemi con la vostra grazia, non mi abbandonate. L'anima mia è eterna, dunque sto nella sorte o di amarvi, o di odiarvi in eterno? No, io in eterno voglio amarvi, e voglio amarvi assai in questa vita, per amarvi assai nell'altra. Disponete di me come vi piace, castigatemi qui come volete, non mi private del vostro amore, e poi fatene di me quel che vi piace. Gesù mio, i meriti vostri sono la speranza mia.
              O Maria, nella vostra intercessione io tutto confido. Voi m'avete liberato dall'inferno, quand'io stava in peccato; ora che voglio amar Dio, Voi mi avete da salvare e da far santo.

PUNTO II
              Entrata che sarà l'anima nella beatitudine di Dio, «nihil est quod nolit», non avrà cosa più che l'affanni. «Absterget Deus omnem lacrimam ab oculis eorum, et mors ultra non erit; neque luctus, neque clamor, neque dolor erit ultra; quia prima abierunt. Et dixit qui sedebat in throno: Ecce nova facio omnia» (Apoc. 21. 4). Nel paradiso non vi sono più infermità, non povertà, né incomodi: non vi sono più vicende di giorni e di notti, né di freddo o di caldo. Ivi è un continuo giorno sempre sereno, una continua primavera sempre deliziosa. Ivi non vi sono più persecuzioni o invidie; in quel regno d'amore tutti s'amano teneramente, e ciascuno gode del bene dell'altro come fosse suo. Non vi sono più timori, perché l'anima confermata in grazia non può più peccare e perdere il suo Dio. «Ecce nova facio omnia». Ogni cosa è nuova, ed ogni cosa consola e sazia. «Totum est quod velis». Ivi sarà contentata la vista, in rimirare quella città di perfetta bellezza: «Urbs perfecti decoris» (Thren. 2. 15). Che delizia sarebbe vedere una città, dove il pavimento delle vie fosse di cristallo, i palagi d'argento con i soffitti d'oro, e tutt'adorni di festoni di fiori? Oh quanto sarà più bella la città del paradiso! Che sarà poi vedere que' cittadini tutti vestiti alla regale, poiché tutti sono re, come parla S. Agostino: «Quot cives tot reges!» Che sarà veder Maria, che comparirà più bella che tutto il paradiso! Che sarà poi vedere l'Agnello divino, lo sposo Gesù! Santa Teresa appena vide una volta una mano di Gesu-Cristo, rimase stupida per tanta bellezza. Sarà contentato l'odorato con quegli odori, ma odori di paradiso. Sarà contentato l'udito colle armonie celesti. S. Francesco intese una volta da un angelo una sola arcata di viola, ed ebbe a morirne per la dolcezza. Che sarà sentir tutt'i santi e gli angeli cantare a coro le glorie di Dio! «In saecula saeculorum laudabunt te» (Ps. 83. 5). Che sarà udir Maria che loda Dio! La voce di Maria in cielo, dice S. Francesco di Sales, sarà come d'un uscignuolo in un bosco, che supera il canto di tutti gli altri uccellini, che vi sono. In somma ivi son tutte le delizie, che possono desiderarsi.
              Ma queste delizie sinora considerate sono i minori beni del paradiso. Il bene che fa il paradiso è il sommo bene ch'è Dio. «Totum quod exspectamus (dice S. Agostino), duae syllabae sunt, Deus». Il premio che il Signore ci promette, non sono solamente le bellezze, le armonie e gli altri gaudi di quella città beata: il premio principale è Dio medesimo, cioè il vedere e l'amare Dio da faccia a faccia. «Ego ero merces tua magna nimis» (Gen. 15. 1). Dice S. Agostino che se Dio facesse veder la sua faccia a' dannati, «continuo infernus ipse in amoenum converteretur paradisum» (Tom. 9. de Tripl. habit.). E soggiunge che se ad un'anima uscita da questa vita stesse ad eleggere o di veder Dio e star nelle pene dell'inferno, o pure di non vederlo ed esser liberata dall'inferno, «eligeret potius videre Dominum, et esse in illis poenis».
              Questo gaudio di vedere e amar Dio da faccia a faccia, da noi in questa vita non può comprendersi; ma argomentiamone qualche cosa dal saper per prima che l'amor divino è così dolce, che anche in questa vita è giunto a sollevar da terra non solo l'anime, ma ancora i corpi de' santi. S. Filippo Neri fu una volta rapito in aria con tutto lo scanno a cui s'afferrò. S. Pietro d'Alcantara fu anche alzato da terra abbracciato ad un albero svelto sin dalle radici. In oltre sappiamo che i santi martiri per la dolcezza dell'amor divino giubilavano negli stessi tormenti. S. Vincenzo mentr'era tormentato, parlava in modo (dice S. Agostino) che «alius videbatur pati, alius loqui». S. Lorenzo stando sulla graticola sul fuoco, insultava il tiranno: «Versa, et manduca»; sì, dice lo stesso S. Agostino, perché Lorenzo, «hoc igne (del divino amore) accensus non sentit incendium». In oltre, che dolcezze prova un peccatore in questa terra, anche in piangere i suoi peccati! Onde dicea S. Bernardo: «Si tam dulce est flere pro te, quid erit gaudere de te». Che suavità poi non prova un'anima, a cui nell'orazione se le scopre con un raggio di luce la divina bontà, le misericordie che l'ha usate e l'amore che l'ha portato e porta Gesu-Cristo! si sente allora l'anima struggere, e venir meno per l'amore. E pure in questa terra noi non vediamo Dio com'è: lo vediamo allo scuro. «Videmus nunc per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad faciem» (1. Cor. 13. 12). Al presente noi abbiamo una benda avanti gli occhi, e Dio sta sotto la portiera della fede, e non si fa da noi vedere; che sarà quando dagli occhi nostri si toglierà la benda, e s'alzerà la portiera, e vedremo Dio da faccia a faccia? vedremo quant'è bello Dio, quant'è grande, quant'è giusto, quant'è perfetto, quant'è amabile e quant'amoroso.

