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Thursday 23 September 2021

Thursday Serial: "Le Avventure di Pinocchio" by Carlo Collodi (in Italian) - VIII

XXVIII.

Pinocchio corre pericolo di essere fritto in padella, come un pesce.

 

Durante quella corsa disperata, vi fu un momento terribile, un momento in cui Pinocchio si credè perduto: perchè bisogna sapere che Alidoro (era questo il nome del can mastino) a furia di correre e correre, l’aveva quasi raggiunto.

Basti dire che il burattino sentiva dietro di sè, alla distanza d’un palmo, l’ansare affannoso di quella bestiaccia, e ne sentiva perfino la vampa calda delle fiatate.

Per buona fortuna la spiaggia era oramai vicina, e il mare si vedeva lì a pochi passi.

Appena fu sulla spiaggia, il burattino spiccò un bellissimo salto, come avrebbe potuto fare un ranocchio, e andò a cascare in mezzo all’acqua. Alidoro invece voleva fermarsi; ma trasportato dall’impeto della corsa, entrò nell’acqua anche lui. E quel disgraziato non sapeva nuotare; per cui cominciò subito ad annaspare colle zampe per reggersi a galla: ma più annaspava, e più andava col capo sott’acqua.

Quando ritornò a rimettere il capo fuori, il povero cane aveva gli occhi impauriti e stralunati, e, abbaiando gridava:

— Affogo! affogo!

— Crepa! — gli rispose Pinocchio da lontano, il quale si vedeva oramai sicuro da ogni pericolo.

— Aiutami, Pinocchio mio!... salvami dalla morte!... —

A quelle grida strazianti il burattino, che in fondo aveva un cuore eccellente, si mosse a compassione, e voltosi al cane, gli disse:

— Ma se io ti aiuto a salvarti, mi prometti di non darmi più noia e di non corrermi dietro?

— Te lo prometto! te lo prometto! Spicciati per carità, perchè se indugi un altro mezzo minuto, son bell’e morto. —

Pinocchio esitò un poco: ma poi ricordandosi che il suo babbo gli aveva detto tante volte che a fare una buona azione non ci si scapita mai, andò nuotando a raggiungere Alidoro, e, presolo per la coda con tutte e due le mani, lo portò sano e salvo sulla rena asciutta del lido.

Il povero cane non si reggeva più in piedi. Aveva bevuto, senza volerlo, tant’acqua salata, che era gonfiato come un pallone. Per altro il burattino, non volendo fare a fidarsi troppo, stimò cosa prudente di gettarsi novamente in mare; e allontanandosi dalla spiaggia, gridò all’amico salvato:

— Addio, Alidoro; fa’ buon viaggio, e tanti saluti a casa.

— Addio, Pinocchio, — rispose il cane; — mille grazie di avermi liberato dalla morte. Tu m’hai fatto un gran servizio: e in questo mondo quel che è fatto è reso. Se capita l’occasione ci riparleremo.... —

Pinocchio seguitò a nuotare, tenendosi sempre vicino alla terra. Finalmente gli parve di esser giunto in un luogo sicuro; e dando un’occhiata alla spiaggia, vide sugli scogli una specie di grotta, dalla quale usciva un lunghissimo pennacchio di fumo.

— In quella grotta — disse allora fra sè — ci deve essere del fuoco. Tanto meglio! Anderò a rasciugarmi e riscaldarmi, e poi?... e poi sarà quel che sarà. —

Presa questa risoluzione, si avvicinò alla scogliera; ma quando fu lì per arrampicarsi, sentì qualche cosa sotto l’acqua che saliva, saliva, saliva e lo portava per aria. Tentò subito di fuggire, ma oramai era tardi, perchè con sua grandissima maraviglia si trovò rinchiuso dentro una grossa rete in mezzo a un brulichìo di pesci d’ogni forma e grandezza, che scodinzolavano e si dibattevano come tante anime disperate.

E nel tempo stesso vide uscire dalla grotta un pescatore così brutto, ma tanto brutto, che pareva un mostro marino. Invece di capelli aveva sulla testa un cespuglio foltissimo di erba verde; verde era la pelle del suo corpo, verdi gli occhi, verde la barba lunghissima, che gli scendeva fin quaggiù. Pareva un grosso ramarro ritto sui piedi di dietro.

Quando il pescatore ebbe tirata fuori la rete dal mare, gridò tutto contento:

— Provvidenza benedetta! Anch’oggi potrò fare una bella scorpacciata di pesce!

— Manco male, che io non sono un pesce! — disse Pinocchio dentro di sè, ripigliando un po’ di coraggio.

La rete piena di pesci fu portata dentro la grotta, una grotta buia e affumicata, in mezzo alla quale friggeva una gran padella d’olio, che mandava un odorino di moccolaia, da mozzare il respiro.

— Ora vediamo un po’ che pesci abbiamo presi! — disse il pescatore verde; e ficcando nella rete una manona così spropositata, che pareva una pala da fornai, tirò fuori una manciata di triglie.

— Buone queste triglie! — disse, guardandole e annusandole con compiacenza. E dopo averle annusate, le scaraventò in una conca senz’acqua.

Poi ripetè più volte la solita operazione; e via via che cavava fuori gli altri pesci, sentiva venirsi l’acquolina in bocca e gongolando diceva:

— Buoni questi naselli!...

— Squisiti questi muggini!...

— Deliziose queste sogliole!...

— Prelibati questi ragnotti!...

— Carine queste acciughe col capo! —

Come potete immaginarvelo, i naselli, i muggini, le sogliole, i ragnotti e l’acciughe, andarono tutti alla rinfusa nella conca, a tener compagnia alle triglie.

L’ultimo che restò nella rete fu Pinocchio.

Appena il pescatore l’ebbe cavato fuori, sgranò dalla maraviglia i suoi occhioni verdi, gridando quasi impaurito:

— Che razza di pesce è questo? Dei pesci fatti a questo modo non mi ricordo di averne mangiati mai. —

E tornò a guardarlo attentamente, e dopo averlo guardato ben bene per ogni verso, finì col dire:

— Ho capito: dev’essere un granchio di mare.

Allora Pinocchio mortificato di sentirsi scambiare per un granchio, disse con accento risentito:

— Ma che granchio e non granchio? Guardi come lei mi tratta! Io, per sua regola, sono un burattino.

