Tuesday, 23 January 2024

Tuesday's Serial: “Convivio” by Dante Alighieri (in Italian) - XI

 

Capitolo VI.

1. Di sopra, nel terzo capitolo di questo trattato, promesso fue di ragionare de l'altezza de la imperiale autoritade e de la filosofica; e però, ragionato de la imperiale, procedere oltre si conviene la mia digressione, a vedere di quella del Filosofo, secondo la promessione fatta. 2. E qui è prima da vedere che questo vocabulo vuole dire, però che qui è maggiore mestiere di saperlo che sopra lo ragionamento de la imperiale, la quale per la sua maiestade non pare esser dubitata. 3. È dunque da sapere che 'autoritade' non è altro che 'atto d'autore'. Questo vocabulo, cioè 'autore', sanza quella terza lettera C, può discendere da due principii: l'uno si è d'uno verbo molto lasciato da l'uso in gramatica, che significa tanto quanto 'legare parole', cioè 'auieo'. E chi ben guarda lui, ne la sua prima voce apertamente vedrà che elli stesso lo dimostra, che solo di legame di parole è fatto, cioè di sole cinque vocali, che sono anima e legame d'ogni parole, e composto d'esse per modo volubile, a figurare imagine di legame. 4. Chè, cominciando da l'A, ne l'U quindi si rivolve, e viene diritto per I ne l'E, quindi si rivolve e torna ne l'O; sì che veramente imagina questa figura: A, E, I, O, U, la quale è figura di legame. E in quanto 'autore' viene e discende da questo verbo, si prende solo per li poeti, che con l'arte musaica le loro parole hanno legate: e di questa significazione al presente non s'intende. 5. L'altro principio, onde 'autore' discende, sì come testimonia Uguiccione nel principio de le sue Derivazioni, è uno vocabulo greco che dice 'autentin', che tanto vale in latino quanto 'degno di fede e d'obedienza'. E così, 'autore', quinci derivato, si prende per ogni persona degna d'essere creduta e obedita. E da questo viene questo vocabulo del quale al presente si tratta, cioè 'autoritade'; per che si può vedere che 'autoritade' vale tanto quanto 'atto degno di fede e d'obedienza'. [Onde, quand'io provi che Aristotile è dignissimo di fede e d'obedienza,] manifesto è che le sue parole sono somma e altissima autoritade.

6. Che Aristotile sia dignissimo di fede e d'obedienza così provare si può. Intra operarii e artefici di diverse arti e operazioni, ordinate a una operazione od arte finale, l'artefice o vero operatore di quella massimamente dee essere da tutti obedito e creduto, sì come colui che solo considera l'ultimo fine di tutti li altri fini. Onde al cavaliere dee credere lo spadaio, lo frenaio, lo sellaio, lo scudaio, e tutti quelli mestieri che a l'arte di cavalleria sono ordinati. 7. E però che tutte l'umane operazioni domandano uno fine, cioè quello de l'umana vita al quale l'uomo è ordinato in quanto elli è uomo, lo maestro e l'artefice che quello ne dimostra e considera, massimamente obedire e credere si dee. Questi è Aristotile: dunque esso è dignissimo di fede e d'obedienza. 8. E a vedere come Aristotile è maestro e duca de la ragione umana, in quanto intende a la sua finale operazione, si conviene sapere che questo nostro fine, che ciascuno disia naturalmente, antichissimamente fu per li savi cercato. E però che li disideratori di quello che sono in tanto numero e li appetiti sono quasi tutti singularmente diversi, avvegna che universalmente siano pur [uno], ma[lag]evole fu molto a scernere quello dove dirittamente ogni umano appetito si riposasse. 9. Furono dunque filosofi molto antichi, de li quali primo e prencipe fu Zenone, che videro e credettero questo fine de la vita umana essere solamente la rigida onestade; cioè rigidamente, sanza respetto alcuno, la verità e la giustizia seguire, di nulla mostrare dolore, di nulla mostrare allegrezza, di nulla passione avere sentore. 10. E diffiniro così questo onesto: 'quello che, sanza utilitade e sanza frutto, per sè di ragione è da laudare'. E costoro e la loro setta chiamati furono Stoici, e fu di loro quello glorioso Catone di cui non fui di sopra oso di parlare. 11. Altri filosofi furono, che videro e credettero altro che costoro; e di questi fu primo e prencipe uno filosofo che fu chiamato Epicuro; chè, veggendo che ciascuno animale, tosto che nato è, quasi da natura dirizzato nel debito fine, che fugge dolore e domanda allegrezza, quelli disse questo nostro fine essere voluptade (non dico 'voluntade', ma scrivola per P), cioè diletto sanza dolore. 12. E però [che] tra 'l diletto e lo dolore non ponea mezzo alcuno, dicea che 'voluptade' non era altro che 'non dolore', sì come pare Tullio recitare nel primo di Fine di Beni. E di questi, che da Epicuro sono Epicurei nominati, fu Torquato, nobile romano, disceso del sangue del glorioso Torquato del quale feci menzione di sopra. 13. Altri furono, e cominciamento ebbero da Socrate e poi dal suo successore Platone, che, agguardando più sottilmente, e veggendo che ne le nostre operazioni si potea peccare e peccavasi nel troppo e nel poco, dissero che la nostra operazione sanza soperchio e sanza difetto, misurata col mezzo per nostra elezione preso, ch'è virtù, era quel fine di che al presente si ragiona; e chiamaronlo 'operazione con virtù'. 14. E questi furono Academici chiamati, sì come fue Platone e Speusippo suo nepote: chiamati per luogo così dove Plato studiava, cioè Academia; nè da Socrate presero vocabulo, però che ne la sua filosofia nulla fu affermato. 15. Veramente Aristotile, che Stagirite ebbe sopranome, e Zenocrate Calcedonio, suo compagnone, [e per lo studio loro], e per lo 'ngegno [singulare] e quasi divino che la natura in Aristotile messo avea, questo fine conoscendo per lo modo socratico quasi e academico, limaro e a perfezione la filosofia morale redussero, e massimamente Aristotile. E però che Aristotile cominciò a disputare andando in qua e in lae, chiamati furono - lui dico, e li suoi compagni - Peripatetici, che tanto vale quanto 'deambulatori'. 16. E però che la perfezione di questa moralitade per Aristotile terminata fue, lo nome de li Academici si spense, e tutti quelli che a questa setta si presero Peripatetici sono chiamati; e tiene questa gente oggi lo reggimento del mondo in dottrina per tutte parti, e puotesi appellare quasi cattolica oppinione. Per che vedere si può, Aristotile essere additatore e conduttore de la gente a questo segno. E questo mostrare si volea.

17. Per che, tutto ricogliendo, è manifesto lo principale intento, cioè che l'autoritade del filosofo sommo di cui s'intende sia piena di tutto vigore. E non repugna a la imperiale autoritade; ma quella sanza questa è pericolosa, e questa sanza quella è quasi debile, non per sè, ma per la disordinanza de la gente; sì che l'una con l'altra congiunta utilissime e pienissime sono d'ogni vigore. 18. E però si scrive in quello di Sapienza: «Amate lo lume de la sapienza, voi tutti che siete dinanzi a' populi». Ciò è a dire: Congiungasi la filosofica autoritade con la imperiale, a bene e perfettamente reggere. 19. Oh miseri che al presente reggete! e oh miserissimi che retti siete! chè nulla filosofica autoritade si congiunge con li vostri reggimenti nè per propio studio nè per consiglio, sì che a tutti si può dire quella parola de lo Ecclesiaste: «Guai a te, terra, lo cui re è fanciullo, e li cui principi la domane mangiano!»; e a nulla terra si può dire quella che seguita: «Beata la terra lo cui re è nobile e li cui principi [cibo] usano i[n] suo tempo, a bisogno e non a lussuria!». 20. Ponetevi mente, nemici di Dio, a' fianchi, voi che le verghe de' reggimenti d'Italia prese avete - e dico a voi, Carlo e Federigo regi, e a voi altri principi e tiranni -; e guardate chi a lato vi siede per consiglio, e annumerate quante volte lo die questo fine de l'umana vita per li vostri consiglieri v'è additato! Meglio sarebbe a voi come rondine volare basso, che come nibbio altissime rote fare sopra le cose vilissime.

 

Capitolo VII.

1. Poi che veduto è quanto è da reverire l'autoritade imperiale e la filosofica, che paiono aiutare le proposte oppinioni, è da ritornare al diritto calle de lo inteso processo. 2. Dico dunque che questa ultima oppinione del vulgo è tanto durata, che sanza altro respetto, sanza inquisizione d'alcuna ragione, gentile è chiamato ciascuno che figlio sia o nepote d'alcuno valente uomo, tutto che esso sia da niente. E questo è quello che dice: Ed è tanto durata La così falsa oppinion tra nui, Che l'uom chiama colui Omo gentil che può dicere: 'Io fui Nepote, o figlio, di cotal valente', Benchè sia da niente. 3. Per che è da notare che pericolosissima negligenza è lasciare la mala oppinione prendere piede; che così come l'erba multiplica nel campo non cultato, e sormonta, e cuopre la spiga del frumento sì che, disparte agguardando, lo frumento non pare, e perdesi lo frutto finalmente; così la mala oppinione ne la mente, non gastigata e corretta, sì cresce e multiplica sì che le spighe de la ragione, cioè la vera oppinione si nasconde e quasi sepulta si perde. 4. Oh com'è grande la mia impresa in questa canzone, a volere omai così trifoglioso campo sarchiare come quello de la comune sentenza, sì lungamente da questa cultura abbandonato! Certo non del tutto questo mondare intendo, ma solo in quelle parti dove le spighe de la ragione non sono del tutto sorprese: cioè coloro dirizzare intendo ne' quali alcuno lumetto di ragione per buona loro natura vive ancora, chè de li altri tanto è da curare quanto di bruti animali; però che non minore maraviglia mi sembra reducere a ragione [colui in cui è la luce di ragione] del tutto spenta, che reducere in vita colui che quattro dì è stato nel sepulcro.

