Saggi sulla letteratura e sull’arte, Tomo II, Meridiani Mondadori, Milano 1999
(già in “L’Illustrazione italiana”, LXXXIX, 1° gennaio 1962. Risposta a un’inchiesta sulla critica letteraria)
(già in “L’Illustrazione italiana”, LXXXIX, 1° gennaio 1962. Risposta a un’inchiesta sulla critica letteraria)
È vero che il mio primo libro, uscito nel ‘42, è stato un libro di
poesie. Ed è anche vero che ho cominciato a scrivere poesie a sette anni di
età, in seconda elementare (ho sotto gli occhi, lucido, quel quadernetto a
righe, con la mia mano che scrive i primi versi – parole «elette», per stile
sublimis: verzura, rosignolo...), ma, chissà perché, quando penso,
indistintamente, agli inizi della mia carriera letteraria, penso a me come a
uno che «proviene dalla critica». Forse perché agli albori degli anni Quaranta,
appunto, il mio maggiore entusiasmo – che del resto era poetico – lo dedicavo
agli studi di filologia romanza e alla storia dell’arte (la memorabile serie di
lezioni di Roberto Longhi su Masaccio). Il fatto stesso che i miei primi versi
pubblicati (e tuttora non ripudiati) di diciottenne, fossero in friulano,
stanno a dimostrare che la mia operazione poetica avveniva sotto il segno di
un’ispirazione fortemente critica, intellettuale.
È perciò che continuo a considerare i critici come dei colleghi. Alcuni
seniores, altri juniores. Dalla fulminante cartolina postale da Lugano con cui
Gianfranco Contini annunciava una immediata recensione ai miei primi versi
friulani del ‘42 (è stata la prima e la più grande mia gioia di scrittore) alle
ultime recensioni alla Religione del mio tempo di quest’anno – Bo, Vigorelli,
Citati... – io mi sono sempre sentito giudicato da colleghi: e con tutta la
lealtà e la stima del caso. Contemporaneamente ho sempre lavorato anch’io in
«campo» critico. Quindi, dovrei essere parte in causa: sotto analisi anch’io.
Come scrittore, dunque, sono incondizionatamente grato alla critica italiana:
sono sempre stato veramente letto, spesso con passione, con intensità
analitica. È questo uno dei pochi lati buoni della mia vita-letteratura, della
mia letteratura-vita. Ci sono delle eccezioni: ma, devo dire immodestamente la
verità, si tratta sempre di critici magari abbastanza ufficiali, ma privi di
reale considerazione nel migliore mondo letterario: oppure di giovani poco
chiari; oppure, infine, di giornalisti, non di critici: sono i giornalisti
divulgatori a pagamento che hanno portato molta confusione sulla valutazione
critica del mio lavoro, creando dei contrasti critici, che, in realtà, non ci
sono. I contrasti sono solo, e interessatamente, politici.
Questo il mio punto di vista di scrittore, ossia di corpo vile. E mi
scuso se il corpo vile è stato, in questo refertino, un po’ troppo corporale,
ossia privato.
Come collega, ossia come critico, sono in parte simpatetico: in parte
polemico, ma polemico fino a un distacco definitivo e irreversibile, con la
critica coeva. Perché al critico fin troppo appassionato, si mescola in me,
come direbbe un meridionale (Uèh, carissimo!), l’ideologo. E la mia lotta
ideologica si è svolta tutta contro l’ermetismo e il novecentismo, sotto il
segno di Gramsci. Perciò ho accusato i miei contemporanei di esercitare una
critica di gusto, di comunione estetica, per élites: quasi che gli oggetti
della critica fossero dei mostri, dei casi di umanità vulcanica, privilegiata
nelle innovazioni linguistiche dovute ad angoscia o felicità incomunicanti. Ho
accusato i miei contemporanei di moralismo (i liberali) e di estetismo (i
cattolici), ambedue, moralismo e estetismo, presupponenti un mondo immutabile
(figurarsi, l’Italia!), definitivo, concentrico, dove avesse reale valore una
sola cultura: quella della classe dominante, cui i letterati flebilmente
appartengono, anarchici o servi, angosciati o sciovinisti, conformisti o
scapigliati, aperti (i liberali antifascisti) o chiusi (i cattolici estetizzanti,
anche loro antifascisti).
Ora sta nascendo un nuovo tipo di critica: quello presupposto dal
neocapitalismo per le masse consumatrici. Sarà divertente vedere la critica
farsi sempre più chiara e accessibile a imporre alle masse quello che le masse
sono presupposte imporre. In questo giro di cultura aprioristica e preordinata
i critici si ridurranno ad essere degli inventori di slogans. Per adesso
viviamo ancora dei resti della civiltà agricola e commerciale: che spiega quel
tanto di classicamente idillico che c’è sempre, in tutta la critica letteraria
non solo italiana: e anche quel tanto di ferocemente paesano, di provinciale,
negli strati bassi.
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