— Un burattino? — replicò il pescatore. — Dico la verità, il pesce burattino è per me un pesce nuovo! Meglio così! ti mangerò più volentieri.

— Mangiarmi? ma la vuol capire che io non sono un pesce? O non sente che parlo, e ragiono come lei?

— È verissimo; — soggiunse il pescatore — e siccome vedo che sei un pesce, che hai la fortuna di parlare e di ragionare come me, così voglio usarti anch’io i dovuti riguardi.

— E questi riguardi sarebbero?...

— In segno di amicizia e di stima particolare, lascerò a te la scelta del come vuoi esser cucinato. Desideri esser fritto in padella, oppure preferisci di esser cotto nel tegame colla salsa di pomidoro?

— A dir la verità, — rispose Pinocchio — se io debbo scegliere, preferisco piuttosto di esser lasciato libero, per potermene tornare a casa mia.

— Tu scherzi! Ti pare che io voglia perdere l’occasione di assaggiare un pesce così raro? Non capita mica tutti i giorni un pesce burattino in questi mari. Lascia fare a me: ti friggerò in padella assieme a tutti gli altri pesci, e te ne troverai contento. L’esser fritto in compagnia è sempre una consolazione. —

L’infelice Pinocchio, a quest’antifona, cominciò a piangere, a strillare, a raccomandarsi: e piangendo diceva: — Quant’era meglio, che fossi andato a scuola!... Ho voluto dar retta ai compagni, e ora la pago! Ih!... Ih!... Ih!... —

E perchè si divincolava come un’anguilla e faceva sforzi incredibili, per isgusciare dalle grinfie del pescatore verde, questi prese una bella buccia di giunco, e dopo averlo legato per le mani e per i piedi, come un salame, lo gettò in fondo alla conca cogli altri.

Poi, tirato fuori un vassoiaccio di legno, pieno di farina, si dètte a infarinare tutti quei pesci: e man mano che li aveva infarinati, li buttava a friggere dentro la padella.

I primi a ballare nell’olio bollente furono i poveri naselli: poi toccò ai ragnotti, poi ai muggini, poi alle sogliole e alle acciughe, e poi venne la volta di Pinocchio. Il quale, a vedersi così vicino alla morte (e che brutta morte!) fu preso da tanto tremito e da tanto spavento, che non aveva più nè voce nè fiato per raccomandarsi.

Il povero figliuolo si raccomandava cogli occhi! Ma il pescatore verde, senza badarlo neppure, lo avvoltò cinque o sei volte nella farina, infarinandolo così bene dal capo ai piedi, che pareva diventato un burattino di gesso.

Poi lo prese per il capo, e....

 

 

XXIX.

Ritorna a casa della Fata, la quale gli promette che il giorno dopo non sarà più un burattino, ma diventerà un ragazzo. Gran colazione di caffè-e-latte per festeggiare questo grande avvenimento.

 

Mentre il pescatore era proprio sul punto di buttar Pinocchio nella padella, entrò nella grotta un grosso cane condotto là dall’odore acutissimo e ghiotto della frittura.

— Passa via! — gli gridò il pescatore minacciandolo e tenendo sempre in mano il burattino infarinato.

Ma il povero cane aveva una fame per quattro, e mugolando e dimenando la coda, pareva che dicesse:

― Dammi un boccone di frittura e ti lascio in pace.

— Passa via, ti dico! — gli ripetè il pescatore; e allungò la gamba per tirargli una pedata.

Allora il cane che, quando aveva fame davvero, non era avvezzo a lasciarsi posar mosche sul naso, si rivoltò ringhioso al pescatore, mostrandogli le sue terribili zanne.

In quel mentre si udì nella grotta una vocina fioca fioca, che disse:

— Salvami, Alidoro! Se non mi salvi, son fritto!...

Il cane riconobbe subito la voce di Pinocchio, e si accòrse, con sua grandissima maraviglia, che la vocina era uscita da quel fagotto infarinato, che il pescatore teneva in mano.

Allora che cosa fa? Spicca un gran lancio da terra, abbocca quel fagotto infarinato, e tenendolo leggermente coi denti, esce correndo dalla grotta, e via come un baleno!

Il pescatore arrabbiatissimo di vedersi strappar di mano un pesce, che egli avrebbe mangiato tanto volentieri, si provò a rincorrere il cane; ma fatti pochi passi, gli venne un nodo di tosse e dovè tornarsene indietro.

Intanto Alidoro, ritrovata che ebbe la viottola che conduceva al paese, si fermò e posò delicatamente in terra l’amico Pinocchio.

— Quanto ti debbo ringraziare! — disse il burattino.

— Non c’è bisogno — replicò il cane — tu salvasti me, e quel che è fatto è reso. Si sa: in questo mondo bisogna tutti aiutarsi l’uno con l’altro.

— Ma come mai sei capitato in quella grotta?

— Ero sempre qui disteso sulla spiaggia più morto che vivo, quando il vento mi ha portato da lontano un odorino di frittura. Quell’odorino mi ha stuzzicato l’appetito, e io gli sono andato dietro. Se arrivavo un minuto più tardi!...

— Non me lo dire! — urlò Pinocchio che tremava ancora dalla paura. — Non me lo dire! Se tu arrivavi un minuto più tardi, a quest’ora io ero bell’e fritto, mangiato e digerito. Brrr! mi vengono i brividi soltanto a pensarvi!... —

Alidoro, ridendo, stese la zampa destra verso il burattino, il quale gliela strinse forte forte in segno di grande amicizia: e dopo si lasciarono.

Il cane riprese la strada di casa: e Pinocchio, rimasto solo, andò a una capanna lì poco distante, e domandò a un vecchietto che stava sulla porta a scaldarsi al sole:

— Dite, galantuomo, sapete nulla di un povero ragazzo ferito nel capo e che si chiamava Eugenio?

— Il ragazzo è stato portato da alcuni pescatori in questa capanna, e ora...

— Ora sarà morto!... — interruppe Pinocchio, con gran dolore.

— No: ora è vivo, ed è già ritornato a casa sua.

— Davvero?... davvero?... — gridò il burattino, saltando dall’allegrezza. — Dunque la ferita non era grave?...

— Ma poteva riuscire gravissima e anche mortale, — rispose il vecchietto — perchè gli tirarono nel capo un grosso libro rilegato in cartone.

— E chi glielo tirò?

— Un suo compagno di scuola: un certo Pinocchio....

— E chi è questo Pinocchio? — domandò il burattino facendo lo gnorri.

