Tuesday, 30 January 2024

Tuesday's Serial: “Convivio” by Dante Alighieri (in Italian) - XII

 

Capitolo XIV.

1. Riprovato l'altrui errore quanto è in quella parte che a le ricchezze s'appoggiava, [seguita che si riprovi quanto è] in quella parte, che tempo diceva essere cagione di nobilitade, dicendo antica ricchezza. E questa riprovagione si fa in quella parte che comincia: Nè voglion che vil uom gentil divegna. 2. E in prima si ripruova ciò per una ragione di costoro medesimi che così errano; poi, a maggiore loro confusione, questa loro ragione anche si distrugge: e ciò si fa quando dice: Ancor, segue di ciò che innanzi ho messo. Ultimamente conchiude manifesto essere lo loro errore, e però essere tempo d'intendere a la veritade: e ciò si fa quando dice: Per che a 'ntelletti sani.

3. Dico adunque: Nè voglion che vil uom gentil divegna. Dove è da sapere che oppinione di questi erranti è che uomo prima villano mai gentile uomo dicer non si possa; nè uomo che figlio sia di villano similemente dicere mai non si possa gentile. E ciò rompe la loro sentenza medesima, quando dicono che tempo si richiede a nobilitade, ponendo questo vocabulo 'antico'; però ch'è impossibile per processo di tempo venire a la generazione di nobilitade per questa loro ragione che detta è, la quale toglie via che villano uomo mai possa esser gentile per opera che faccia, o per alcuno accidente, e toglie via la mutazione di villano padre in gentile figlio. 4. Chè se lo figlio del villano è pur villano, e lo figlio fia pur figlio di villano e così fia anche villano, e anche suo figlio, e così sempre, e mai non s'avrà a trovare là dove nobilitade per processo di tempo si cominci. 5. E se l'avversario, volendosi difendere, dicesse che la nobilitade si comincerà in quel tempo che si dimenticherà lo basso stato de li antecessori, rispondo che ciò fia contra loro medesimi, che pur di necessitade quivi sarà transmutazione di viltade in gentilezza, d'un uomo in altro o di padre a figlio, ch'è contra ciò che essi pongono.

6. E se l'avversario pertinacemente si difendesse, dicendo che bene vogliono questa transmutazione potersi fare quando lo basso stato de li antecessori corre in oblivione, avvegna che 'l testo ciò non curi, degno è che la chiosa a ciò risponda. E però rispondo così: che di ciò che dicono seguitano quattro grandissimi inconvenienti, sì che buona ragione essere non può. 7. L'uno si è che quanto la natura umana fosse migliore tanto sarebbe più malagevole e più tarda generazione di gentilezza; che è massimo inconveniente, con ciò sia cosa, com'ho no[t]ato, che la cosa quanto è migliore tanto è più cagione di bene; e nobilitade intra li beni sia commemorata. 8. E che ciò fosse così si pruova. Se la gentilezza o ver nobilitade, che per una cosa intendo, si generasse per oblivione, più tosto sarebbe generata la nobilitade quanto li uomini fossero più smemorati, [chè] tanto più tosto ogni oblivione verrebbe. Dunque, quanto li uomini smemorati più fossero, più tosto sarebbero nobili; e per contrario, quanto con più buona memoria, tanto più tardi nobili si farebbero.

9. Lo secondo si è, che 'n nulla cosa, fuori de li uomini, questa distinzione si potrebbe fare, cioè nobile o vile; che è molto inconveniente, con ciò sia cosa che in ciascuna spezie di cose veggiamo l'imagine di nobilitade e di viltade: onde spesse volte diciamo uno nobile cavallo e uno vile, e uno nobile falcone e uno vile, e una nobile margherita e una vile. 10. E che non si potesse fare questa distinzione, così si pruova. Se l'oblivione de li bassi antecessori è cagione di nobilitade, e là ovunque bassezza d'antecessori mai non fu, non può essere l'oblivione di quelli - con ciò sia cosa che l'oblivione sia corruzione di memoria, e in questi altri animali e piante e minere bassezza e altezza non si noti, però che in uno sono naturati solamente ed iguale stato -, in loro generazione di nobilitade essere non può; e così nè viltade, con ciò sia cosa che l'una e l'altra si guardi come abito e privazione, che sono ad uno medesimo subietto possibili; e però in loro de l'una e de l'altra non potrebbe essere distinzione. 11. E se l'avversario volesse dicere che ne l'altre cose nobilità s'intende per la bontà de la cosa, ma ne li uomini s'intende perchè di sua bassa condizione non è memoria, rispondere si vorrebbe non con le parole ma col coltello a tanta bestialitade, quanta è dare a la nobilitade de l'altre cose bontade per cagione, e a quella de li uomini principio di dimenticanza.