Affetti e preghiere
              Ah mio sommo bene, io sono quel misero, che vi ho voltate le spalle, ed ho rinunziato al vostro amore. Perciò non sarei più degno né di vedervi, né di amarvi. Ma Voi siete quegli, che per aver compassione di me, non avete avuto compassione di Voi, condannandovi a morir di dolore svergognato su d'un legno infame. La vostra morte dunque mi dà a sperare, che un giorno avrò da vedere e godere la vostra faccia, con amarvi allora con tutte le mie forze. Ma ora che sto in pericolo di perdervi per sempre, ora che mi trovo di avervi già perduto co' miei peccati, che farò nella vita che mi resta? seguiterò ad offendervi? No, Gesù mio, io detesto con tutto l'odio l'offese che v'ho fatte; mi dispiace sommamente di avervi ingiuriato, e v'amo con tutto il cuore. Discaccerete da Voi un'anima, che si pente e v'ama? No, già so quel che Voi avete detto, che non sapete, amato mio Redentore, discacciar niuno che viene pentito a' piedi vostri: «Eum qui venit ad me, non eiiciam foras» (Io. 6. 37). Gesù mio, io lascio tutto, e mi converto a Voi; v'abbraccio, vi stringo al mio cuore; abbracciatemi e stringetemi al vostro Cuore ancora Voi. Ardisco di parlare così, perché parlo e tratto con una bontà infinita: parlo con un Dio, che si è contentato di morire per amor mio. Caro mio Salvatore, datemi perseveranza nel vostro amore.
              Cara Madre mia Maria, per quanto amate Gesu-Cristo ottenetemi questa perseveranza. Così spero, così sia.