— Dicono che sia un ragazzaccio, un vagabondo, un vero rompicollo.

— Calunnie! Tutte calunnie!

— Lo conosci tu questo Pinocchio?

— Di vista! — rispose il burattino.

— E tu, che concetto ne hai? — gli chiese il vecchietto.

— A me mi pare un gran buon figliuolo, pieno di voglia di studiare, obbediente, affezionato al suo babbo e alla sua famiglia.... —

Mentre il burattino sfilava a faccia fresca tutte queste bugie, si toccò il naso e si accorse che il naso gli era allungato più di un palmo. Allora tutto impaurito cominciò a gridare:

— Non date retta, galantuomo, a tutto il bene che ve ne ho detto; perchè conosco benissimo Pinocchio e posso assicurarvi anch’io che è davvero un ragazzaccio, un disubbidiente e uno svogliato, e che invece di andare a scuola, va coi compagni a fare lo sbarazzino! —

Appena ebbe pronunziate queste parole, il suo naso raccorcì e tornò alla grandezza naturale, come era prima.

— E perchè sei tutto bianco a codesto modo? — gli domandò a un tratto il vecchietto.

— Vi dirò.... senza avvedermene, mi sono strofinato a un muro, che era imbiancato di fresco — rispose il burattino vergognandosi a raccontare che lo avevano infarinato come un pesce, per poi friggerlo in padella.

— O della tua giacchetta, de’ tuoi calzoncini e del tuo berretto, che cosa ne hai fatto?

— Ho incontrato i ladri e mi hanno spogliato. Dite, buon vecchio, non avreste per caso da darmi un po’ di vestituccio, tanto perchè io possa ritornare a casa?

— Ragazzo mio; in quanto a vestiti, io non ho che un piccolo sacchetto, dove ci tengo i lupini. Se lo vuoi, piglialo: eccolo là. — E Pinocchio non se lo fece dire due volte: prese subito il sacchetto dei lupini che era vuoto, e dopo averci fatto colle forbici una piccola buca nel fondo e due buche dalle parti, se lo infilò a uso camicia. E vestito leggerino a quel modo, si avviò verso il paese. Ma, lungo la strada, non si sentiva punto tranquillo; tant’è vero che faceva un passo avanti e uno indietro, e discorrendo da sè solo, andava dicendo:

— Come farò a presentarmi alla mia buona Fatina? Che dirà quando mi vedrà?... Vorrà perdonarmi questa seconda birichinata?... Scommetto che non me la perdona!... oh! non me la perdona di certo!... E mi sta il dovere: perchè io sono un monello che prometto sempre di correggermi, e non mantengo mai!...

Arrivò al paese che era già notte buia; e perchè faceva tempaccio e l’acqua veniva giù a catinelle, andò diritto diritto alla casa della Fata, coll’animo risoluto di bussare alla porta e di farsi aprire.

Ma quando fu lì, sentì mancarsi il coraggio, e invece di bussare, si allontanò, correndo, una ventina di passi. Poi tornò una seconda volta alla porta, e non concluse nulla: poi si avvicinò una terza volta e nulla: la quarta volta prese, tremando, il battente di ferro in mano e bussò un piccolo colpettino.

Aspetta, aspetta, finalmente dopo mezz’ora si aprì una finestra dell’ultimo piano (la casa era di quattro piani) e Pinocchio vide affacciarsi una grossa Lumaca, che aveva un lumicino acceso sul capo, la quale disse:

— Chi è a quest’ora?

— La Fata è in casa? — domandò il burattino.

— La Fata dorme e non vuol essere svegliata: ma tu chi sei?

— Sono io!

— Chi io?

— Pinocchio.

— Chi Pinocchio?

— Il burattino, quello che sta in casa colla Fata.

— Ah! ho capito; — disse la Lumaca — aspettami costì, che ora scendo giù e ti apro subito.

— Spicciatevi, per carità, perchè io muoio dal freddo.

— Ragazzo mio, io sono una Lumaca, e le Lumache non hanno mai fretta. —

— Intanto passò un’ora, ne passarono due, e la porta non si apriva: per cui Pinocchio, che tremava dal freddo, dalla paura e dall’acqua che aveva addosso, si fece cuore e bussò una seconda volta, e bussò più forte.

A quel secondo colpo si aprì una finestra del piano di sotto e si affacciò la solita Lumaca.

— Lumachina bella, — gridò Pinocchio dalla strada, — sono due ore che aspetto! E due ore a questa serataccia, diventano più lunghe di due anni. Spicciatevi, per carità.

— Ragazzo mio, — gli rispose dalla finestra quella bestiuola tutta pace e tutta flemma — ragazzo mio, io sono una Lumaca, e le Lumache non hanno mai fretta. —

E la finestra si richiuse.

Di lì a poco suonò la mezzanotte: poi il tocco, poi le due dopo mezzanotte, e la porta era sempre chiusa.

Allora Pinocchio, perduta la pazienza, afferrò con rabbia il battente della porta per bussare un gran colpo da far rintronare tutto il casamento; ma il battente che era di ferro, diventò a un tratto un’anguilla viva, che sgusciandogli dalle mani sparì in un rigagnolo d’acqua, che scorreva in mezzo alla strada.

— Ah! sì? — gridò Pinocchio sempre più accecato dalla collera. — Se il battente è sparito, io seguiterò a bussare a furia di calci. —

E tiratosi un poco indietro, lasciò andare una solennissima pedata nell’uscio della casa. Il colpo fu così forte, che il piede penetrò nel legno fino a mezzo: e quando il burattino si provò a ricavarlo fuori, fu tutta fatica inutile: perchè il piede c’era rimasto conficcato dentro, come un chiodo ribadito.

Figuratevi il povero Pinocchio! Dovè passare tutto il resto della notte con un piede in terra e con quell’altro per aria.

La mattina, sul far del giorno, finalmente la porta si aprì. Quella brava bestiòla della Lumaca, a scendere dal quarto piano fino all’uscio di strada, ci aveva messo solamente nove ore. Bisogna proprio dire che avesse fatto una sudata.

— Che cosa fate con codesto piede conficcato nell’uscio? — domandò ridendo al burattino.

— È stata una disgrazia. Vedete un po’, Lumachina bella, se vi riesce di liberarmi da questo supplizio.

— Ragazzo mio, costì ci vuole un legnaiolo, e io non ho mai fatto la legnaiola.