12. Lo terzo si è che molte volte verrebbe prima lo generato che lo generante; che è del tutto impossibile; e ciò si può così mostrare. Pognamo che Gherardo da Cammino fosse stato nepote del più vile villano che mai bevesse del Sile o del Cagnano, e la oblivione ancora non fosse del suo avolo venuta: chi sarà oso di dire che Gherardo da Cammino fosse vile uomo? e chi non parlerà meco, dicendo quello essere stato nobile? Certo nullo, quanto vuole sia presuntuoso, però che egli fu, e fia sempre la sua memoria. 13. E se la oblivione del suo basso antecessore non fosse venuta, sì come si suppone, ed ello fosse grande di nobilitade e la nobilitade in lui si vedesse così apertamente come aperta si vede, prima sarebbe stata in lui che 'l generante suo fosse stato: e questo è massimamente impossibile.

14. Lo quarto si è che tale uomo sarebbe tenuto nobile morto che non fu nobile vivo; che più inconveniente essere non potrebbe; e ciò così si mostra. Pognamo che ne la etade di Dardano de' suoi antecessori bassi fosse memoria, e pognamo che ne la etade di Laomedonte questa memoria fosse disfatta, e venuta l'oblivione. Secondo l'oppinione avversa, Laomedonte fu gentile e Dardano fu villano in loro vita. Noi, a li quali la memoria de li loro anticessori, dico di là da Dardano, [anche non è rimasa, dir dovremmo che Dardano] vivendo fosse villano e morto sia nobile. 15. E non è contro a ciò, che si dice Dardano esser stato figlio di Giove, chè ciò è favola, de la quale, filosoficamente disputando, curare non si dee; e pur se volesse a la favola fermare l'avversario, di certo quello che la favola cuopre disfà tutte le sue ragioni. E così è manifesto, la ragione che ponea la oblivione causa di nobilitade essere falsa ed erronea.

 

Capitolo XV.

1. Da poi che, per la loro medesima sentenza, la canzone ha riprovato tempo non richiedersi a nobilitade, incontanente seguita a confondere la premessa loro oppinione, acciò che di loro false ragioni nulla ruggine rimagna ne la mente che a la verità sia disposta; e questo fa quando dice: Ancor, segue di ciò che innanzi ho messo. 2. Ove è da sapere che, se uomo non si può fare di villano gentile o di vile padre non può nascere gentile figlio, sì come messo è dinanzi per loro oppinione, che de li due inconvenienti l'uno seguire conviene: l'uno sì è che nulla nobilitade sia; l'altro sì è che 'l mondo sempre sia stato con più uomini, sì che da uno solo la umana generazione discesa non sia. 3. E ciò si può mostrare. Se nobilitade non si genera di nuovo, sì come più volte è detto che la loro oppinione vuole (non generandosi di vile uomo in lui medesimo, nè di vile padre in figlio), sempre è l'uomo tale quale nasce, e tale nasce quale è lo padre; e così questo processo d'una condizione è venuto infino dal primo parente: per che tale quale fu lo primo generante, cioè Adamo, conviene essere tutta l'umana generazione, chè da lui a li moderni non si puote trovare per quella ragione alcuna transmutanza. 4. Dunque, se esso Adamo fu nobile, tutti siamo nobili, e se esso fu vile, tutti siamo vili; che non è altro che torre via la distinzione di queste condizioni, e così è torre via quelle. E questo dice, che di quello ch'e messo dinanzi seguita che siam tutti gentili o ver villani. 5. E se questo non è, [e] pur alcuna gente è da dire nobile e alcuna è da dir vile, di necessitade, da poi che la transmutazione di viltade in nobilitade è tolta via, conviene l'umana generazione da diversi principii essere discesa, cioè da uno nobile e da uno vile. E ciò dice la canzone, quando dice: O che non fosse ad uom cominciamento, cioè uno solo: non dice 'cominciamenti'. E questo è falsissimo appo lo Filosofo, appo la nostra Fede che mentire non puote, appo la legge e credenza antica de li Gentili. 6. Chè, avvegna che 'l Filosofo non pogna lo processo da uno primo uomo, pur vuole una sola essenza essere in tutti li uomini, la quale diversi principii avere non puote; e Plato vuole che tutti li uomini da una sola Idea dependano, e non da più, che è dare loro uno solo principio. E sanza dubbio forte riderebbe Aristotile udendo fare spezie due de l'umana generazione, sì come de li cavalli e de li asini; che, perdonimi Aristotile, asini ben si possono dire coloro che così pensano. 7. Che appo la nostra fede, la quale del tutto è da conservare, sia falsissimo, per Salomone si manifesta, che là dove distinzione fa di tutti li uomini a li animali bruti, chiama quelli tutti figli d'Adamo; e ciò fa quando dice: «Chi sa se li spiriti de li figliuoli d'Adamo vadano suso, e quelli de le bestie vadano giuso?». 8. E che appo li Gentili falso fosse, ecco la testimonianza d'Ovidio nel primo del suo Metamorfoseos, dove tratta la mondiale constituzione secondo la credenza pagana, o vero de li Gentili, dicendo: «Nato è l'uomo» - non disse 'li uomini'; disse 'nato', e 'l'uomo' - «o vero che questo l'artefice de le cose di seme divino fece, o vero che la recente terra, di poco dipartita dal nobile corpo sottile e diafano, li semi del cognato cielo ritenea. La quale, mista con l'acqua del fiume, lo figlio di Iapeto, cioè Prometeus, compuose in imagine de li Dei, che tutto governano». Dove manifestamente pone lo primo uomo uno solo essere stato. 9. E però dice la canzone: Ma ciò io non consento, cioè che cominciamento ad uomo non fosse. E soggiugne la canzone: Ned ellino altressì, se son cristiani: e dice 'cristiani' e non 'filosofi' o vero 'Gentili', [de li quali] le sentenze anco [non] sono in contro, però che la cristiana sentenza è di maggiore vigore, ed è rompitrice d'ogni calunnia, mercè de la somma luce del cielo che quella allumina.