PUNTO III
              In questa terra la maggior pena che affligge l'anime che amano Dio, e sono in desolazione, è il timore di non amare e di non essere amate da Dio. «Nescit homo, utrum amore an odio dignus sit» (Eccle. 9. 1). Ma nel paradiso l'anima è sicura ch'ella ama Dio, e ch'è amata da Dio; vede ch'ella è felicemente perduta nell'amor del suo Signore, e che 'l Signore la tiene abbracciata come figlia cara, e vede che quest'amore non si scioglierà mai più in eterno. Accrescerà le beate fiamme all'anima il meglio conoscere che farà allora, quale amore è stato di Dio l'essersi fatto uomo, e morire per lei! quale amore l'istituzione del SS. Sagramento, un Dio farsi cibo d'un verme! Vedrà allora anche l'anima distintamente tutte le grazie che Dio le ha fatte in liberarla da tante tentazioni e pericoli di perdersi; ed allora vedrà che quelle tribolazioni, infermità, persecuzioni e perdite, ch'ella chiamava disgrazie e castighi di Dio, sono state tutte amore e tiri della divina provvidenza per condurla al paradiso. Vedrà specialmente la pazienza che ha avuta Dio in sopportarla dopo tanti peccati, e le misericordie che le ha usate, donandole tanti lumi e tante chiamate d'amore. Vedrà lassù di quel monte beato tante anime dannate nell'inferno per meno peccati de' suoi, ed ella si vedrà già salva, che possiede Dio, ed è sicura di non avere più a perdere quel sommo bene per tutta l'eternità.
              Sempre dunque il beato goderà quella felicità, che per tutta l'eternità in ogni momento gli sarà sempre nuova, come se quel momento fosse la prima volta in cui la godesse. Sempre desidererà quel gaudio, e sempre l'otterrà: sempre contenta, sempre sitibonda: sempre sitibonda, e sempre saziata; sì, perché il desiderio del paradiso non porta pena, e 'l possesso non porta tedio. In somma siccome i dannati sono vasi pieni d'ira, i beati sono vasi pieni di contento, in modo che non hanno più che desiderare. Dice S. Teresa che anche in questa terra, quando Iddio introduce un'anima nella cella del vino, cioè del suo divino amore, la rende felicemente ubbriaca, talmente ch'ella perde l'affetto a tutte le cose terrene. Ma in entrare in paradiso, oh quanto più perfettamente, come dice Davide, gli eletti «inebriabuntur ab ubertate domus tuae» (Ps. 35. 9). Allora avverrà che l'anima in vedere alla scoverta, e in abbracciarsi col suo sommo bene, resterà talmente inebriata d'amore, che felicemente si perderà in Dio, cioè affatto si scorderà di se stessa, e non penserà d'allora in poi che ad amare, a lodare e benedire quell'infinito bene, che possiede.
              Quando dunque ci affliggono le croci di questa vita, confortiamoci a sopportarle pazientemente colla speranza del paradiso. S. Maria Egizziaca, dimandata in fine della sua vita dall'Abbate Zosimo, come avea potuto soffrire di vivere per tanti anni in quel deserto? Rispose: «Colla speranza del paradiso». S. Filippo Neri, essendogli offerta la dignità cardinalizia, buttò la berretta in aria dicendo: «Paradiso, paradiso». Fra Egidio Francescano in sentir nominare paradiso, era sollevato in aria per lo contento. Così parimenti ancora noi, quando ci vediamo angustiati dalle miserie di questa terra, alziamo gli occhi al cielo e consoliamoci, sospirando e dicendo: «Paradiso, paradiso». Pensiamo, che, se saremo fedeli a Dio, finiranno un giorno tutte queste pene, miserie e timori, e saremo ammessi in quella patria beata, dove saremo pienamente felici, mentre Dio sarà Dio. Ecco che ci aspettano i santi, ci aspetta Maria; e Gesù sta colla corona in mano, per renderci re di quel regno eterno.

Affetti e preghiere
              Caro mio Salvatore, Voi mi avete insegnato a pregarvi: «Adveniat regnum tuum»: così dunque ora vi prego, venga il tuo regno nell'anima mia, sicché Voi la possediate tutta, ed ella possegga Voi sommo bene. O Gesù mio, Voi non avete niente risparmiato per salvarmi, e per acquistarvi il mio amore; salvatemi dunque, e la salute mia sia l'amarvi per sempre in questa e nell'altra vita. Io tante volte vi ho voltato le spalle, e con tutto ciò Voi mi fate sapere che non isdegnerete di tenermi abbracciato in paradiso per tutta l'eternità con tanto amore, come s'io non mai vi avessi offeso; ed io sapendo ciò potrò amare altri che Voi, vedendo che volete darmi il paradiso, dopo che tante volte m'ho meritato l'inferno? Ah mio Signore, non vi avessi mai offeso! Oh se tornassi a nascere, vorrei sempre amarvi! Ma il fatto è fatto. Or altro non posso che donare a Voi questa vita che mi resta. Sì, a Voi tutta la dono; tutto mi consagro al vostro amore. Uscite del mio cuore, affetti terreni, date luogo al mio Dio, che vuol possederlo tutto. Sì possedetemi tutto, o mio Redentore, mio amore, mio Dio. Da ogg'innanzi non voglio pensare che a compiacervi. Aiutatemi colla vostra grazia; così spero ai meriti vostri. Accrescete sempre più in me l'amor vostro e 'l desiderio di darvi gusto. Paradiso, paradiso! Quando sarà, Signore, che vi vedrò da faccia a faccia? e mi abbraccerò con Voi, senza timore di avervi più a perdere? Ah mio Dio, tenetemi le mani sopra, acciocché non vi offenda più.
              O Maria, quando sarà che mi vedrò a' piedi vostri in paradiso? Soccorretemi, Madre mia, non permettete ch'io mi danni e che vada a star lontano da Voi e dal vostro Figlio.