5. Poi che la mala condizione di questa populare oppinione è narrata, subitamente, quasi come cosa orribile, quella percuot[o] fuori di tutto l'ordine de la riprovagione, dicendo: Ma vilissimo sembra, a chi 'l ver guata, a dare a intendere la sua intollerabile malizia, dicendo costoro mentire massimamente; però che non solamente colui è vile, cioè non gentile, che disceso di buoni è malvagio, ma eziandio è vilissimo: e pongo essemplo del cammino mostrato [e poscia errato]. 6. Dove, a ciò mostrare, far mi conviene una questione, e rispondere a quella, in questo modo. Una pianura è con certi sentieri: campo con siepi, con fossati, con pietre, con legname, con tutti quasi impedimenti, fuori de li suoi stretti sentieri. Nevato è sì, che tutto cuopre la neve e rende una figura in ogni parte, sì che d'alcuno sentiero vestigio non si vede. 7. Viene alcuno da l'una parte de la campagna e vuole andare a una magione che è da l'altra parte; e per sua industria, cioè per accorgimento e per bontade d'ingegno, solo da sè guidato, per lo diritto cammino si va là dove intende, lasciando le vestigie de li suoi passi diretro da sè. Viene un altro appresso costui, e vuole a questa magione andare, e non li è mestiere se non seguire li vestigi lasciati; e, per suo difetto, lo cammino che altri sanza scorta ha saputo tenere, questo scorto erra, e tortisce per li pruni e per le ruine, e a la parte dove dee non va. 8. Quale di costoro si dee dicere valente? Rispondo: quegli che andò dinanzi. Questo altro come si chiamerà? Rispondo: vilissimo. Perchè non si chiama non valente, cioè vile? Rispondo: perchè non valente, cioè vile, sarebbe da chiamare colui che, non avendo alcuna scorta, non fosse ben camminato; ma però che questi l'ebbe, lo suo errore e lo suo difetto non può salire, e però è da dire non vile, ma vilissimo. 9. E così quelli che dal padre o d'alcuno suo maggiore [buono è disceso ed è malvagio], non solamente è vile, ma vilissimo, e degno d'ogni dispetto e vituperio più che altro villano. E perchè l'uomo da questa infima viltade si guardi, comanda Salomone a colui che 'l valente antecessore hae avuto, nel vigesimo secondo capitolo de li Proverbi: «Non trapasserai li termini antichi che puosero li padri tuoi»; e dinanzi dice, nel quarto capitolo del detto libro: «La via de' giusti», cioè de' valenti, «quasi luce splendiente procede, e quella de li malvagi è oscura. Elli non sanno dove rovinano». 10. Ultimamente, quando si dice: E tocca a tal, ch'è morto e va per terra, a maggiore detrimento dico questo cotale vilissimo essere morto, parendo vivo. Onde è da sapere che veramente morto lo malvagio uomo dire si puote, e massimamente quelli che da la via del buono suo antecessore si parte. 11. E ciò si può così mostrare. Sì come dice Aristotile nel secondo de l'Anima, «vivere è l'essere de li viventi»; e per ciò che vivere è per molti modi (sì come ne le piante vegetare, ne li animali vegetare e sentire e muovere, ne li uomini vegetare, sentire, muovere e ragionare, o vero intelligere), e le cose si deono denominare da la più nobile parte, manifesto è che vivere ne li animali è sentire - animali, dico, bruti -, vivere ne l'uomo è ragione usare. 12. Dunque, se 'l vivere è l'essere [dei viventi e vivere ne l'uomo è ragione usare, ragione usare è l'essere] de l'uomo, e così da quello uso partire è partire da essere, e così è essere morto. E non si parte da l'uso del ragionare chi non ragiona lo fine de la sua vita? e non si parte da l'uso de la ragione chi non ragiona il cammino che fare dee? Certo si parte; e ciò si manifesta massimamente c[on] colui che ha le vestigie innanzi, e non le mira. 13. E però dice Salomone nel quinto capitolo de li Proverbi: «Quelli muore che non ebbe disciplina, e ne la moltitudine de la sua stoltezza sarà ingannato». Ciò è a dire: Colui è morto che non si fè discepolo, che non segue lo maestro; e questo vilissimo è quello. 14. Potrebbe alcuno dicere: Come è morto e va? Rispondo che è morto [uomo] e rimaso bestia. Chè, sì come dice lo Filosofo nel secondo de l'Anima, le potenze de l'anima stanno sopra sè come la figura de lo quadrangulo sta sopra lo triangulo, e lo pentangulo, cioè la figura che ha cinque canti, sta sopra lo quadrangulo: e così la sensitiva sta sopra la vegetativa, e la intellettiva sta sopra la sensitiva. 15. Dunque, come levando l'ultimo canto del pentangulo rimane quadrangulo e non più pentangulo, così levando l'ultima potenza de l'anima, cioè la ragione, non rimane più uomo, ma cosa con anima sensitiva solamente, cioè animale bruto. E questa è la sentenza del secondo verso de la canzone impresa, nel quale si pongono l'altrui oppinioni.

 

Capitolo VIII.

1. Lo più bello ramo che de la radice razionale consurga si è la discrezione. Chè, sì come dice Tommaso sopra lo prologo de l'Etica, «conoscere l'ordine d'una cosa ad altra è proprio atto di ragione», e è questa discrezione. Uno de' più belli e dolci frutti di questo ramo è la reverenza che dee lo minore a lo maggiore. 2. Onde Tullio, nel primo de li Offici, parlando de la bellezza che in su l'onestade risplende, dice la reverenza essere di quella; e così come questa è bellezza d'onestade, così lo suo contrario è turpezza e menomanza de l'onesto, lo quale contrario inreverenza, o vero tracotanza dicere in nostro volgare si può. 3. E però esso Tullio nel medesimo luogo dice: «Mettere a negghienza di sapere quello che li altri sentono di lui, non solamente è di persona arrogante, ma di dissoluta»; che non vuole altro dire, se non che arroganza e dissoluzione è se medesimo non conoscere, ch'è principio ed è la misura d'ogni reverenza. 4. Per che io volendo, con tutta reverenza e a lo Principe e al Filosofo portando, la malizia d'alquanti de la mente levare, per fondarvi poi suso la luce de la veritade, prima che a riprovare le proposte oppinioni proceda, mostrerò come, quelle riprovando, nè contra l'imperiale maiestade nè contra lo Filosofo si ragiona inreverentemente. 5. Che se in alcuna parte di tutto questo libro inreverente mi mostrasse, non sarebbe tanto laido quanto in questo trattato; nel quale, di nobilitade trattando, me nobile e non villano deggio mostrare. E prima mostrerò me non presummere [contra l'autorità del Filosofo; poi mostrerò me non presummere] contra la maiestade imperiale.

6. Dico adunque che quando lo Filosofo dice: «Quello che pare a li più, impossibile è del tutto essere falso», non intende dicere del parere di fuori, cioè sensuale, ma di quello dentro, cioè razionale; con ciò sia cosa che 'l sensuale parere secondo la più gente, sia molte volte falsissimo, massimamente ne li sensibili comuni, là dove lo senso spesse volte è ingannato. 7. Onde sapemo che a la più gente lo sole pare di larghezza, nel diametro, d'un piede, e sì è ciò falsissimo. Chè, secondo lo cercamento e la invenzione che ha fatto l'umana ragione con l'altre sue arti, lo diametro del corpo del sole è cinque volte quanto quello de la terra, e anche una mezza volta; [onde], con ciò sia cosa che la terra per lo diametro suo sia semilia cinquecento miglia, lo diametro del sole, che a la sensuale apparenza appare di quantità d'un piede, è trentacinque milia settecento cinquanta miglia. 8. Per che manifesto è Aristotile non avere inteso de la sensuale apparenza; e però, se io intendo solo a la sensuale apparenza riprovare, non faccio contra la intenzione del Filosofo, e però nè la riverenza che a lui si dee non offendo. E che io sensuale apparenza intenda riprovare è manifesto. 9. Chè costoro, che così giudicano, non giudicano se non per quello che sentono di queste cose che la fortuna può dare e torre; che perchè veggiono fare le parentele e li alti matrimonii, li edifici mirabili, le possessioni larghe, le signorie grandi, credono quelle essere cagioni di nobilitade, anzi essa nobilitade credono quelle essere. Chè s'elli giudicassero con l'apparenza razionale, dicerebbero lo contrario, cioè la nobilitade essere cagione di questo, sì come di sotto in questo trattato si vedrà.

10. E come io, secondo che vedere si può, contra la reverenza del Filosofo non parlo ciò riprovando, così non parlo contra la reverenza de lo Imperio: e la ragione mostrare intendo. Ma però che, dinanzi da l'avversario s[e] ragiona, lo rettorico dee molta cautela usare nel suo sermone, acciò che l'avversario quindi non prenda materia di turbare la veritade, io, che al volto di tanti avversarii parlo in questo trattato, non posso [brievemente] parlare; onde, se le mie digressioni sono lunghe, nullo si maravigli. 11. Dico adunque che, a mostrare me non essere inreverente a la maiestade de lo Imperio, prima è da vedere che è 'reverenza'. Dico che reverenza non è altro che confessione di debita subiezione per manifesto segno. E veduto questo, da distinguere è intra loro 'inreverente' [e 'non reverente'. Lo inreverente] dice privazione, lo non reverente dice negazione. E però la inreverenza è disconfessare la debita subiezione, per manifesto segno, dico, e la non reverenza è negare la debita subiezione. 12. Puote l'uomo disdicere la cosa doppiamente: per uno modo puote l'uomo disdicere offendendo a la veritade, quando de la debita confessione si priva, e questo propriamente è 'disconfessare'; per un altro modo puote l'uomo disdicere non offendendo a la veritade, quando quello che non è non si confessa, e questo è proprio 'negare': sì come disdicere l'uomo sè essere del tutto mortale, è negare, propriamente parlando. 13. Per che se io niego la reverenza de lo Imperio, non sono inreverente, ma sono non reverente: che non è contro a la reverenza, con ciò sia cosa che quella non offenda; sì come lo non vivere non offende la vita, ma offende quella la morte, che è di quella privazione. Onde altro è morte e altro è non vivere; che non vivere è ne le pietre. 14. E però che morte dice privazione, che non può essere se non nel subietto de l'abito, e le pietre non sono subietto di vita, per che non 'morte', ma 'non vivere' dicere si deono; similemente io, che in questo caso a lo Imperio reverenza avere non debbo, se la disdico, inreverente non sono, ma sono non reverente, che non è tracotanza nè cosa da biasimare. 15. Ma tracotanza sarebbe l'essere reverente (se reverenza si potesse dicere), però che in maggiore e in vera [in]reverenza si cadrebbe, cioè de la natura e de la veritade, sì come di sotto si vedrà. E da questo fallo si guardò quello maestro de li filosofi, Aristotile, nel principio de l'Etica quando dice: «Se due sono li amici, e l'uno è la verità, a la verità è da consentire». 16. Veramente, perchè detto ho ch'i' sono non reverente, che è la reverenza negare, cioè negare la debita subiezione per manifesto segno, da vedere è come questo è negare e non disconfessare, cioè da vedere come, in questo caso, io non sia debitamente a la imperiale maiestà subietto. E perchè lunga conviene essere la ragione, per proprio capitolo immediatamente intendo ciò mostrare.