— Pregate la Fata da parte mia!...

— La Fata dorme e non vuol essere svegliata.

— Ma che cosa volete che io faccia, inchiodato tutto il giorno a questa porta?

— Divertiti a contare le formicole che passano per la strada.

— Portatemi almeno qualche cosa da mangiare, perchè mi sento rifinito.

— Subito! — disse la Lumaca.

Difatti dopo tre ore e mezzo, Pinocchio la vide tornare con un vassoio d’argento in capo. Nel vassoio c’era un pane, un pollastro arrosto e quattro albicocche mature.

— Ecco la colazione che vi manda la Fata — disse la Lumaca.

Alla vista di quella grazia di Dio, il burattino sentì consolarsi tutto. Ma quale fu il suo disinganno, quando incominciando a mangiare, si dovè accorgere che il pane era di gesso, il pollastro di cartone e le quattro albicocche di alabastro, colorite, come se fossero vere.

Voleva piangere, voleva darsi alla disperazione, voleva buttar via il vassoio e quel che c’era dentro; ma invece, o fosse il gran dolore o la gran languidezza di stomaco, fatto sta che cadde svenuto.

Quando si riebbe, si trovò disteso sopra un sofà, e la Fata era accanto a lui.

— Anche per questa volta ti perdono — gli disse la Fata — ma guai a te, se me ne fai un’altra delle tue!... —

Pinocchio promise e giurò che avrebbe studiato, e che si sarebbe condotto sempre bene. E mantenne la parola per tutto il resto dell’anno. Difatti agli esami delle vacanze, ebbe l’onore di essere il più bravo della scuola; e i suoi portamenti, in generale, furono giudicati così lodevoli e soddisfacenti, che la Fata, tutta contenta, gli disse:

— Domani finalmente il tuo desiderio sarà appagato!

— Cioè?

— Domani finirai di essere un burattino di legno, e diventerai un ragazzo per bene. —

Chi non ha veduto la gioia di Pinocchio, a questa notizia tanto sospirata, non potrà mai figurarsela. Tutti i suoi amici e compagni di scuola dovevano essere invitati per il giorno dopo a una gran colazione in casa della Fata, per festeggiare insieme il grande avvenimento: e la Fata aveva fatto preparare dugento tazze di caffè-e-latte e quattrocento panini imburrati di dentro e di fuori. Quella giornata prometteva di riuscire molto bella e molto allegra: ma....

Disgraziatamente, nella vita dei burattini, c’è sempre un ma, che sciupa ogni cosa.

 

 

XXX.

Pinocchio, invece di diventare un ragazzo, parte di nascosto col suo amico Lucignolo per il «Paese dei balocchi.»

 

Com’è naturale, Pinocchio chiese subito alla Fata il permesso di andare in giro per la città a fare gl’inviti: e la Fata gli disse:

— Va’ pure a invitare i tuoi compagni per la colazione di domani: ma ricordati di tornare a casa prima che faccia notte. Hai capito?

— Fra un’ora prometto di essere bell’e ritornato — replicò il burattino.

— Bada, Pinocchio! I ragazzi fanno presto a promettere, ma il più delle volte, fanno tardi a mantenere.

— Ma io non sono come gli altri: io, quando dico una cosa, la mantengo.

— Vedremo. Caso poi tu disubbidissi, tanto peggio per te.

— Perchè?

— Perchè i ragazzi che non dànno retta ai consigli di chi ne sa più di loro, vanno sempre incontro a qualche disgrazia.

— E io l’ho provato! — disse Pinocchio. — Ma ora non ci ricasco più!

— Vedremo se dici il vero.—

Senza aggiungere altre parole, il burattino salutò la sua buona Fata, che era per lui una specie di mamma, e cantando e ballando uscì fuori dalla porta di casa.

In poco più d’un’ora, tutti i suoi amici furono invitati. Alcuni accettarono subito e di gran cuore: altri, da principio, si fecero un po’ pregare: ma quando seppero che i panini da inzuppare nel caffè-e-latte sarebbero stati imburrati anche dalla parte di fuori, finirono tutti col dire: — «Verremo anche noi, per farti piacere.»

Ora bisogna sapere che Pinocchio, fra i suoi amici e compagni di scuola, ne aveva uno prediletto e carissimo, il quale si chiamava di nome Romeo: ma tutti lo chiamavano col soprannome di Lucignolo, per via del suo personalino asciutto, secco e allampanato, tale e quale come il lucignolo nuovo di un lumino da notte.

Lucignolo era il ragazzo più svogliato e più birichino di tutta la scuola: ma Pinocchio gli voleva un gran bene. Difatti andò subito a cercarlo a casa, per invitarlo alla colazione, e non lo trovò: tornò una seconda volta, e Lucignolo non c’era: tornò una terza volta, e fece la strada invano.

Dove poterlo ripescare? Cerca di qua, cerca di là, finalmente lo vide nascosto sotto il portico di una casa di contadini.

— Che cosa fai costì? — gli domandò Pinocchio, avanzandosi.

— Aspetto la mezzanotte, per partire....

— Dove vai?

— Lontano, lontano, lontano!

— E io che son venuto a cercarti a casa tre volte!...

— Che cosa volevi da me?

— Non sai il grande avvenimento? Non sai la fortuna che mi è toccata?

— Quale?

— Domani finisco di essere un burattino e divento un ragazzo come te, e come tutti gli altri.

— Buon pro ti faccia.

— Domani dunque ti aspetto a colazione a casa mia.

— Ma se ti dico che parto questa sera.

— A che ora?

— Fra poco.

— E dove vai?

— Vado ad abitare in un paese.... che è il più bel paese di questo mondo: una vera cuccagna!...

— E come si chiama?

— Si chiama il «Paese dei balocchi.» Perchè non vieni anche tu?

— Io? no davvero!

— Hai torto, Pinocchio! Credilo a me, che se non vieni, te ne pentirai. Dove vuoi trovare un paese più sano per noialtri ragazzi? Lì non vi sono scuole: lì non vi sono maestri: lì non vi sono libri. In quel paese benedetto non si studia mai. Il giovedì non si fa scuola: e ogni settimana è composta di sei giovedì e di una domenica. Figurati che le vacanze dell’autunno cominciano col primo di gennaio e finiscono coll’ultimo di dicembre. Ecco un paese, come piace veramente a me! Ecco come dovrebbero essere tutti i paesi civili!...