Thursday 31 August 2017

"Apparecchio alla Morte" by St Alfonso Maria de Liguori (in Italian) – XXIX



CONSIDERAZIONE XXVIII - RIMORSI DEL DANNATO
«Vermis eorum non moritur» (Marc. 9. 47).

PUNTO I
              Per questo verme che non muore, spiega S. Tommaso che s'intende il rimorso di coscienza, dal quale eternamente sarà il dannato tormentato nell'inferno. Molti saranno i rimorsi con cui la coscienza roderà il cuore de' reprobi, ma tre saranno i rimorsi più tormentosi: il pensare al poco per cui si son dannati: al poco che dovean fare per salvarsi: e finalmente al gran bene che han perduto. Il primo rimorso dunque che avrà il dannato sarà il pensare per quanto poco s'è perduto. Dopo che Esaù ebbesi cibato di quella minestra di lenticchie, per cui avea venduta la sua primogenitura, dice la Scrittura che per lo dolore e rimorso della perdita fatta si pose ad urlare: «Irrugiit clamore magno» (Gen. 27. 34). Oh quali altri urli e ruggiti darà il dannato pensando che per poche soddisfazioni momentanee e avvelenate si ha perduto un regno eterno di contenti, e si ha da vedere eternamente condannato ad una continua morte! Onde piangerà assai più amaramente, che non piangeva Gionata, allorché videsi condannato a morte da Saulle suo padre, per essersi cibato d'un poco di mele. «Gustans gustavi paulum mellis, et ecce morior» (1. Reg. 14. 43). Oh Dio, e qual pena apporterà al dannato il vedere allora la causa della sua dannazione? Al presente che cosa a noi sembra la nostra vita passata, se non un sogno, un momento? Or che pareranno a chi sta nell'inferno quelli cinquanta, o sessanta anni di vita, che avrà vivuti in questa terra, quando si troverà nel fondo dell'eternità, in cui saranno già passati cento e mille milioni d'anni, e vedrà che la sua eternità allora comincia! Ma che dico cinquanta anni di vita? cinquanta anni tutti forse di gusti? e che forse il peccatore vivendo senza Dio, sempre gode ne' suoi peccati? quando durano i gusti del peccato? durano momenti; e tutto l'altro tempo per chi vive in disgrazia di Dio, è tempo di pene e di rancori. Or che pareranno quelli momenti di piaceri al povero dannato? e specialmente che parerà quell'uno ed ultimo peccato fatto, per lo quale s'è perduto? Dunque (dirà) per un misero gusto brutale ch'è durato un momento, e appena avuto è sparito come vento, io avrò da stare ad ardere in questo fuoco, disperato ed abbandonato da tutti, mentre Dio sarà Dio per tutta l'eternità!

Affetti e preghiere
              Signore, illuminatemi a conoscere l'ingiustizia che v'ho usata in offendervi, e 'l castigo eterno che con ciò mi ho meritato. Mio Dio, sento una gran pena di avervi offeso, ma questa pena mi consola; se Voi mi aveste mandato all'inferno, come io ho meritato, questo rimorso sarebbe l'inferno del mio inferno, pensando per quanto poco mi son dannato; ma ora questo rimorso (dico) mi consola, perché mi dà animo a sperare il perdono da Voi, che avete promesso di perdonare chi si pente. Sì, mio Signore, mi pento di avervi oltraggiato, abbraccio questa dolce pena, anzi vi prego ad accrescermela e a conservarmela sino alla morte, acciocché io pianga sempre amaramente i disgusti che v'ho dati. Gesù mio, perdonatemi; o mio Redentore, che per avere pietà di me, non avete avuta pietà di Voi, condannandovi a morire di dolore, per liberarmi dall'inferno, abbiate pietà di me. Fate dunque che il rimorso di avervi offeso mi tenga continuamente addolorato, e nello stesso tempo m'infiammi tutto d'amore verso di Voi, che tanto mi avete amato, e con tanta pazienza mi avete sofferto, ed ora invece di castighi, mi arricchite di lumi e di grazie; ve ne ringrazio, Gesù mio, e v'amo; v'amo più di me stesso, v'amo con tutt'il cuore. Voi non sapete disprezzare chi v'ama. Io v'amo, non mi discacciate dalla vostra faccia. Ricevetemi dunque nella vostra grazia, e non permettete ch'io v'abbia da perdere più.
              Maria Madre mia, accettatemi per vostro servo, e stringetemi a Gesù vostro Figlio. Pregatelo che mi perdoni, che mi doni il suo amore e la grazia della perseveranza sino alla morte.