 

Capitolo IX.

1. A vedere come in questo caso, cioè in riprovando o in approvando l'oppinione de lo Imperadore, a lui non sono tenuto a subiezione, reducere a la mente si conviene quello che de lo imperiale officio di sopra, nel quarto capitolo di questo trattato, è ragionato, cioè che a perfezione de l'umana vita la imperiale autoritade fu trovata, e che ella è regolatrice e rettrice di tutte le nostre operazioni, giustamente; che, pertanto, oltre quanto le nostre operazioni si stendono tanto la maiestade imperiale ha giurisdizione, e fuori di quelli termini non si sciampia. 2. Ma sì come ciascuna arte e officio umano da lo imperiale è a certi termini limitato, così questo da Dio a certo termine è finito: e non è da maravigliare, chè l'officio e l'arte de la natura finito in tutte sue operazioni vedemo. Che se prendere volemo la natura universale di tutto, tanto ha giurisdizione quanto tutto lo mondo, dico lo cielo e la terra, si stende; e questo è a certo termine, sì come per lo terzo de la Fisica e per lo primo De Celo et Mundo è provato. 3. Dunque la giurisdizione de la natura universale è a certo termine finita - e per consequente la parti[culare] -; e anche di costei è limitatore colui che da nulla è limitato, cioè la prima bontade, che è Dio, che solo con la infinita capacitade infinito comprende.

4. E a vedere li termini de le nostre operazioni, è da sapere che solo quelle sono nostre operazioni che subiacciono a la ragione e a la volontade; che se in noi è l'operazione digestiva, questa non è umana, ma naturale. 5. Ed è da sapere che la nostra ragione a quattro maniere d'operazioni, diversamente da considerare, è ordinata: chè operazioni sono che ella solamente considera, e non fa nè può fare alcuna di quelle, sì come sono le cose naturali e le soprannaturali e le matematice; e operazioni che essa considera e fa nel proprio atto suo, le quali si chiamano razionali, sì come sono arti di parlare; e operazioni sono che ella considera e fa in materia di fuori di sè, sì come sono arti meccanice. 6. E queste tutte operazioni, avvegna che 'l considerare loro subiaccia a la nostra volontade, elle per loro a nostra volontade non subiacciono: chè, perchè noi volessimo che le cose gravi salissero per natura suso, e perchè noi volessimo che 'l silogismo con falsi principii conchiudesse veritade dimostrando, e perchè noi volessimo che la casa sedesse così forte pendente come diritta, non sarebbe; però che di queste operazioni non fattori propriamente, ma li trovatori semo. Altri l'ordinò e fece maggior fattore. 7. Sono anche operazioni che la nostra [ragione] considera ne l'atto de la volontade, sì come offendere e giovare, sì come star fermo e fuggire a la battaglia, sì come stare casto e lussuriare, e queste del tutto soggiacciono a la nostra volontade; e però semo detti da loro buoni e rei perch'elle sono proprie nostre del tutto, perchè, quanto la nostra volontade ottenere puote, tanto le nostre operazioni si stendono. 8. E con ciò sia cosa che in tutte queste volontarie operazioni sia equitade alcuna da conservare e iniquitade da fuggire (la quale equitade per due cagioni si può perdere, o per non sapere quale essa si sia o per non volere quella seguitare), trovata fu la Ragione scritta, e per mostrarla e per comandarla. Onde dice Augustino: «Se questa - cioè equitade - li uomini la conoscessero, e conosciuta servassero, la Ragione scritta non sarebbe mestiere»; e però è scritto nel principio del Vecchio Digesto: «La ragione scritta è arte di bene e d'equitade». 9. A questa scrivere, mostrare e comandare, è questo officiale posto di cui si parla, cioè lo Imperadore, al quale tanto quanto le nostre operazioni proprie, che dette sono, si stendono, siamo subietti; e più oltre no. 10. Per questa ragione, in ciascuna arte e in ciascuno mestiere li artefici e li discenti sono, ed esser deono, subietti al prencipe e al maestro di quelle, in quelli mestieri ed in quella arte; e fuori di quello la subiezione pere, però che pere lo principato. Sì che quasi dire si può de lo Imperadore, volendo lo suo officio figurare con una imagine, che elli sia lo cavalcatore de la umana volontade. Lo quale cavallo come vada sanza lo cavalcatore per lo campo assai è manifesto, e spezialmente ne la misera Italia, che sanza mezzo alcuno a la sua governazione è rimasa!

11. E da considerare è che quanto la cosa è più propia de l'arte o del maestro, tanto è maggiore in quella la subiezione; chè, multiplicata la cagione, multiplica l'effetto. Onde è da sapere che cose sono che sono sì pure arti, che la natura è instrumento de l'arte: sì come vogare con remo, dove l'arte fa suo instrumento de la impulsione, che è naturale moto; sì come nel trebbiare lo frumento, che l'arte fa suo instrumento del caldo, che è natural qualitade; e in queste massimamente a lo prencipe e maestro de l'arte esser si dee subietto. 12. E cose sono dove l'arte è instrumento de la natura, e queste sono meno arti; e in esse sono meno subietti li artefici a loro prencipe; sì com'è dare lo seme a la terra (qui si vuole attendere la volontà de la natura), sì come uscire è di porto (qui si vuole attendere la naturale disposizione del tempo). E però vedemo in queste cose spesse volte contenzione tra li artefici, e domandare consiglio lo maggiore al minore. 13. Altre cose sono che non sono de l'arte, e paiono avere con quella alcuna parentela, e quinci sono li uomini molte volte ingannati; e in queste li discenti a lo artefice, o vero maestro, subietti non sono, nè credere a lui sono tenuti quanto è per l'arte: sì come pescare pare aver parentela col navicare, e conoscere la vertù de l'erbe pare aver parentela con l'agricoltura; che non hanno insieme alcuna regola, con ciò sia cosa che 'l pescare sia sotto l'arte de la venagione e sotto suo comandare, e lo conoscere la vertù de l'erbe sia sotto la medicina o vero sotto più nobile dottrina.

14. Queste cose simigliantemente, che de l'altre arti sono ragionate, vedere si possono ne l'arte imperiale; chè regole sono in quella che sono pure arti, sì come sono le leggi de' matrimonii, de li servi, de le milizie, de li successori in dignitade, e di queste in tutto siamo a lo Imperadore subietti, sanza dubbio e sospetto alcuno. 15. Altre leggi sono che sono quasi seguitatrici di natura, sì come constituire l'uomo d'etade sofficiente a ministrare, e di queste non semo in tutto subietti. Altre molte sono che paiono avere alcuna parentela con l'arte imperiale - e qui fu ingannato ed è chi crede che la sentenza imperiale sia in questa parte autentica -: sì come [diffinire] giovinezza e gentilezza, sovra le quali nullo imperiale giudicio è da consentire, in quanto elli è imperadore: però, quello che è di [Cesare sia renduto a Cesare, e quello che è di] Dio sia renduto a Dio. 16. Onde non è da credere nè da consentire a Nerone imperadore, che disse che giovinezza era bellezza e fortezza del corpo, ma a colui che dicesse che giovinezza è colmo de la naturale vita, che sarebbe filosofo. E però è manifesto che diffinire di gentilezza non è de l'arte imperiale; e se non è de l'arte, trattando di quella, a lui non siamo subietti; e se non [siamo] subietti, reverire lui in ciò non siamo tenuti: e questo è quello [che cerc]ando s'andava. 17. Per che omai con tutta licenza e con tutta franchezza d'animo è da ferire nel petto a le usate oppinioni, quelle per terra versando, acciò che la verace, per questa mia vittoria, tegna lo campo de la mente di coloro per c[ui] fa questa luce avere vigore.

 

Capitolo X.

1. Poi che poste sono l'altrui oppinioni di nobilitade, e mostrato è quelle riprovare a me esser licito, verrò a quella parte ragionare che ciò ripruova; che comincia, sì come detto è di sopra: Chi diffinisce: 'Omo è legno animato'. E però, è da sapere che l'oppinione de lo Imperadore - avvegna che con difetto quella ponga - ne l'una particula, cioè là dove disse belli costumi, toccò de li costumi di nobilitade, e però in quella parte riprovare non s'intende. 2. L'altra particula, che di natura di nobilitade è del tutto diversa, s'intende riprovare; la quale due cose pare dicere quando dice antica ricchezza, cioè tempo e divizie, le quali a nobilitade sono del tutto diverse, come detto è e come di sotto si mostrerà. E però riprovando si fanno due parti: prima si ripruovano le divizie, e poi si ripruova lo tempo essere cagione di nobilitade. La seconda parte comincia: Nè voglion che vil uom gentil divegna. 3. E da sapere è che, riprovate le divizie, è riprovata non solamente l'oppinione de lo Imperadore in quella parte che le divizie tocca, ma eziandio quella del vulgo interamente che solo ne le divizie si fondava. La prima parte in due si divide: che ne la prima generalmente si dice lo 'mperadore essere stato erroneo ne la diffinizione di nobilitade; secondamente si mostra ragione perchè. E comincia questa seconda parte: Chè le divizie, sì come si crede.