— Ma come si passano le giornate nel «Paese dei balocchi?»

— Si passano baloccandosi e divertendosi dalla mattina alla sera. La sera poi si va a letto, e la mattina dopo si ricomincia daccapo. Che te ne pare?

— Uhm!... — fece Pinocchio; e tentennò leggermente il capo, come dire: — «È una vita che la farei volentieri anch’io!»

— Dunque, vuoi partire con me? Sì o no? Risolviti.

— No, no, no e poi no. Oramai ho promesso alla mia buona Fata di diventare un ragazzo per bene, e voglio mantenere la promessa. Anzi, siccome vedo che il sole va sotto, così ti lascio subito e scappo via. Dunque addio, e buon viaggio.

— Dove corri con tanta furia?

— A casa. La mia buona Fata vuole che ritorni prima di notte.

— Aspetta altri due minuti.

— Faccio troppo tardi.

— Due minuti soli.

— E se poi la Fata mi grida?

— Lasciala gridare. Quando avrà gridato ben bene, si cheterà — disse quella birba di Lucignolo.

— E come fai? Parti solo o in compagnia?

— Solo? Saremo più di cento ragazzi.

— E il viaggio lo fate a piedi?

— Fra poco passerà di qui il carro che mi deve prendere e condurre fin dentro ai confini di quel fortunatissimo paese.

— Che cosa pagherei che il carro passasse ora!...

— Perchè?

— Per vedervi partire tutti insieme.

— Rimani qui un altro poco e ci vedrai.

— No, no: voglio ritornare a casa.

— Aspetta altri due minuti.

— Ho indugiato anche troppo. La Fata starà in pensiero per me.

— Povera Fata! Che ha paura forse che ti mangino i pipistrelli?

— Ma dunque, — soggiunse Pinocchio — tu sei veramente sicuro che in quel paese non ci sono punte scuole?…

— Neanche l’ombra.

— E nemmeno maestri?

— Nemmeno uno.

— E non c’è mai l’obbligo di studiare?

— Mai, mai, mai!

— Che bel paese! — disse Pinocchio, sentendo venirsi l’acquolina in bocca. — Che bel paese! Io non ci sono stato mai, ma me lo figuro!…

— Perchè non vieni anche tu?

— È inutile che tu mi tenti! Oramai ho promesso alla mia buona Fata di diventare un ragazzo di giudizio, e non voglio mancare alla parola.

— Dunque addio, e salutami tanto le scuole ginnasiali!… e anche quelle liceali, se le incontri per la strada.

— Addio, Lucignolo: fa’ buon viaggio, divertiti e rammentati qualche volta degli amici. —

Ciò detto, il burattino fece due passi in atto di andarsene: ma poi, fermandosi e voltandosi all’amico, gli domandò:

— Ma sei proprio sicuro che in quel paese tutte le settimane sieno composte di sei giovedì e di una domenica?

— Sicurissimo.

— Ma lo sai dicerto, che le vacanze abbiano principio col primo di gennaio e finiscano coll’ultimo di dicembre?

— Di certissimo!

— Che bel paese! — ripetè Pinocchio, sputando dalla soverchia consolazione. Poi, fatto un animo risoluto, soggiunse in fretta e in furia:

— Dunque, addio davvero: e buon viaggio.

— Addio.

— Fra quanto partirete?

— Fra poco.

— Peccato! Se alla partenza mancasse un’ora sola, sarei quasi quasi capace di aspettare.

— E la Fata?…

— Oramai ho fatto tardi!… e tornare a casa un’ora prima o un’ora dopo è lo stesso.

— Povero Pinocchio! E se la Fata ti grida?

— Pazienza! La lascerò gridare. Quando avrà gridato ben bene si cheterà. —

Intanto si era già fatta notte e notte buia: quando a un tratto videro muoversi in lontananza un lumicino.... e sentirono un suono di bubboli e uno squillo di trombetta, così piccolino e soffocato, che pareva il sibilo di una zanzara.

— Eccolo! — gridò Lucignolo, rizzandosi in piedi.

— Chi è? — domandò sottovoce Pinocchio.

— È il carro che viene a prendermi. Dunque, vuoi venire, sì o no?

— Ma è proprio vero — domandò il burattino — che in quel paese i ragazzi non hanno mai l’obbligo di studiare?

— Mai, mai, mai!

— Che bel paese!... che bel paese!... che bel paese!... —

Thursday 16 September 2021

Thursday Serial: "Le Avventure di Pinocchio" by Carlo Collodi (in Italian) - VII

 XXV.

Pinocchio promette alla Fata di essere buono e di studiare, perchè è stufo di fare il burattino e vuol diventare un bravo ragazzo.

 

In sulle prime, la buona donnina cominciò col dire che lei non era la piccola Fata dai capelli turchini: ma poi, vedendosi oramai scoperta e non volendo mandare più in lungo la commedia, finì per farsi riconoscere, e disse a Pinocchio:

— Birba d’un burattino! Come mai ti sei accorto che ero io?

— Gli è il gran bene che ti voglio, quello che me l’ha detto.

— Ti ricordi, eh? Mi lasciasti bambina, e ora mi ritrovi donna; tanto donna, che potrei quasi farti da mamma.

— E io l’ho caro dimolto, perchè così, invece di sorellina, vi chiamerò la mia mamma. Gli è tanto tempo che mi struggo di avere una mamma come tutti gli altri ragazzi!... Ma come avete fatto a crescere così presto?

― È un segreto.

— Insegnatemelo: vorrei crescere un poco anch’io. Non lo vedete? Son sempre rimasto alto come un soldo di cacio.

— Ma tu non puoi crescere — replicò la Fata.

— Perchè?

— Perchè i burattini non crescono mai. Nascono burattini, vivono burattini e muoiono burattini.

— Oh! sono stufo di far sempre il burattino! — gridò Pinocchio, dandosi uno scappellotto. — Sarebbe ora che diventassi anch’io un uomo....

— E lo diventerai, se saprai meritartelo....

— Davvero? E che posso fare per meritarmelo?

— Una cosa facilissima: avvezzarti a essere un ragazzino perbene.

— O che forse non lo sono?

— Tutt’altro! I ragazzi perbene sono ubbidienti, e tu invece....

— E io non ubbidisco mai.

— I ragazzi perbene prendono amore allo studio e al lavoro, e tu....

— E io, invece, faccio il bighellone e il vagabondo tutto l’anno.