PUNTO II
              Dice S. Tommaso che questa sarà la pena principale de' dannati, il vedere che si son perduti per niente, e che con tanta facilità poteano acquistarsi la gloria del paradiso, se voleano: «Principaliter dolebunt, quod pro nihilo damnati sunt, et facillime vitam poterant consequi sempiternam». Il secondo rimorso dunque della coscienza sarà il pensare al poco che dovean fare per salvarsi. Comparve a S. Umberto un dannato e gli disse che quest'appunto era la maggiore afflizione, che cruciavalo nell'inferno, il pensiero del poco per cui s'era dannato, e del poco che avrebbe avuto a fare per salvarsi. Dirà allora il misero: S'io mi mortificava a non guardare quell'oggetto, se vincea quel rispetto umano, se fuggiva quell'occasione, quel compagno, quella conversazione, non mi sarei dannato. Se mi fossi confessato ogni settimana, se avessi frequentata la Congregazione, se avessi letto ogni giorno quel libretto spirituale, se mi fossi raccomandato a Gesu-Cristo ed a Maria, non sarei ricaduto. Ho proposto tante volte di farlo, ma non l'ho eseguito; o pure l'ho cominciato a fare, e poi l'ho lasciato, e perciò mi son perduto.
              Accresceranno la pena di questo rimorso gli esempi, che avrà avuti degli altri suoi buoni amici e compagni; e più l'accresceranno i doni che Dio gli avea concessi per salvarsi: doni di natura, come buona sanità, beni di fortuna, talenti che 'l Signore gli avea dati affin di bene impiegarli, e farsi santo: doni poi di grazia, tanti lumi, ispirazioni, chiamate, e tanti anni conceduti a rimediare il mal fatto: ma vedrà che in questo stato miserabile, al quale è arrivato, non v'è più tempo da rimediare. Sentirà l'Angelo del Signore che grida e giura: «Et Angelus, quem vidi stantem, iuravit per viventem in saecula saeculorum... quia tempus non erit amplius» (Apoc. 10. 6). Oh che spade crudeli saranno tutte queste grazie ricevute al cuore del povero dannato, allorché vedrà esser finito già il tempo di poter più dar riparo alla sua eterna ruina. Dirà dunque piangendo cogli altri suoi compagni disperati: «Transiit messis, finita est aestas, et nos salvati non sumus» (Ier. 8. 20). Dirà: Oh se le fatiche che ho fatte per dannarmi, l'avessi spese per Dio, mi troverei fatto un gran santo; ed ora che me ne trovo, se non rimorsi e pene, che mi tormenteranno in eterno? Ah che questo pensiero crucierà il dannato più che il fuoco, e tutti gli altri tormenti dell'inferno; il dire: Io poteva essere per sempre felice, ed ora ho da essere per sempre infelice.

Affetti e preghiere
              Ah Gesù mio, e come avete potuto tanto sopportarmi? io tante volte v'ho voltate le spalle, e Voi non avete lasciato di venirmi appresso. Io tante volte vi ho offeso, e Voi mi avete perdonato; vi ho tornato ad offendere, e Voi avete ritornato a perdonarmi. Deh fatemi parte di quel dolore, che sentiste nell'orto di Getsemani de' peccati miei, che allora vi fecero sudar sangue. Mi pento, Redentor mio caro, di aver così malamente pagato il vostro Cuore. O gusti miei maledetti, vi detesto e maledico, voi mi avete fatta perdere la grazia del mio Signore. Amato mio Gesù, ora io v'amo sopra ogni cosa, rinunzio a tutte le soddisfazioni illecite e propongo prima di morir mille volte, che di offendervi più. Deh per quell'affetto con cui mi amaste sulla croce ed offeriste la vostra vita divina per me, datemi luce e forza di resistere alle tentazioni, e di ricorrere al vostro aiuto, quando sarò tentato.
              O Maria speranza mia, Voi tutto potete appresso Dio, impetratemi la santa perseveranza: ottenetemi ch'io più non mi divida dal suo santo amore.