4. Dico adunque, Chi diffinisce: 'Omo è legno animato', che prima dice non vero, cioè falso, in quanto dice 'legno'; e poi parla non intero, cioè con difetto, in quanto dice 'animato', non dicendo 'razionale', che è differenza per la quale uomo da la bestia si parte. 5. Poi dico che per questo modo fu erroneo in diffinire quelli che tenne impero: non dicendo 'imperadore', ma 'quelli che tenne imperio', a mostrare (come detto è di sopra) questa cosa determinare essere fuori d'imperiale officio. Poi dico similemente lui errare, che puose de la nobilitade falso subietto, cioè 'antica ricchezza', e poi procede[tt]e a 'defettiva forma', o vero differenza, cioè 'belli costumi', che non comprendono ogni formalitade di nobilitade, ma molto picciola parte, sì come di sotto si mostrerà. 6. E non è da lasciare, tutto che 'l testo si taccia, che messere lo Imperadore in questa parte non errò pur ne le parti de la diffinizione, ma eziandio nel modo di diffinire, avvegna che, secondo la fama che di lui grida, elli fosse loico e clerico grande: chè la diffinizione de la nobilitade più degnamente si farebbe da li effetti che da' principii, con ciò sia cosa che essa paia avere ragione di principio, che non si può notificare per cose prime, ma per posteriori. 7. Poi quando dico: Chè le divizie, sì come si crede, mostro come elle non possono causare nobilitade, perchè sono vili; e mostro quelle non poterla torre, perchè son disgiunte molto da nobilitade. E pruovo quelle essere vili per uno loro massimo e manifestissimo difetto; e questo fo quando dico: Che siano vili appare. 8. Ultimamente conchiudo, per virtù di quello che detto è di sopra, l'animo diritto non mutarsi per loro transmutazione; che è pruova di quello che detto è di sopra, quelle essere da nobilitade disgiunte, per non seguire l'effetto de la congiunzione. Ove è da sapere che, sì come vuole lo Filosofo, tutte le cose che fanno alcuna cosa, conviene essere prima quelle perfettamente in quello essere; onde dice nel settimo de la Metafisica: «Quando una cosa si genera da un'altra, generasi di quella, essendo in quello essere». 9. Ancora è da sapere che ogni cosa che si corrompe, sì si corrompe, precedente alcuna alterazione, e ogni cosa che è alterata conviene essere congiunta con l'altera[nte cag]ione, sì come vuole lo Filosofo nel settimo de la Fisica e nel primo De Generatione. Queste cose proposte, così procedo, e dico che le divizie, come altri credea, non possono dare nobilitade; e a mostrare maggiore diversitade avere con quella, dico che non la possono torre a chi l'ha. 10. Dare non la possono, con ciò sia cosa che naturalmente siano vili, e per la viltade siano contrarie a la nobilitade. E qui s'intende viltade per degenerazione, la quale a la nobilitade s'oppone; con ciò sia cosa che l'uno contrario non sia fattore de l'altro nè possa essere, per la prenarrata cagione la quale brevemente s'aggiugne al testo, dicendo: Poi chi pinge figura, [Se non può esser lei, non la può porre]. 11. Onde nullo dipintore potrebbe porre alcuna figura, se intenzionalmente non si facesse prima tale, quale la figura essere dee. Ancora torre non la possono, però che da lungi sono di nobilitade, e per la ragione prenarrata che [ciò che] altera o corrompe alcuna cosa convegna essere congiunto con quella. 12. E però soggiugne: Nè la diritta torre Fa piegar rivo che da lungi corre; che non vuole altro dire, se non rispondere a ciò che detto è dinanzi, che le divizie non possono torre nobilitade, dicendo quasi quella nobilitade essere torre diritta, e le divizie fiume da lungi corrente.

 

Capitolo XI.

1. Resta omai solamente a provare come le divizie sono vili, e come disgiunte sono e lontane da nobilitade; e ciò si pruova in due particulette del testo, a le quali si conviene al presente intendere. E poi quelle esposte, sarà manifesto ciò che detto ho, cioè le divizie essere vili e lontane da nobilitade; e per questo saranno le ragioni di sopra contra le divizie perfettamente provate. 2. Dico adunque: Che siano vili appare ed imperfette. E a manifestare ciò che dire s'intende, è da sapere che la viltade di ciascuna cosa da la imperfezione di quella si prende, e così la nobilitade da la perfezione: onde tanto quanto la cosa è perfetta, tanto è in sua natura nobile; quanto imperfetta, tanto vile. E però se le divizie sono imperfette, manifesto è che siano vili. 3. E che elle siano imperfette, brievemente pruova lo testo quando dice: Chè, quantunque collette, Non posson quietar, ma dan più cura; in che non solamente la loro imperfezione è manifesta, ma la loro condizione essere imperfettissima, e però essere quelle vilissime. E ciò testimonia Lucano, quando dice, a quelle parlando: «Sanza contenzione periro le leggi; e voi ricchezze, vilissima parte de le cose, moveste battaglia». 4. Puotesi brevemente la loro imperfezione in tre cose vedere apertamente: e prima, ne lo indiscreto loro avvenimento; secondamente, nel pericoloso loro accrescimento; terziamente, ne la dannosa loro possessione. E prima ch'io ciò dimostri, è da dichiarare un dubbio che pare consurgere: che, con ciò sia cosa che l'oro, le margherite e li campi perfettamente forma e atto abbiano in loro essere, non pare vero dicere che siano imperfette. 5. E però si vuole sapere che, quanto è per esse in loro considerate, cose perfette sono, e non sono ricchezze, ma oro e margherite; ma in quanto sono ordinate a la possessione de l'uomo, sono ricchezze, e per questo modo sono piene d'imperfezione. Chè non è inconveniente una cosa, secondo diversi rispetti, essere perfetta e imperfetta.

6. Dico che la loro imperfezione primamente si può notare ne la indiscrezione del loro avvenimento, nel quale nulla distributiva giustizia risplende, ma tutta iniquitade quasi sempre, la quale iniquitade è proprio effetto d'imperfezione. 7. Che se si considerano li modi per li quali esse vegnono, tutti si possono in tre maniere ricogliere: chè o vengono da pura fortuna, sì come quando sanza intenzione o speranza vegnono per invenzione alcuna non pensata; o vengono da fortuna che è da ragione aiutata, sì come per testamenti o per mutua successione; o vegnono da fortuna aiutatrice di ragione, sì come quando per licito o per illicito procaccio: licito dico, quando è per arte o per mercatantia o per servigio meritante; illicito dico, quando è per furto o per rapina. 8. E in ciascuno di questi tre modi si vede quella iniquitade che io dico, chè più volte a li malvagi che a li buoni le celate ricchezze che si truovano o che si ritruovano si rappresentano; e questo è sì manifesto, che non ha mestiere di pruova. Veramente io vidi lo luogo, ne le coste d'un monte che si chiama Falterona, in Toscana, dove lo più vile villano di tutta la contrada, zappando, più d'uno staio di santalene d'argento finissimo vi trovò, che forse più di dumilia anni l'aveano aspettato. 9. E per vedere questa iniquitade, disse Aristotile che «quanto l'uomo più subiace a lo 'ntelletto, tanto meno subiace a la fortuna». E dico che più volte a li malvagi che a li buoni pervengono li retaggi, legati e caduti; e di ciò non voglio recare innanzi alcuna testimonianza, ma ciascuno volga li occhi per la sua vicinanza, e vedrà quello che io mi taccio per non abominare alcuno. 10. Così fosse piaciuto a Dio che quello che addomandò lo Provenzale fosse stato, che chi non è reda de la bontade perdesse lo retaggio de l'avere! E dico che più volte a li malvagi che a li buoni pervegnono a punto li procacci; chè li non liciti a li buoni mai non pervegnono, però che li rifiutano. 11. E quale buono uomo mai per forza o per fraude procaccerà? Impossibile sarebbe ciò, chè solo per la elezione de la illicita impresa più buono non sarebbe. E li liciti rade volte pervegnono a li buoni, perchè, con ciò sia cosa che molta sollicitudine quivi si richeggia, e la sollicitudine del buono sia diritta a maggiori cose, rade volte sofficientemente quivi lo buono è sollicito. 12. Per che è manifesto in ciascuno modo quelle ricchezze iniquamente avvenire; e però Nostro Segnore inique le chiamò, quando disse: «Fatevi amici de la pecunia de la iniquitade», invitando e confortando li uomini a liber[ali]tade di benefici, che sono generatori d'amici. 13. E quanto fa bello cambio chi di queste imperfettissime cose dà per avere e per acquistare cose perfette, sì come li cuori de' valenti uomini! Lo cambio ogni die si può fare. Certo nuova mercatantia è questa de l'altre, che, credendo comperare uno uomo per lo beneficio, mille e mille ne sono comperati. 14. E c[u]i non è ancora [ne]l cuore Alessandro per li suoi reali benefici? Cui non è ancora lo buono re di Castella, o il Saladino, o il buono Marchese di Monferrato, o il buono Conte di Tolosa, o Beltramo dal Bornio, o Galasso di Montefeltro? Quando de le loro messioni si fa menzione, certo non solamente quelli che ciò farebbero volentieri, ma quelli prima morire vorrebbero che ciò fare, amore hanno a la memoria di costoro.

 

Capitolo XII.

1. Come detto è, la imperfezione de le ricchezze non solamente nel loro avvenimento si può comprendere, ma eziandio nel pericoloso loro accrescimento; e però che in ciò più si può vedere di loro difetto, solo di questo fa menzione lo testo, dicendo quelle, quantunque collette, non solamente non quietare, ma dare più sete e rendere altri più defettivo e insufficiente. 2. E qui si vuole sapere che le cose defettive possono aver li loro difetti per modo, che ne la prima faccia non paiono, ma sotto pretesto di perfezione la imperfezione si nasconde; e possono avere quelli sì, che del tutto sono discoperti, sì che apertamente ne la prima faccia si conosce la imperfezione. 3. E quelle cose che prima non mostrano li loro difetti sono più pericolose, però che di loro, molte fiate prendere guardia non si può; sì come vedemo nel traditore, che ne la faccia dinanzi si mostra amico, sì che fa di sè fede avere, e sotto pretesto d'amistade chiude lo difetto de la inimistade. E per questo modo le ricchezze pericolosamente nel loro accrescimento sono imperfette, che, sommettendo ciò che promettono, apportano lo contrario. 4. Promettono le false traditrici sempre, in certo numero adunate, rendere lo raunatore pieno d'ogni appagamento; e con questa promissione conducono l'umana volontade in vizio d'avarizia. E per questo le chiama Boezio, in quello De Consolatione, pericolose, dicendo: «Ohmè! chi fu quel primo che li pesi de l'oro coperto e le pietre che si voleano ascondere, preziosi pericoli, cavoe?». 5. Promettono le false traditrici, se bene si guarda, di torre ogni sete e ogni mancanza, e apportare ogni saziamento e bastanza; e questo fanno nel principio a ciascuno uomo, questa promissione in certa quantità di loro accrescimento affermando: e poi che quivi sono adunate, in loco di saziamento e di refrigerio danno e recano sete di casso febricante intollerabile; e in loco di bastanza recano nuovo termine, cioè maggiore quantitade a desiderio, e, con questa, paura grande e sollicitudine sopra l'acquisto. Si che veramente non quietano, ma più danno cura, la qual prima sanza loro non si avea. 6. E però dice Tullio in quello De Paradoxo, abominando le ricchezze: «Io in nullo tempo per fermo nè le pecunie di costoro, nè le magioni magnifiche, nè le ricchezze, nè le signorie, nè l'allegrezze de le quali massimamente sono astretti, tra cose buone o desiderabili esser dissi; con ciò sia cosa che certo io vedesse li uomini ne l'abondanza di queste cose massimamente desiderare quelle di che abondano. Però che in nullo tempo si compie nè si sazia la sete de la cupiditate; nè solamente per desiderio d'accrescere quelle cose che hanno si tormentano, ma eziandio tormento hanno ne la paura di perdere quelle». 7. E queste tutte parole sono di Tullio, e così giacciono in quello libro che detto è. E a maggiore testimonianza di questa imperfezione, ecco Boezio in quello De Consolatione dicente: «Se quanta rena volve lo mare turbato dal vento, se quante stelle rilucono, la dea de la ricchezza largisca, l'umana generazione non cesserà di piangere». 8. E perchè più testimonianza, a ciò ridurre per pruova, si conviene, lascisi stare quanto contra esse Salomone e suo padre grida; quanto contra esse Seneca, massimamente a Lucillo scrivendo; quanto Orazio, quanto Iuvenale e, brievemente, quanto ogni scrittore, ogni poeta; e quanto la verace Scrittura divina chiama contra queste false meretrici, piene di tutti defetti; e pongasi mente, per avere oculata fede, pur a la vita di coloro che dietro a esse vanno, come vivono sicuri quando di quelle hanno raunate, come s'appagano, come si riposano. 9. E che altro cotidianamente pericola e uccide le cittadi, le contrade, le singulari persone, tanto quanto lo nuovo raunamento d'avere appo alcuno? Lo quale raunamento nuovi desiderii discuopre, a lo fine de li quali sanza ingiuria d'alcuno venire non si può. E che altro intende di meditare l'una e l'altra Ragione, Canonica dico e Civile, tanto quanto a riparare a la cupiditade che, raunando ricchezze, cresce? 10. Certo assai lo manifesta e l'una e l'altra Ragione, se li loro cominciamenti, dico de la loro scrittura, si leggono. Oh com'è manifesto, anzi manifestissimo, quelle in accrescendo essere del tutto imperfette, quando di loro altro che imperfezione nascere non può, quanto che accolte siano! E questo è quello che lo testo dice.