10. Poi quando dico: Per che a 'ntelletti sani È manifesto i lor diri esser vani, conchiudo lo loro errore essere confuso, e dico che tempo è d'aprire li occhi a la veritade; questo dice quando dico: E dicer voglio omai, sì com'io sento. Dico adunque che, per quello che detto è, è manifesto a li sani intelletti che i detti di costoro sono vani, cioè sanza midolla di veritade. E dico sani non sanza cagione. 11. Onde è da sapere che lo nostro intelletto si può dir sano e infermo: e dico intelletto per la nobile parte de l'anima nostra, che con uno vocabulo 'mente' si può chiamare. Sano dire si può, quando per malizia d'animo o di corpo impedito non è ne la sua operazione; che è conoscere quello che le cose sono, sì come vuole Aristotile nel terzo de l'Anima. 12. Chè, secondo la malizia de l'anima, tre orribili infermitadi ne la mente de li uomini ho vedute. L'una è di naturale [jat]tanza causata: chè sono molti tanto presuntuosi, che si credono tutto sapere, e per questo le non certe cose affermano per certe; lo qual vizio Tullio massimamente abomina nel primo de li Offici e Tommaso nel suo Contra-li-Gentili dicendo: «Sono molti tanto di suo ingegno presuntuosi, che credono col suo intelletto poter misurare tutte le cose, estimando tutto vero quello che a loro pare, falso quello che a loro non pare». 13. E quinci nasce che mai a dottrina non vegnono; credendo da sè sufficientemente essere dottrinati, mai non domandano, mai non ascoltano, disiano essere domandati e, anzi la domandagione compiuta, male rispondono. E per costoro dice Salomone ne li Proverbii: «Vedesti l'uomo ratto a rispondere? di lui stoltezza, più che correzione, è da [sperare]». 14. L'altra è di naturale pusillanimitade causata: chè sono molti tanto vilmente ostinati, che non possono credere che nè per loro nè per altrui si possano le cose sapere; e questi cotali mai per loro non cercano nè ragionano, mai quello che altri dice non curano. E contra costoro Aristotile parla nel primo de l'Etica, dicendo quelli essere insufficienti uditori de la morale filosofia. Costoro sempre come bestie in grossezza vivono, d'ogni dottrina disperati. 15. La terza è da levitade di natura causata: chè sono molti di sì lieve fantasia che in tutte le loro ragioni transvanno, e anzi che silogizzino hanno conchiuso, e di quella conclusione vanno transvolando ne l'altra, e pare loro sottilissimamente argomentare, e non si muovono da neuno principio, e nulla cosa veramente veggiono vera nel loro imaginare. 16. E di costoro dice lo Filosofo che non è da curare nè da avere con essi faccenda, dicendo nel primo de la Fisica, che «contra quelli che niega li principii disputare non si conviene». E di questi cotali sono molti idioti che non saprebbero l'a. b. c., e vorrebbero disputare in geometria, in astrologia e in fisica.

17. E secondo malizia, o vero difetto di corpo, può essere la mente non sana: quando per difetto d'alcuno principio da la nativitade, sì come [ne'] mentecatti; quando per l'alterazione del cerebro, sì come sono frenetici. E di questa infertade de la mente intende la legge, quando lo Inforzato dice: «In colui che fa testamento, di quel tempo nel quale lo testamento fa, sanitade di mente, non di corpo, è a domandare». Per che a quelli intelletti che per malizia d'animo o di corpo infermi non sono, liberi, espediti e sani a la luce de la veritade, dico essere manifesto l'oppinione de la gente, che detto è, essere vana, cioè sanza valore.