PUNTO III
              Il terzo rimorso del dannato sarà il vedere il gran bene, che ha perduto. Dice S. Giovanni Grisostomo che i presciti saranno più tormentati dalla perdita fatta del paradiso, che dalle stesse pene dell'inferno: «Plus coelo torquentur, quam gehenna». Disse l'infelice principessa Elisabetta regina d'Inghilterra: Diami Dio quarant'anni di regno, ed io gli rinunzio il paradiso. Ebbe la misera questi quarant'anni di regno, ma ora che l'anima sua ha lasciato questo mondo, che dice? certamente che non la sente così; oh come ora se ne troverà afflitta e disperata, pensando che per quarant'anni di regno terreno, posseduto fra timori ed angustie, ha perduto eternamente il regno del cielo.
              Ma quello che più affliggerà in eterno il dannato, sarà il vedere che ha perduto il cielo e 'l sommo bene ch'è Dio, non già per sua mala sorte, o per malevolenza altrui, ma per propria colpa. Vedrà ch'egli è stato creato per lo paradiso; vedrà che Dio ha dato in mano di lui l'elezione a procurarsi, o la vita, o la morte eterna. «Ante hominem vita, et mors... quod placuerit ei dabitur illi» (Eccli. 15. 18). Sicché vedrà essere stato in mano sua, se voleva, il rendersi eternamente felice, e vedrà ch'egli da se stesso ha voluto precipitarsi in quella fossa di tormenti, dalla quale non potrà più uscirne, né vi sarà mai alcuno che procurerà di liberarnelo. Vedrà salvati tanti suoi compagni, che si saran trovati negli stessi, e forse maggiori pericoli di peccare, ma perché han saputo contenersi con raccomandarsi a Dio, o pure se vi son caduti, perché han saputo presto risorgere e darsi a Dio, si son salvati; ma egli perché non ha voluta finirla, è andato infelicemente a finir nell'inferno, in quel mare di tormenti, senza speranza di potervi più rimediare.
              Fratello mio, se per lo passato ancora voi siete stato così pazzo, che avete voluto perdere il paradiso e Dio per un gusto miserabile, procurate di darvi presto rimedio ora ch'è tempo. Non vogliate seguire ad esser pazzo. Tremate di andare a piangere la vostra pazzia in eterno. Chi sa se questa considerazione che leggete, è l'ultima chiamata che vi fa Dio. Chi sa se ora non mutate vita, ad un altro peccato mortale che farete, il Signore v'abbandoni, e per questo poi vi manderà a penare eternamente tra quella ciurma di pazzi, che ora stanno all'inferno, e confessano il loro errore («ergo erravimus»), ma lo confessano disperati, vedendo che al loro errore non v'è più rimedio. Quand'il demonio vi tenta a peccare di nuovo, ricordatevi dell'inferno, e ricorrete a Dio, alla SS. Vergine; il pensier dell'inferno vi libererà dall'inferno. «Memorare novissima tua, et in aeternum non peccabis» (Eccli. 7), perché il pensier dell'inferno vi farà ricorrere a Dio.

Affetti e preghiere
              Ah mio sommo bene, e quante volte io vi ho perduto per niente, ed ho meritato di perdervi per sempre! ma mi consola il sentire quel che dice il vostro profeta: «Laetetur cor quaerentium Dominum» (Psal. 104. 25). Non debbo dunque sconfidare di ricuperarvi, Dio mio, se di cuore vi cerco. Sì, mio Signore, ora sospiro la vostra grazia più ch'ogni altro bene. Mi contento d'esser privato di tutto, anche della vita, prima che vedermi privo del vostro amore. V'amo, mio Creatore, sopra ogni cosa, e perché v'amo, mi pento di avervi offeso. Dio mio, da me perduto e disprezzato, presto perdonatemi; e fate ch'io vi ritrovi, poiché non voglio perdervi più. Se mi ricevete di nuovo alla vostra amicizia, voglio lasciar tutto e ridurmi ad amare Voi solo; così spero alla vostra misericordia. Padre eterno, esauditemi per amore di Gesu-Cristo; perdonatemi e datemi la grazia di non separarmi più da Voi; che se di nuovo io volontariamente vi perdo, giustamente debbo temere che Voi m'abbandonate.
              O Maria, o paciera de' peccatori, fatemi far pace con Dio, e poi tenetemi stretto sotto il vostro manto, acciocché io non lo perda più.