11. Veramente qui surge in dubbio una questione, da non trapassare sanza farla e rispondere a quella. Potrebbe dire alcuno calunniatore de la veritade che se, per crescere desiderio acquistando, le ricchezze sono imperfette e però vili, che per questa ragione sia imperfetta e vile la scienza, ne l'acquisto de la quale sempre cresce lo desiderio di quella; onde Seneca dice: «Se l'uno de li piedi avesse nel sepulcro, apprendere vorrei». 12. Ma non è vero che la scienza sia vile per imperfezione: dunque, per la distruzione del consequente, lo crescere desiderio non è cagione di viltade a le ricchezze. Che sia perfetta, è manifesto per lo Filosofo nel sesto de l'Etica, che dice la scienza essere perfetta ragione di certe cose.

13. A questa questione brievemente è da rispondere; ma prima è da vedere se ne l'acquisto de la scienza lo desiderio si sciampia come ne la questione si pone, e se sia per ragione. Per che io dico che non solamente ne l'acquisto de la scienza e de le ricchezze, ma in ciascuno acquisto l'umano desiderio si sciampia, avvegna che per altro e altro modo. 14. E la ragione è questa: che lo sommo desiderio di ciascuna cosa, e prima da la natura dato, è lo ritornare a lo suo principio. E però che Dio è principio de le nostre anime e fattore di quelle simili a sè (sì come è scritto: «Facciamo l'uomo ad imagine e similitudine nostra»), essa anima massimamente desidera di tornare a quello. 15. E sì come peregrino che va per una via per la quale mai non fue, che ogni casa che da lungi vede crede che sia l'albergo, e non trovando ciò essere, dirizza la credenza a l'altra, e così di casa in casa, tanto che a l'albergo viene; così l'anima nostra, incontanente che nel nuovo e mai non fatto cammino di questa vita entra, dirizza li occhi al termine del suo sommo bene, e però, qualunque cosa vede che paia in sè avere alcuno bene, crede che sia esso. 16. E perchè la sua conoscenza prima è imperfetta, per non essere esperta nè dottrinata, piccioli beni le paiono grandi, e però da quelli comincia prima a desiderare. Onde vedemo li parvuli desiderare massimamente un pomo; e poi, più procedendo, desiderare uno augellino; e poi, più oltre, desiderare bel vestimento; e poi lo cavallo; e poi una donna; e poi ricchezza non grande, e poi grande, e poi più. E questo incontra perchè in nulla di queste cose truova quella che va cercando, e credela trovare più oltre. 17. Per che vedere si può che l'uno desiderabile sta dinanzi a l'altro a li occhi de la nostra anima per modo quasi piramidale, che 'l minimo li cuopre prima tutti, ed è quasi punta de l'ultimo desiderabile, che è Dio, quasi base di tutti. Sì che, quanto da la punta ver la base più si procede, maggiori appariscono li desiderabili; e questa è la ragione per che, acquistando, li desiderii umani si fanno più ampii, l'uno appresso de l'altro. 18. Veramente così questo cammino si perde per errore come le strade de la terra. Che sì come d'una cittade a un'altra di necessitade è una ottima e dirittissima via, e un'altra che sempre se ne dilunga (cioè quella che va ne l'altra parte), e molte altre quale meno allungandosi e quale meno appressandosi, così ne la vita umana sono diversi cammini, de li quali uno è veracissimo e un altro è fallacissimo, e certi meno fallaci e certi meno veraci. 19. E sì come vedemo che quello che dirittissimo vae a la cittade, e compie lo desiderio e dà posa dopo la fatica, e quello che va in contrario mai nol compie e mai posa dare non può, così ne la nostra vita avviene: lo buono camminatore giugne a termine e a posa; lo erroneo mai non l'aggiugne, ma con molta fatica del suo animo sempre con li occhi gulosi si mira innanzi. 20. Onde avvegna che questa ragione del tutto non risponda a la questione mossa di sopra, almeno apre la via a la risposta, chè fa vedere non andare ogni nostro desiderio dilatandosi per un modo. Ma perchè questo capitolo è alquanto produtto, in capitolo nuovo a la questione è da rispondere, nel quale sia terminata tutta la disputazione che fare s'intende al presente contra le ricchezze.

 

Capitolo XIII.

1. A la questione rispondendo, dico che propriamente crescere lo desiderio de la scienza dire non si può, avvegna che, come detto è, per alcuno modo si dilati. Chè quello che propriamente cresce, sempre è uno: lo desiderio de la scienza non è sempre uno, ma è molti, e finito l'uno, viene l'altro; sì che, propriamente parlando, non è crescere lo suo dilatare, ma successione di picciola cosa in grande cosa. 2. Che se io desidero di sapere li principii de le cose naturali, incontanente che io so questi, è compiuto e terminato questo desiderio. E se poi io desidero di sapere che cosa e com'è ciascuno di questi principii, questo è un altro desiderio nuovo, nè per l'avvenimento di questo non mi si toglie la perfezione a la quale mi condusse l'altro; e questo cotale dilatare non è cagione d'imperfezione, ma di perfezione maggiore. Quello veramente de la ricchezza è propriamente crescere, chè è sempre pur uno, sì che nulla successione quivi si vede, e per nullo termine e per nulla perfezione. 3. E se l'avversario vuol dire che, sì come è altro desiderio quello di sapere li principii de le cose naturali e altro di sapere che elli sono, così altro desiderio è quello de le cento marche e altro è quello de le mille, rispondo che non è vero; che 'l cento sì è parte del mille, e ha ordine ad esso come parte d'una linea a tutta linea, su per la quale si procede per uno moto solo, e nulla successione quivi è nè perfezione di moto in parte alcuna. 4. Ma conoscere che siano li principii de le cose naturali, e conoscere quello che sia ciascheduno, non è parte l'uno de l'altro, e hanno ordine insieme come diverse linee, per le quali non si procede per uno moto, ma, perfetto lo moto de l'una, succede lo moto de l'altra. 5. E così appare che, dal desiderio de la scienza, la scienza non è da dire imperfetta, sì come le ricchezze sono da dire per lo loro, come la questione ponea; chè nel desiderare de la scienza successivamente finiscono li desiderii e viensi a perfezione, e in quello de la ricchezza no. Sì che la questione è soluta, e non ha luogo.

6. Ben puote ancora calunniare l'avversario dicendo che, avvegna che molti desiderii si compiano ne lo acquisto de la scienza, mai non si viene a l'ultimo: che è quasi simile a la 'mperfezione di quello che non si termina e che è pur uno. 7. Ancora qui si risponde, che non è vero ciò che si oppone, cioè che mai non si viene a l'ultimo: chè li nostri desiderii naturali, sì come di sopra nel terzo trattato è mostrato, sono a certo termine discendenti; e quello de la scienza è naturale, sì che certo termine quello compie, avvegna che pochi, per male camminare, compiano la giornata. 8. E chi intende lo Commentatore nel terzo de l'Anima, questo intende da lui. E però dice Aristotile nel decimo de l'Etica, contra Simonide poeta parlando, che «l'uomo si dee traere a le divine cose quanto può»; in che mostra che a certo fine bada la nostra potenza. E nel primo de l'Etica dice che «'l disciplinato chiede di sapere certezza ne le cose, secondo che [ne] la loro natura di certezza si riceva»; in che mostra che non solamente da la parte de l'uomo desiderante, ma deesi fine attendere da la parte de lo scibile desiderato. 9. E però Paulo dice: «Non più sapere che sapere si convegna, ma sapere a misura». Sì che, per qualunque modo lo desiderare de la scienza si prende, o generalmente o particularmente, a perfezione viene. E però la scienza ha perfetta e nobile perfezione, e per suo desiderio sua perfezione non perde, come le maladette ricchezze.

10. Le quali come ne la loro possessione siano dannose, brievemente è da mostrare, che è la terza nota de la loro imperfezione. Puotesi vedere la loro possessione essere dannosa per due ragioni: l'una, che è cagione di male; l'altra, che è privazione di bene. Cagione è di male, chè fa, pur vegliando, lo possessore timido e odioso. 11. Quanta paura è quella di colui che appo sè sente ricchezza, in camminando, in soggiornando, non pur vegliando ma dormendo, non pur di perdere l'avere ma la persona per l'avere! Ben lo sanno li miseri mercatanti che per lo mondo vanno, che le foglie che 'l vento fa menare, li fa tremare, quando seco ricchezze portano; e quando sanza esse sono, pieni di sicurtade, cantando e sollazzando fanno loro cammino più brieve. 12. E però dice lo Savio: «Se voto camminatore entrasse ne lo cammino, dinanzi a li ladroni canterebbe». E ciò vuol dire Lucano nel quinto libro, quando commenda la povertà di sicuranza, dicendo: «Oh sicura facultà de la povera vita! oh stretti abitaculi e masserizie! oh non ancora intese ricchezze de li Iddei! A quali tempii o a quali muri poteo questo avvenire, cioè non temere con alcuno tumulto, bussando la mano di Cesare?» E quello dice Lucano quando ritrae come Cesare di notte a la casetta del pescatore Amiclas venne, per passare lo mare Adriano. 13. E quanto odio è quello che ciascuno al possessore de la ricchezza porta, o per invidia o per desiderio di prendere quella possessione! Certo tanto è, che molte volte contra la debita pietade lo figlio a la morte del padre intende: e di questo grandissime e manifestissime esperienze possono avere li Latini, e da la parte di Po e da la parte di Tevero! E però Boezio nel secondo de la sua Consolazione dice: «Per certo l'avarizia fa li uomini odiosi».