— I ragazzi perbene dicono sempre la verità....

— E io sempre le bugie.

— I ragazzi perbene vanno volentieri alla scuola....

— E a me la scuola mi fa venire i dolori di corpo. Ma da oggi in poi voglio mutar vita.

— Me lo prometti?

— Lo prometto. Voglio diventare un ragazzino perbene, e voglio essere la consolazione del mio babbo.... Dove sarà il mio povero babbo, a quest’ora?

— Non lo so.

— Avrò mai la fortuna di poterlo rivedere e abbracciare?

— Credo di si: anzi ne sono sicura. —

A questa risposta fu tale e tanta la contentezza di Pinocchio, che prese le mani alla Fata e cominciò a baciargliele con tanta foga, che pareva quasi fuori di sè. Poi, alzando il viso e guardandola amorosamente, le domandò:

— Dimmi, mammina: dunque non è vero che tu sia morta?

— Par di no — rispose sorridendo la Fata.

— Se tu sapessi che dolore e che serratura alla gola che provai, quando lessi qui giace....

— Lo so: ed è per questo che ti ho perdonato. La sincerità del tuo dolore mi fece conoscere che tu avevi il cuore buono: e dai ragazzi buoni di cuore, anche se sono un po’ monelli e avvezzati male, c’è sempre da sperar qualcosa: ossia, c’è sempre da sperare che rientrino sulla vera strada. Ecco perchè son venuta a cercarti fin qui. Io sarò la tua mamma....

— Oh che bella cosa! — gridò Pinocchio saltando dall’allegrezza.

— Tu mi ubbidirai e farai sempre quello che ti dirò io.

— Volentieri, volentieri, volentieri!

— Fino da domani — soggiunse la Fata — tu comincerai coll’andare a scuola. —

Pinocchio diventò subito un po’ meno allegro.

— Poi sceglierai a tuo piacere un’arte o un mestiere.... —

Pinocchio diventò serio.

— Che cosa brontoli fra i denti? — domandò la Fata con accento risentito.

— Dicevo.... — mugolò il burattino a mezza voce — che oramai per andare a scuola mi pare un po’ tardi....

— Nossignore. Tieni a mente che per istruirsi e per imparare non è mai tardi.

— Ma io non voglio fare nè arti nè mestieri....

— Perchè?

— Perchè a lavorare mi par fatica.

— Ragazzo mio, — disse la Fata — quelli che dicono così, finiscono quasi sempre o in carcere o all’ospedale. L’uomo, per tua regola, nasca ricco o povero, è obbligato in questo mondo a far qualcosa, a occuparsi, a lavorare. Guai a lasciarsi prendere dall’ozio! L’ozio è una bruttissima malattia e bisogna guarirla subito, fin da bambini: se no, quando siamo grandi, non si guarisce più. —

Queste parole toccarono l’animo di Pinocchio, il quale rialzando vivacemente la testa, disse alla Fata:

— Io studierò, io lavorerò, io farò tutto quello che mi dirai, perchè insomma, la vita del burattino mi è venuta a noia, e voglio diventare un ragazzo a tutti i costi. Me l’hai promesso, non è vero?

— Te l’ho promesso, e ora dipende da te. —

 

 

XXVI.

Pinocchio va co’ suoi compagni di scuola in riva al mare, per vedere il terribile Pesce-cane.

 

Il giorno dopo Pinocchio andò alla scuola comunale.

Figuratevi quelle birbe di ragazzi, quando videro entrare nella loro scuola un burattino! Fu una risata, che non finiva più. Chi gli faceva uno scherzo, chi un altro: chi gli levava il berretto di mano: chi gli tirava il giubbettino di dietro; chi si provava a fargli coll’inchiostro due grandi baffi sotto il naso, e chi si attentava perfino a legargli dei fili ai piedi e alle mani, per farlo ballare.

Per un poco Pinocchio usò disinvoltura e tirò via; ma finalmente, sentendosi scappar la pazienza, si rivolse a quelli che più lo tafanavano e si pigliavano gioco di lui, e disse loro a muso duro:

— Badate, ragazzi: io non son venuto qui per essere il vostro buffone. Io rispetto gli altri e voglio essere rispettato.

— Bravo Berlicche! Hai parlato come un libro stampato! — urlarono quei monelli, buttandosi via dalle matte risate: e uno di loro, più impertinente degli altri, allungò la mano coll’idea di prendere il burattino per la punta del naso.

Ma non fece a tempo: perchè Pinocchio stese la gamba sotto la tavola e gli consegnò una pedata negli stinchi.

— Ohi! che piedi duri! — urlò il ragazzo stropicciandosi il livido che gli aveva fatto il burattino.

— E che gomiti!... anche più duri dei piedi! — disse un altro che, per i suoi scherzi sguaiati, s’era beccata una gomitata nello stomaco.

Fatto sta che dopo quel calcio e quella gomitata, Pinocchio acquistò subito la stima e la simpatia di tutti i ragazzi di scuola: e tutti gli facevano mille carezze e tutti gli volevano un ben dell’anima.

E anche il maestro se ne lodava, perchè lo vedeva attento, studioso, intelligente, sempre il primo a entrare nella scuola, sempre l’ultimo a rizzarsi in piedi, a scuola finita.

Il solo difetto che avesse era quello di bazzicare troppi compagni; e fra questi c’erano molti monelli conosciutissimi per la loro poco voglia di studiare e di farsi onore.

Il maestro lo avvertiva tutti i giorni, e anche la buona Fata non mancava di dirgli e di ripetergli più volte:

— Bada, Pinocchio! Quei tuoi compagnacci di scuola finiranno, prima o poi, col farti perdere l’amore allo studio e, forse forse, col tirarti addosso qualche grossa disgrazia.

— Non c’è pericolo! — rispondeva il burattino, facendo una spallucciata, e toccandosi coll’indice in mezzo alla fronte, come per dire: «C’è tanto giudizio qui dentro!»

Ora avvenne che un bel giorno, mentre camminava verso la scuola, incontrò un branco dei soliti compagni, che andandogli incontro, gli dissero:

— Sai la gran notizia?

— No.

— Qui nel mare vicino è arrivato un Pesce-cane, grosso come una montagna.

— Davvero?... Che sia quel medesimo Pesce-cane di quando affogò il mio povero babbo?

— Noi andiamo alla spiaggia per vederlo. Vuoi venire anche tu?