14. Anche è privazione di bene la loro possessione. Chè, possedendo quelle, larghezza non si fa, che è vertude ne la quale è perfetto bene e la quale fa li uomini splendienti e amati; che non può essere possedendo quelle, ma quelle lasciando di possedere. Onde Boezio nel medesimo libro dice: «Allora è buona la pecunia, quando, transmutata ne li altri per uso di larghezza, più non si possiede». Per che assai è manifesto la loro viltade per tutte le sue note. 15. E però l'uomo di diritto appetito e di vera conoscenza quelle mai non ama, e, non amandole, non si unisce ad esse, ma quelle sempre di lungi da sè essere vuole, se non in quanto ad alcuno necessario servigio sono ordinate. Ed è cosa ragionevole, però che lo perfetto con lo imperfetto non si può congiugnere; onde vedemo che la torta linea con la diritta non si congiunge mai, e se alcuno congiungimento v'è, non è da linea a linea, ma da punto a punto. 16. E però seguita che l'animo che è diritto, cioè d'appetito, e verace, cioè di conoscenza, per loro perdita non si disface; sì come lo testo pone nel fine di questa parte. E per questo effetto intende di provare lo testo che elle siano fiume corrente di lungi da la diritta torre de la ragione, o vero di nobilitade; e per questo, che esse divizie non possono torre la nobilitade a chi l'ha. E per questo modo disputasi e ripruovasi contra le ricchezze per la presente canzone.

Saturday, 20 January 2024

Good Reading: "II PCI ai giovani!!" by Pier Paolo Pasolini (in Italian)

È triste. La polemica contro
il PCI andava fatta nella prima metà
del decennio passato. Siete in ritardo, figli.
E non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati...
Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi
quelli delle televisioni)
vi leccano (come credo ancora si dica nel linguaggio
delle Università) il culo. Io no, amici.
Avete facce di figli di papà.
Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete paurosi, incerti, disperati
(benissimo) ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori e sicuri:
prerogative piccoloborghesi, amici.
Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti!
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da periferie, contadine o urbane che siano.
Quanto a me, conosco assai bene
il loro modo di esser stati bambini e ragazzi,
le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui,
a causa della miseria, che non dà autorità.
La madre incallita come un facchino, o tenera,
per qualche malattia, come un uccellino;
i tanti fratelli, la casupola
tra gli orti con la salvia rossa (in terreni
altrui, lottizzati); i bassi
sulle cloache; o gli appartamenti nei grandi
caseggiati popolari, ecc. ecc.
E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci,
con quella stoffa ruvida che puzza di rancio
fureria e popolo. Peggio di tutto, naturalmente,
e lo stato psicologico cui sono ridotti
(per una quarantina di mille lire al mese):
senza più sorriso,
senza più amicizia col mondo,
separati,
esclusi (in una esclusione che non ha uguali);
umiliati dalla perdita della qualità di uomini
per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare).
Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care.
Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia.
Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete!
I ragazzi poliziotti
che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione
risorgimentale)
di figli di papà, avete bastonato,
appartengono all’altra classe sociale.
A Valle Giulia, ieri, si è cosi avuto un frammento
di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte
della ragione) eravate i ricchi,
mentre i poliziotti (che erano dalla parte
del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque,
la vostra! In questi casi,
ai poliziotti si danno i fiori, amici.
[...]

Friday, 19 January 2024

Friday's Sung Word: "Cabloca Serrana" by Cândido das Neves (in Portuguese)

Existe neste sertão no alto daquela colina
uma cabocla que habita uma choupana pequenina.
Ficam todos a contemplar a sertaneja
quando aos domingos ela garbosa passa airosa para a igreja.

Se alguém lhe revelar os seus amores, insiste
ela corando suspira baixa o olhar e fica triste.
Quem for ao monte pela tardinha irá escutar os caburés
tristonhos a glória dos sonhos sertanejos cantar.

Cabocla, estes versos tão cheios de ti
escrevi à luz do luar contemplando-te à choupana.
ó serrana quisera Deus que fôras minha.
Seria um rei e tu de todo este sertão quase rainha.

Ter nos lábios teus o aroma excelso das caçoulas.
Teus seios afagar como a um casal de pombas-rolas.
E ouvir cantar pelas manhãs solenizando o nosso amor
os sabiás nos coqueirais em flor.

 

You can listen "Cabloca Serrana" sung by Vicente Celestino playing his guitar here (1939).

You can listen "Cabloca Serrana" sung by Vicente Celestino with orchestra here (1955).

Thursday, 18 January 2024

Thursday's Serial: “The Dark Other” by Stanley G. Weinbaum - X

 

27 - Two in Hell

The cold hand against Pat was still; she felt it rigid and stiff on her flesh. She lay passive with closed eyes; having voiced her final appeal, she was through. The words torn from her misery represented the final iota of spirit remaining to her; and her bruised body and battered mind had nothing further to give.

The hand quivered and withdrew. For a moment more she lay motionless with her arms clutched about her, then she opened her eyes, gazing dully, hopelessly at the demon standing over her. He was watching her with a curious abstracted frown; as she stirred, the scowl intensified, and he drew back a step.

His face contorted suddenly in a spasm of some unguessable emotion. His fists clenched; a low unintelligible mutter broke from his lips. "Strange!" she heard him say, and after a moment, "I'm still master here!"

He was master; in a moment the emotion vanished, and he was again standing over her, his face the same impassive demoniac mask. She watched him in a dull stupor of despair that was too deep for even a whimper of pain as he wrenched at the elastic about her waist, and it cut into her flesh and parted. He tore the garment away, and the red eyes bored down with a wild elation in their depths.

"Mine!" the being muttered, a new hoarseness in his voice. "Are you mine?"

Pat made no answer; his voice croaked in more insistent tones. "Are you mine?"

She could not reply. She felt his fingers bite into the flesh of her shoulder. She was shaken roughly, violently, and the question came again, fiercely. The eyes flamed in command, and she felt through her languor and weakness, the stirring of that strange and unholy fascination that he held over her.

"Answer!" he croaked. "Are you mine?"

The torture of his searing grip on her shoulder wrung an answer from her.

"Yes," she murmured faintly. "Yours."

She closed her eyes again in helpless resignation. She felt the hand withdrawn, and she lay passive, waiting, on the verge of unconsciousness, numb, spirit-broken, and beaten.

Nothing happened. After a long interval she opened her eyes, and saw the other standing again with clenched fists and contorted countenance. His features were writhing in the intensity of his struggle; a strange low snarl came from his lips. He backed away from her, step by step; he leaned against the book-shelves, and beads of perspiration formed on his scowling face.

He was no longer master! She saw the change; imperceptibly the evil vanished from his features, and suddenly they were no longer his, but the weary, horror-stricken visage of her Nick! The red eyes were no longer Satanic, but only the blood-shot, troubled, gentle eyes of her sweetheart, and the lips had lost their grimness, and gasped and quivered and trembled. He reeled against the wall, staggered to the chair at the table, and sank weakly into it.

Pat was far too exhausted, far too dazed, to feel anything but the faintest sensation of relief. She realized only dimly that tears were welling from her eyes, and that sharp sobs were shaking her. She was for the moment unable to stir, and it was not long until the being at the table turned stricken eyes on her that she moved. Then she drew her knees up before her, as if to hide her body behind their slim, chiffon-clad grace.

Nick rose from the table, approaching her with weary, hesitant tread. He seized a cover of some sort that was folded over the foot of the couch, shook it out and cast it over her. She clutched it about her body, sat erect and leaned back against the wall in utter exhaustion. Many minutes passed with no word from either of the occupants of the unholy chamber. It was Nick who broke the long silence.

"Pat," he murmured in low tones. "Pat—Dear. Are you—all right?"

She stared at him dazedly without answer.

"Honey!" he said. "Honey! Tell me you're all right!"

"All right?" she repeated uncomprehendingly. "Yes. I guess I'm all right."

"Then go, Pat! Get away from here before he—before anything happens! Put your clothes on and hurry away!"

"I can't!" she said, faintly. "I—can't!"

"You must, Honey!"

"I'm just—not able to. I will soon, Nick—honest. When I—when I get my breath back."

"Pat!" There was anguish in the cry. "Oh, God—Pat! We mustn't ever be together again—not ever!"

"No," she said. A bit of sanity was returning to her; comprehension of her position sent a shudder through her. "No, we mustn't."

"I couldn't bear another night like this—watching! I'd go mad!"

"Oh!" she choked, tears starting. "If you hadn't come back, Nick!"

"I conquered him," he said. "I don't think I could do it again. It was your call that gave me the strength, Pat." He shook his head as if bewildered. "He thought it was being in love with you that weakened me, but in the end it was that which gave me the strength to subdue him."

"I'm scared!" said the girl suddenly. "Oh, Nick! I'm frightened!"

"You'd better go. You'd better dress and leave at once, Honey. Here." He gathered her clothes from the floor, depositing them beside her on the couch. "There are pins in the tray on the table, Pat. Fix yourself up as well as you can, dear—and hurry out of here!"

He turned toward the door as if to leave, and a shock of terror shook her.

"Nick!" she cried. "Don't go away! I'm more afraid when I can't see you—afraid that he—" She broke off sobbing.

"All right, Honey. I'll turn my back."

She slipped out from under the blanket, found the pins, and repaired her ruined costume. The frock was torn, crushed and bedraggled; she pinned it together at the throat, though her trembling fingers made the task difficult. She pulled it on and took a tentative step toward the door.

"Nick!" she called as a wave of dizziness sent her swaying against the wall.

"What's the matter, Honey?" He turned anxiously at her cry.

"I'm dizzy," she moaned. "My head aches, and—I'm scared!"

"Pat, darling! You can't go out alone like this—and," he added miserably, "I can't take you!" He slipped his arm around her tenderly, supporting her to the couch. "Honey, what'll we do?"

"I'll be—all right," she murmured. "I'll go in a moment." The dizziness was leaving her; strength was returning.

"You must!" he said dolefully. "What a parting, Pat! Never to see you again, and then having this to remember as farewell!"

"I know, Nick. You see, I love you too." She turned her dark, troubled eyes on him. "Honey, kiss me good-bye! We'll have that to remember, anyway!" Tears were again on her cheeks.

"Do I dare?" he asked despondently. "After the things these lips of mine have said, and what these arms have done to you?"

"But you didn't, Nick! Could I blame you for—that other?"

"God! You're kind, Pat! Honey, if ever I win out in this battle, if ever I know I'm the final victor, I'll—No," he said his tones dropping abruptly. "I'll never come back to you, Pat. It's far too dangerous, and—can I ever be certain? Can I?"

"I don't know, Nick. Can you?"

"I can't be, Pat! I'll never be sure that he isn't just dormant, as he was before, waiting for my weakness to betray me! I'll never be certain, Honey! It has to be good-bye!"

"Then kiss me!"

She clung to him; the room that had been so recently a chamber of horrors was transformed. As she held him, as her lips were pressed to his, she thought suddenly of the words of the demon, that Heaven and Hell were always the same place. They had taken on a new meaning, those words; she drew away from Nick and turned her tear-bright eyes tenderly on his.

"Honey," she murmured, "I don't want you to leave me. I don't want you to go!"

"Nor do I want to, Pat! But I must."

"You mustn't! You're to stay, and we'll fight it out together—be married, or any way that permits us to fight it through together."

"Pat! Do you think I'd consent to that?"

"Nick," she said. "Nick darling—It's worth it to me! I'm realizing it now; I thought it wasn't—but it is! I can't lose you, Nick—anything, even that other, is better than losing you."

"You're sweet, Pat! You know I'd trade my very soul for that, but—No. I can't do it! And don't Honey, torture me by suggesting it again."

"But I will, Nick!" She was speaking softly, earnestly. "You're worth anything to me! If he should kill me, you'd still be worth it!" She gazed tenderly at him. "I'd want to die anyway without you!"

"No more than I without you," he muttered brokenly. "But I won't do it, Pat! I won't do that to you!"

"I love you, Nick!" she said in a low voice. "I don't want to live without you. Do you understand me, dear? I don't want to live without you!"

He stared at her somberly. "I've thought of that too," he said. "Pat—if I only believed that we'd be together after, together anywhere, I'd say yes. If only I believed there were an afterwards!"

"Doesn't he prove that by his very existence?"

"Your Doctor would deny that."

"Doctor Carl never saw him, Nick. And anyway, even oblivion together would be better than being separated, and far better than this!"

He gazed at her silently. She spoke again. "That doesn't frighten me, Nick. It's only losing you that frightens me, especially the fear of losing you to him."

He continued his silent gaze. Suddenly he drew her close to him, held her in a tight, tender embrace.

 

28. Lunar Omen

After a considerable interval, during which Nick held the girl tightly and silently in his arms, he released her, sat with his head resting on his cupped palms in an attitude of deep study. Pat, beside him, fell mechanically to repinning the throat of her frock, which had opened during the moments of the embrace. He rose to his feet, pacing nervously before her.

"It isn't a thing to do on the impulse of a moment, Pat," he muttered, pausing at her side. "You must see that."

"It isn't the impulse of a moment."

"But one doesn't abandon everything, the whole world, so easily, Honey. One doesn't cast away a last hope, however forlorn a hope it may be!"

"Is there a hope, Nick?" she asked gently. "Is there a chance left to us?"

"I don't know!" His voice held an increasing tenseness. "Before God—I—don't know!"

"If there's a chance, the very slightest shadow of the specter of a chance, we'll take it, won't we? Because the other way is always open to us, Nick."

"Yes. It's always open."

"But we won't take that chance," she continued defiantly, "if it involves my losing you, Honey. I meant what I said, Nick: I don't want to live without you!"

"What chance have we?" he queried somberly. "Those are our alternatives—life apart, death together."

"Then you know my choice!" she cried desperately. "Nick, Honey—don't let's draw it out in futile talking! I can't stand it!"

He moved his hand in a gesture of bewilderment and frustration, and turned away, striding nervously toward the window whose blind she had raised. He leaned his hands on the table, peering dejectedly out upon the street below.

"What time," he asked irrelevantly in a queer voice, "did the Doctor say the moon rose? Do you remember?"

"No," she said tensely. "Oh, Honey! Please—don't stand there with your back to me now, when I'm half crazy!"

"I'm thinking," he responded. "It rises a little earlier each night—or is it later? No matter; come here, Pat."

She rose wearily and joined him; he slipped his arm about her, and drew her against him.

"Look there," he said, indicating the night-dark vista beyond the window.

She looked out upon a dim-lit street or court, at the blind end of which the house was apparently situated. Far off at the open end, across a distant highway where even at this hour passed a constant stream of traffic, flashed a narrow strip of lake; and above it, rising gigantic from the coruscating moon-path, lifted the satellite. She watched the remote flickering of the waves as they tossed back the broken bits of the light strewn along the path. Then she turned puzzled eyes on her companion.

"That's Heaven," he said pointing a finger at the great flowing lunar disk. "There's a world that never caught the planet-cancer called Life, or if it ever suffered, it's cured. It's clean—burned clean by the sun and scoured clean by the airless zero of space. A dead world, and therefore not an unhappy one."

The girl stared at him without comprehension. She murmured, "I don't understand, Nick."

"Don't you, Pat?" He pointed again at the moon. "That's Heaven, the dead world, and this is Hell, the living one. Heaven and Hell swinging forever about their common center!" He gestured toward the sparkling moon-path on the water. "Look, Pat! The dead world strews flowers on the grave of the living one!"

Some of his bitter ecstasy caught the girl; she felt his somber mood of exaltation.

"I love you, Nick!" she whispered, pressing closely to him.

"What difference does it make—our actions?" he queried. "There's the omen, that lifeless globe in the sky. Where we go, all humanity now living will follow before a century, and in a million years, the human race as well! What if we go a year or a million years before the rest? Will it make any difference in the end?" He looked down at her. "All we've been valuing here is hope. To the devil with hope! Let's have peace instead!"

"I'm not afraid, Nick."

"Nor I. And if we go, he goes, and he's mortally afraid of death!"

"Can he—prevent you?"

"Not now! I'm the stronger now. For this time, I'm master."

He turned again to stare at the glowing satellite as it rose imperceptibly from the horizon. "There's nothing to regret," he murmured, "except one thing—the loss of beauty. Beauty like that—and like you, Pat. That's bitterly hard to foreswear!" He leaned forward toward the remote disk of the moon; he spoke as if addressing it, in tones so low that the girl, pressed close to him, had to quiet the sound of her own breath to listen. He said:

 

"Long miles above cloud-bank and blast,

And many miles above the sea,

I watch you rise majestically

Feeling your chilly light at last—

Cold beauty in the way you cast

Split silver fragments on the waves,

As if this planet's life were past,

And all men peaceful in their graves."

 

Pat was silent for a moment as he paused, then she murmured a low phrase. "Oh, I love you, Nick!" she said.

"And I you, dear," he responded. "Have we decided anything? Are we—going through with it?"

"I've not faltered," she said soberly. "I meant it, Nick. Without you, life would be as empty as that airless void you speak of. I'm not afraid. What's there to be afraid of?"

"Only the transition, Pat. That and the unknown—but no situation could possibly be more terrible than our present one. It couldn't be! Oblivion, annihilation—they're preferable, aren't they?"

"Oh, yes! Nothing I can imagine could be other than a change for the better."

"Then let's face it!" His voice took on a note of determination. "I've thought to face it a dozen times before this, and each time I've hesitated. The hesitation of a coward, Pat."

"You're no coward, dear. It was that illusion of hope; that always weakens one. No one's strong who hasn't given up hope."

"Then," he repeated, "let's face it!"

"How, Nick?"

"My father has left us the means. There in the cabinet are a hundred deaths—swift ones, lingering ones, painful, and easy! I don't know one from the other; our choice must be blind." He strode over to the case, sending slivers of glass from the shattered front glistening along the floor. "I'd choose an easy one, Dear, if I knew, for your sake. Euthanasia!"

He stared hesitantly at the files of mysterious drugs with their incomprehensible labels.

Suddenly the scene appeared humorous to the girl, queerly funny, in some unnatural horrible fashion. Her nerves, overstrained for hours, were on the verge of breaking; without realization of it, she had come to the border of hysteria.

"Shopping for death!" she choked, trying to suppress the wild laughter that beat in her throat. "Which one's most suitable? Which one's most becoming? Which one"—an hysterical laughing sob shook her—"will wear the longest?"

He turned, gazing at her with an illogical concern in his face.

"What's the difference?" she cried wildly. "I don't care—painful or pleasant, it all ends in the same grave! Close your eyes and choose!"

Suddenly he was holding her in his arms again, and she was sobbing, clinging to him frantically. She was miserably unstrung; her body shook under the impact of her gasping breath. Then gradually, she quieted, and was silent against him.

"We've been mad!" he murmured. "It's been an insane idea—for me to inflict this on you, Pat. Do you think I could consider the destruction of your beauty, Dear? I've been lying to myself, stifling my judgment with poetic imagery, when all the while it was just that I'm afraid to face the thing alone!"

"No," she murmured, burying her face against his shoulder. "I'm the coward, Nick. I'm the one that's frightened, and I'm the one that broke down! It's just been—too much, this evening; I'm all right now."

"But we'll not go through with this, Pat!"

"But we will! It's better than life without you, Dear. We've argued and argued, and at last forgotten the one truth, the one thing I'll never retract: I can't face living without you, Nick! I can't!"

He brushed his hand wearily before his eyes. "Back at the starting point," he muttered. "All right, Honey. So be it!"

He strode again to the cabinet. "Corrosive sublimate," he murmured. "Cyanide of Potassium. They're both deadly, but I think the second is rapid, and therefore less painful. Cyanide let it be!"

He extracted two small beakers from the glassware on the shelf. He filled them with water from a carafe on the table, and, while the girl watched him with fascinated eyes, he deliberately tilted a spoonful or so of white crystals into each of them. The mixture swirled a moment, then settled clear and colorless, and the crystals began to shrink as they passed swiftly into solution.

"There it is," he announced grimly. "There's peace, oblivion, forgetfulness, and annihilation for you, for me, and—for him! Beyond all doubt, the logical course for us, isn't it? Do we take it?"