— Io no: io voglio andare a scuola.

— Che t’importa della scuola? Alla scuola ci anderemo domani. Con una lezione di più o con una di meno, si rimane sempre gli stessi somari.

— E il maestro che dirà?

— Il maestro si lascia dire. È pagato apposta per brontolare tutti i giorni.

— E la mia mamma?

— Le mamme non sanno mai nulla — risposero quei malanni.

— Sapete che cosa farò? — disse Pinocchio. — Il Pesce-cane voglio vederlo per certe mie ragioni.... ma anderò a vederlo dopo la scuola.

— Povero giucco! — ribattè uno del branco. — Che credi che un pesce di quella grossezza voglia star lì a fare il comodo tuo? Appena s’è annoiato, piglia il dirizzone per un’altra parte, e allora chi s’è visto s’è visto.

— Quanto tempo ci vuole di qui alla spiaggia? — domandò il burattino.

— Fra un’ora siamo bell’e andati e tornati.

— Dunque, via! e chi più corre, è più bravo! — gridò Pinocchio.

Dato così il segnale della partenza, quel branco di monelli coi loro libri e i loro quaderni sotto il braccio si messero a correre attraverso ai campi: e Pinocchio era sempre avanti a tutti: pareva che avesse le ali ai piedi.

Di tanto in tanto, voltandosi indietro, canzonava i suoi compagni rimasti a una bella distanza, e nel vederli ansanti, trafelati, polverosi e con tanto di lingua fuori, se la rideva proprio di cuore. Lo sciagurato, in quel momento, non sapeva a quali paure e a quali orribili disgrazie andava incontro!...

 

 

XXVII.

Gran combattimento fra Pinocchio e i suoi compagni: uno de’ quali essendo rimasto ferito, Pinocchio viene arrestato dai carabinieri.

 

Giunto che fu sulla spiaggia, Pinocchio dètte subito una grande occhiata sul mare; ma non vide nessun Pesce-cane. Il mare era tutto liscio come un gran cristallo da specchio.

— O il Pesce-cane dov’è? — domandò, voltandosi ai compagni.

— Sarà andato a far colazione — rispose uno di loro, ridendo.

— O si sarà buttato sul letto per far un sonnellino — soggiunse un altro, ridendo più forte che mai.

Da quelle risposte sconclusionate e da quelle risatacce grulle, Pinocchio capì che i suoi compagni gli avevano fatto una brutta celia, dandogli ad intendere una cosa che non era vera, e pigliandosela a male, disse a loro con voce di bizza:

— E ora? che sugo ci avete trovato a darmi ad intendere la storiella del Pesce-cane?

— Il sugo c’è sicuro!... — risposero in coro quei monelli.

— E sarebbe?

— Quello di farti perdere la scuola e di farti venire con noi. Non ti vergogni a mostrarti tutti i giorni così preciso e così diligente alla lezione? Non ti vergogni a studiar tanto, come fai?

— E se io studio, che cosa ve ne importa?

— A noi ce ne importa moltissimo, perchè ci costringi a fare una brutta figura col maestro....

— Perchè?

— Perchè gli scolari che studiano, fanno sempre scomparire quelli, come noi, che non hanno voglia di studiare. E noi non vogliamo scomparire! Anche noi abbiamo il nostro amor proprio!...

— E allora che cosa devo fare per contentarvi?

— Devi prendere a noia, anche tu, la scuola, la lezione e il maestro, che sono i nostri tre grandi nemici.

— E se io volessi seguitare a studiare?

— Noi non ti guarderemo più in faccia, e alla prima occasione ce la pagherai!

— In verità mi fate quasi ridere — disse il burattino con una scrollatina di capo.

— Ehi, Pinocchio! — gridò allora il più grande di quei ragazzi andandogli sul viso. — Non venir qui a fare lo smargiasso: non venir qui a far tanto il galletto!... perchè se tu non hai paura di noi, neanche noi abbiamo paura di te! Ricordati che tu sei solo e noi siamo sette.

— Sette come i peccati mortali — disse Pinocchio con una gran risata.

— Avete sentito? Ci ha insultati tutti! Ci ha chiamati col nome di peccati mortali!...

— Pinocchio! chiedici scusa dell’offesa.... e se no, guai a te!...

— Cucù! — fece il burattino, battendosi coll’indice sulla punta del naso, in segno di canzonatura.

— Pinocchio! la finisce male!...

— Cucù!

— Ne toccherai quanto un somaro!...

— Cucù!

— Ritornerai a casa col naso rotto!...

— Cucù!

— Ora il Cucù te lo darò io! — gridò il più ardito di quei monelli. — Prendi intanto quest’acconto, e serbalo per la cena di stasera. —

E nel dir così gli appiccicò un pugno nel capo.

Ma fu, come si suol dire, botta e risposta; perchè il burattino, com’era da aspettarselo, rispose subito con un altro pugno: e lì, da un momento all’altro, il combattimento diventò generale e accanito.

Pinocchio, sebbene fosse solo, si difendeva come un eroe. Con quei suoi piedi di legno durissimo lavorava così bene, da tener sempre i suoi nemici a rispettosa distanza. Dove i suoi piedi potevano arrivare e toccare, ci lasciavano sempre un livido per ricordo.

Allora i ragazzi indispettiti di non potersi misurare col burattino a corpo a corpo, pensarono bene di metter mano ai proiettili; e sciolti i fagotti de’ loro libri di scuola, cominciarono a scagliare contro di lui i Sillabari, le Grammatiche, i Giannettini, i Minuzzoli, i Racconti del Thouar, il Pulcino della Baccini e altri libri scolastici: ma il burattino, che era d’occhio svelto e ammalizzito, faceva sempre civetta a tempo, sicchè i volumi, passandogli di sopra al capo, andavano tutti a cascare nel mare.

Figuratevi i pesci! I pesci, credendo che quei libri fossero roba da mangiare, correvano a frotte a fior d’acqua; ma dopo avere abboccata qualche pagina o qualche frontespizio, la risputavano subito, facendo con la bocca una certa smorfia, che pareva volesse dire: «Non è roba per noi: noi siamo avvezzi a cibarci molto meglio!»

Intanto il combattimento s’inferociva sempre più, quand’ecco che un grosso Granchio, che era uscito fuori dell’acqua e s’era adagio adagio arrampicato fin sulla spiaggia, gridò con una vociaccia di trombone infreddato:

— Smettetela, birichini che non siete altro! Queste guerre manesche fra ragazzi e ragazzi raramente vanno a finir bene. Qualche disgrazia accade sempre!... —

Povero Granchio! Fu lo stesso che avesse predicato al vento. Anzi, quella birba di Pinocchio, voltandosi indietro a guardarlo in cagnesco, gli disse sgarbatamente:

— Chetati, Granchio dell’uggia! Faresti meglio a succiare due pasticche di lichene per guarire da codesta infreddatura di gola. Va’ piuttosto a letto e cerca di sudare!... —

In quel frattempo i ragazzi, che avevano finito oramai di tirare tutti i loro libri, occhiarono lì a poca distanza il fagotto dei libri del burattino, e se ne impadronirono in men che non si dice.

Fra questi libri, v’era un volume rilegato in cartoncino grosso, colla costola e colle punte di cartapecora. Era un Trattato di Aritmetica. Vi lascio immaginare se era peso di molto!

Uno di quei monelli agguantò quel volume, e presa di mira la testa di Pinocchio, lo scagliò con quanta forza aveva nel braccio: ma invece di cogliere il burattino, colse nella testa uno dei compagni, il quale diventò bianco come un panno lavato, e non disse altro che queste parole:

— O mamma mia, aiutatemi.... perchè muoio!... — Poi cadde disteso sulla rena del lido.

Alla vista di quel morticino, i ragazzi spaventati si dettero a scappare a gambe, e in pochi minuti non si videro più.

Ma Pinocchio rimase lì; e sebbene per il dolore e per lo spavento, anche lui fosse più morto che vivo, nondimeno corse ad inzuppare il suo fazzoletto nell’acqua del mare, e si pose a bagnare la tempia del suo povero compagno di scuola. E intanto, piangendo dirottamente e disperandosi, lo chiamava per nome e gli diceva:

— Eugenio!... povero Eugenio mio!... apri gli occhi e guardami!... Perchè non mi rispondi? Non sono stato io, sai, che ti ho fatto tanto male! Credilo, non sono stato io!... Apri gli occhi, Eugenio... Se tieni gli occhi chiusi, mi farai morire anche me... O Dio mio! come farò ora a tornare a casa?... Con che coraggio potrò presentarmi alla mia buona mamma? Che sarà di me?... Dove fuggirò?... Dove anderò a nascondermi?... Oh quant’era meglio, mille volte meglio che fossi andato a scuola!... Perchè ho dato retta a questi compagni, che sono la mia dannazione? E il maestro me l’aveva detto!... e la mia mamma me l’aveva ripetuto: — Guardati dai cattivi compagni! — Ma io sono un testardo... un caparbiaccio... lascio dir tutti, e poi fo sempre a modo mio! E dopo mi tocca a scontarle.... E così, da che sono al mondo, non ho mai avuto un quarto d’ora di bene. Dio mio! Che sarà di me, che sarà di me, che sarà di me? —

E Pinocchio continuava a piangere, a berciare, a darsi dei pugni nel capo e a chiamar per nome il povero Eugenio, quando sentì a un tratto un rumore sordo di passi che si avvicinavano.

Si voltò: erano due carabinieri.

— Che cosa fai così sdraiato per terra? — domandarono a Pinocchio.

— Assisto questo mio compagno di scuola.

— Che gli è venuto male?

— Par di sì!...

— Altro che male! — disse uno dei carabinieri, chinandosi e osservando Eugenio da vicino. — Questo ragazzo è stato ferito in una tempia: chi è che l’ha ferito?

— Io no! — balbettò il burattino che non aveva più fiato in corpo.

— Se non sei stato tu, chi è stato dunque che l’ha ferito?

— Io no! — ripetè Pinocchio.

— E con che cosa è stato ferito?

— Con questo libro. — E il burattino raccattò di terra il Trattato di Aritmetica, rilegato in cartone e cartapecora, per mostrarlo al carabiniere.

— E questo libro di chi è?

— Mio.

— Basta così: non occorre altro. Rizzati subito e vien via con noi.

— Ma io....

— Via con noi!...

— Ma io sono innocente....

— Via con noi! —

Prima di partire, i carabinieri chiamarono alcuni pescatori, che in quel momento passavano per l’appunto colla loro barca vicino alla spiaggia, e dissero loro:

— Vi affidiamo questo ragazzetto ferito nel capo. Portatelo a casa vostra e assistetelo. Domani torneremo a vederlo. —

Quindi si volsero a Pinocchio e dopo averlo messo in mezzo a loro due, gl’intimarono con accento soldatesco:

— Avanti! e cammina spedito! se no, peggio per te! —

Senza farselo ripetere, il burattino cominciò a camminare per quella viottola, che conduceva al paese. Ma il povero diavolo non sapeva più nemmeno lui in che mondo si fosse. Gli pareva di sognare, e che brutto sogno! Era fuori di sè. I suoi occhi vedevano tutto doppio: le gambe gli tremavano: la lingua gli era rimasta attaccata al palato e non poteva più spiccicare una sola parola. Eppure, in mezzo a quella specie di stupidità e di rintontimento una spina acutissima gli bucava il cuore: il pensiero, cioè, di dover passare sotto le finestre di casa della sua buona fata, in mezzo ai carabinieri. Avrebbe preferito piuttosto di morire.

Erano già arrivati e stavano per entrare in paese, quando una folata di vento strapazzone levò di testa a Pinocchio il berretto, portandoglielo lontano una diecina di passi.

— Si contentano — disse il burattino ai carabinieri — che vada a riprendere il mio berretto?

— Vai pure; ma facciamo una cosa lesta.—

Il burattino andò, raccattò il berretto.... ma invece di metterselo in capo, se lo mise in bocca fra i denti, e poi cominciò a correre di gran carriera verso la spiaggia del mare. Andava via come una palla di fucile.

I carabinieri, giudicando che fosse difficile raggiungerlo, gli aizzarono dietro un grosso cane mastino che aveva guadagnato il primo premio a tutte le corse dei cani. Pinocchio correva, e il cane correva più di lui: per cui tutta la gente si affacciava alle finestre e si affollava in mezzo alla strada, ansiosa di veder la fine di un palio così inferocito. Ma non potè levarsi questa voglia, perchè il can mastino e Pinocchio sollevarono lungo la strada un tal polverone, che dopo pochi minuti non era possibile di veder più nulla.