"Please," she said faintly. "Kiss me first, Honey. Isn't that the proper course for lovers in this situation?" She felt a faint touch of astonishment at her own irony; the circumstances had ceased to have any reality to her, and had become merely a dramatic sequence like the happenings in a play.

He gathered her again into his arms and pressed his lips to hers. It was a long, tender, wistful kiss; when at last it ended, Pat found her eyes again filled with tears, but not this time the tears of hysteria.

"Nick!" she murmured. "Nick, darling!"

He gave her a deep, somber, but very tender smile, and reached for one of the deadly beakers, "To another meeting!" he said as his fingers closed on it.

Suddenly, amazingly, the strident ring of a doorbell sounded, the more surprising since they had all but forgotten the existence of a world about them. Interruption! It meant only the going through once more of all that they had just passed.

"Drink it!" exclaimed Pat impulsively, seizing the remaining beaker.

 

29. Scopolamine for Satan

The glass was struck from Pat's hand, and the water-clear contents streamed into pools and darkening blots over the table and its litter of papers. She stared unseeingly at the mess, without realizing that it was Nick who had dashed the draught from her very lips. She felt neither anger nor relief, but only a numbness, and a sense of anti-climax. Somewhere below the bell was ringing again, and a door was resounding to violent blows, but she only continued her bewildered, questioning gaze.

"I can't let you, Pat!" he muttered, answering her unspoken query.

"But Nick—why?"

"There's somebody at the door, isn't there? Mustn't we find out who?"

"What difference can it make?" she asked wearily.

"I don't know. I want to find out."

"It's that illusion of hope again," she murmured. "That's all it is, Nick—and it means now that it's all to do over again! The whole thing, from the beginning—and we were so near—the end!"

"I know," he said miserably. "I know all that, but—" He paused as the insistent racket below was redoubled. "I'm going to answer that bell," he ended.

He moved away from her, vanishing through the room's single door. She watched his disappearance without moving, but no sooner had he passed from sight than a curious feeling of fear oppressed her. She cast off the numbness and languor, and darted after him into the darkness of the hall.

"Nick!" she called. Somewhere ahead a light flashed on; she saw the well of a stair-case, and heard his footsteps descending. She followed in frantic haste, gaining the top step just as the pounding below ceased. She heard the click of the door, and paused suddenly at the sound of a familiar voice.

"Where's Pat?" The words drifted up in low, rumbling, ominous tones.

"Dr. Carl!" she shrieked. She ran swiftly down the stairs to Nick's side, where he stood facing the great figure of the Doctor. "Dr. Carl! How'd you find me?"

The newcomer gave her a long, narrow-eyed, speculative survey. "I spent nearly the whole night doing it," he growled at last. "It took me hours to locate Mueller and get this address from him." He stepped forward, taking the girl's arm. "Come on!" he said gruffly, without a glance at Nick standing silently beside her. "I'm taking you home!"

She held back. "But why?"

"Why? Because I don't like the company you keep. Is that reason enough?"

She still resisted his insistent tug. "Nick hasn't done anything," she said defiantly, with a side glance at the youth's flushed, unhappy features.

"He hasn't? Look at yourself, girl! Look at your clothes, and your forehead! What's more, I saw enough from my window; I saw him bundle you into that car!" His eyes were flashing angrily, and his grip on her arm tightened, while his free hand clenched into an enormous fist.

"That wasn't Nick!"

"No. It was your devil, I suppose!" said Horker sarcastically. "Anyway, Pat, you're coming with me before I do violence to what remains of your devil!"

Nick spoke for the first time since the Doctor's entrance. "Please do, Pat," he said softly. "Please go with him."

"I won't!" she snapped. The sudden shifts of situation during the long hours of that terrible evening were irritating her. She had alternated so rapidly between horror and hope and despair that her frayed nerves had seized now at the same reality of anger.

Her mind, so long overstrained, was now deliberately forgetting her swing from the pit of terror to the verge of death. "You come up like a hero to the rescue!" she taunted the doctor. "Hairbreadth Horker!"

"You little fool!" growled the Doctor. "A fine reception, after losing a night's sleep! I'll drag you home, if I have to!" He moved ponderously toward the door; she gave a violent wrench and freed her arm from his grasp.

"If you can, you mean!" she jeered. She looked at his exasperated face, and suddenly, with one of her abrupt changes of mood, she softened. "Dr. Carl, Honey," she said in apologetic tones, "I'm sorry. You're very sweet, and I'm really grateful, but I can't leave Nick now." Her eyes turned troubled. "Not now."

"Why, Pat?" Mollified by the change in her mien, his voice rumbled in sympathetic notes.

"I can't," she repeated. "It's—it's getting worse."

"Bah!"

"So it's 'Bah'!" she flared. "Well, if you're so contemptuous of the thing, why don't you cure it? What good did your psychoanalysis do? You don't even know what it is!"

"What do you expect?" roared the Doctor. "Can I diagnose it by absent treatment? I haven't had a chance to see the condition active yet!"

"All right!" said Pat, her strained nerves driving her to impatience. "You're here and Nick's here! Go on with your diagnosis; get it over with, and let's see what you can do. You ought at least to be able to name the condition—the outstanding authority in the Middle West on neural and mental pathology!" Her tone was sardonic.

"Listen, Pat," said Horker with exaggerated patience, in the manner of one addressing a stupid child, "I've explained before that I can't get at the root of a mental aberration when the subject's as unstrung as your young man here seems to be. Psychoanalysis just won't work unless the subject is calm, composed, and not in a nervous state. Can you comprehend that?"

"Just dimly!" she snapped. "You ought to know another way—you, the outstanding authority—"

"Be still!" he interrupted gruffly. "Of course I know another way, if I wanted to drag all of us back to my office, where I have the equipment!—which I won't do tonight," he finished grimly.

"Then do it here."

"I haven't what I need."

"There's everything upstairs," said Pat. "It's all there, all Nick's father's equipment."

"Not tonight! That's final."

The girl's manner changed again. She turned troubled, imploring eyes on Horker. "Dr. Carl," she said plaintively, "I can't leave Nick now." She seized the arm of the silent, dejected youth, who had been standing passively by. "I can't leave him, really. I'd not be sure of seeing him again, ever. Please, Dr. Carl!"

"If these frenzies of yours," rumbled Horker, "are so violent and malicious, you ought to be confined. Do you know that, young man?"

"Yes, sir," mumbled Nick wretchedly.

"And I've thought of it," continued the Doctor. "I've thought of it!"

"Please!" cried Pat imploringly. "Won't you try, Dr. Carl?"

"The devil!" he growled. "All right, then."

He followed the girl up the stairs, while Nick trailed disconsolately behind. She led him back into the chamber they had quitted, where a curious odor of peach pits seemed to scent the air. Horker sniffed suspiciously, then seized the remaining beaker, raising it cautiously to his nostrils.

"Damnation!" he exploded. "Prussic acid—or cyanide! What in—" He caught sight of Pat's tragic eyes, and suddenly replaced the container. "Pat!" he groaned. "Pat, Honey!" He drew her into the circle of his great arm. "I'll help you, dear! All I can, with all my heart, since it means that much to you!" He groaned again under his breath. "Oh, my God!"

He held her a moment, patting her tousled black head with his massive, delicate fingered hand. Then he released her, turning to Nick.

"This the stuff?" he asked, brusquely, indicating the cabinet of bottles, with its splintered front.

Nick nodded. Pat sank to the chair beside the table and watched Horker as he scanned the array of containers. He pulled out a tiny wooden case and snapped it open to reveal a number of steel needles that glinted brightly in the yellow light. He grunted in satisfaction and continued his inspection.

"Atropine," he muttered, reading the labeled boxes. "Cocaine, daturine, hyoscine, hyoscyamine—won't do!"

"What do you need?" the girl queried faintly.

"A mild hypnotic," said the Doctor abstractedly, still searching. "Pretty good substitutes for psychoanalysis—certain drugs. Dulls the conscious mind, but not to complete unconsciousness. Good means of getting at the subconscious. See?"

"Sort of," said Pat. "If it only works!"

"Oh, it'll work if we can find—ah!" He seized a tiny cardboard box. "Scopolamine! This'll do the work."

He extracted a tiny glassy something from one or other of the boxes he held, and frowned down at it. He seized the carafe of water, plunged something pointed and shiny into it.

"Antiseptic," he muttered thoughtfully. He seized a brown bottle from the case, held it toward the light, and shook it. "Peroxide's gone flat," he growled. "Nothing but water."

He pulled a silver cigar-lighter from his pocket and snapped a yellow flame to it. He passed the point of the hypodermic rapidly back and forth through the little spear of fire. Finally he turned to Nick.

"Take off your coat," he ordered. "Roll up your shirt sleeve—the left one. And sit over there." He indicated the couch along the wall.

The youth obeyed without a word. The only indication of emotion was a long, miserable, wistful look at Pat as he seated himself impassively on the spot that the girl had so recently occupied.

"Now!" said the Doctor briskly, approaching the youth. "This will make you drowsy, sleepy. That's all it'll do. Don't fight the effect. Just relax, let the thing take its course, and I'll see what I can get out of you."

Pat gasped and Nick winced as he drove the needle into the bared arm.

"So!" he said. "Now relax. Lean back and close your eyes."

He stepped to the door, dragged in a battered chair from the hall, and occupied it. He sat beside Pat, watching the pale features of the youth, who sat quietly with closed eyes, breathing slowly, heavily.

"Long enough," muttered Horker. He raised his voice. "Can you hear me?" he called to the motionless figure on the couch. There was no response, but Pat fancied she saw a slight change in Nick's expression.

"Can you hear me?" repeated Horker in louder tones.

"Yes, I can hear you," came in icy tones from the figure on the couch. Pat started violently as the voice sounded. The eyes opened, and she saw in sudden terror the ruddy orbs of the demon!

Wednesday, 17 January 2024

Consacretion to the Sacred Heart of Jesus (in Portuguese)


Rezar esta oração pelo menos três vezes por dia para proteção contra Satanás e os espíritos malignos, e para honrar e glorificar a Santíssima Trindade:

Esta oração é acompanhada de Sinais da Cruz, que são tão importantes quanto as palavras, pois estamos nos selando no Precioso Sangue de Jesus e assinalando-nos com o sinal da vitória de Jesus sobre o pecado e a morte.


Sagrado Coração de Jesus, eu vos consagro minha mente († na testa), minhas palavras († nos lábios), meu corpo († no centro do peito), meu coração († abaixo do ombro esquerdo), e minha alma († abaixo do ombro direito), para que vossa vontade seja feita através de mim neste dia.

Amém.