18. Appresso soggiugne, che io così li giudico falsi e vani, e così li ripruovo; e ciò si fa quando si dice: E io così per falsi li riprovo. E appresso dico che da venire è a la veritade mostrare; e dico che mostrare [è] quello, cioè che cosa è gentilezza, e come si può conoscere l'uomo in cui essa è. E ciò dico quivi: E dicer voglio omai, sì com'io sento.

 

Capitolo XVI.

1. «Lo rege si letificherà in Dio, e saranno lodati tutti quelli che giurano in lui, però che serrata è la bocca di coloro che parlano le inique cose». Queste parole posso io qui veramente proponere; però che ciascuno vero rege dee massimamente amare la veritade. Ond'è scritto nel libro di Sapienza: «Amate lo lume di sapienza, voi che siete dinanzi a li populi»; e lume di sapienza è essa veritade. Dico adunque che però si rallegrerà ogni rege che riprovata è la falsissima e dannosissima oppinione de li malvagi e ingannati uomini che di nobilitade hanno infino a ora iniquamente parlato.

2. Convienesi procedere al trattato de la veritade, secondo la divisione fatta nel terzo capitolo di questo trattato. Questa seconda parte adunque, che comincia: Dico ch'ogni vertù principalmente, intende diterminare d'essa nobilitade secondo la veritade; e partesi questa parte in due: che ne la prima s'intende mostrare che è questa nobilitade; ne la seconda s'intende mostrare come conoscere si puote colui dov'ella è: e comincia questa parte seconda: L'anima cui adorna esta bontate. 3. La prima parte ha due parti ancora: che ne la prima si cercano certe cose che sono mestiere a veder la diffinizione di nobilitade; ne la seconda si cerca de la sua diffinizione: e comincia questa seconda parte: È gentilezza dovunqu'è vertute.

4. A perfettamente entrare per lo trattato è prima da vedere due cose: l'una, che per questo vocabulo 'nobilitade' s'intende, solo semplicemente considerato; l'altra è per che via sia da camminare a cercare la prenominata diffinizione. Dico adunque che, se volemo riguardo avere de la comune consuetudine di parlare, per questo vocabulo 'nobilitade' s'intende perfezione di propria natura in ciascuna cosa. 5. Onde non pur de l'uomo è predicata, ma eziandio di tutte cose - chè l'uomo chiama nobile pietra, nobile pianta, nobile cavallo, nobile falcone - qualunque in sua natura si vede essere perfetta. E però dice Salomone ne lo Ecclesiastes: «Beata la terra lo cui re è nobile», che non è altro a dire, se non lo cui rege è perfetto, secondo la perfezione de l'animo e del corpo; e così manifesta per quello che dice dinanzi quando dice: «Guai a te, terra, lo cui rege è pargolo», cioè non perfetto uomo: e non è pargolo uomo pur per etade, ma per costumi disordinati e per difetto di vita, sì come n'ammaestra lo Filosofo nel primo de l'Etica. 6. Bene sono alquanti folli che credono che per questo vocabulo 'nobile' s'intenda 'essere da molti nominato e conosciuto', e dicono che viene da uno verbo che sta per conoscere, cioè 'nosco'. E questo è falsissimo; chè, se ciò fosse, quali cose più fossero nomate e conosciute in loro genere, più sarebbero in loro genere nobili: e così la guglia di San Piero sarebbe la più nobile pietra del mondo; e Asdente, lo calzolaio da Parma, sarebbe più nobile che alcuno suo cittadino; e Albuino de la Scala sarebbe più nobile che Guido da Castello di Reggio: che ciascuna di queste cose è falsissima. E però è falsissimo che 'nobile' vegna da 'conoscere', ma viene da 'non vile'; onde 'nobile' è quasi 'non vile'. 7. Questa perfezione intende lo Filosofo nel settimo de la Fisica quando dice: «Ciascuna cosa è massimamente perfetta quando tocca e aggiugne la sua virtude propria, e allora è massimamente secondo sua natura; onde allora lo circulo si può dicere perfetto quando veramente è circulo», cioè quando aggiugne la sua propria virtude; e allora è in tutta sua natura, e allora si può dire nobile circulo. 8. E questo è quando in esso è uno punto lo quale equalmente distante sia da la circunferenza, sua virtute part[icular]e; per[ò] lo circulo che ha figura d'uovo non è nobile, nè quello che ha figura di presso che piena luna, però che non è in quello sua natura perfetta. E così manifestamente vedere si può che generalmente questo vocabulo, cioè nobilitade, dice in tutte cose perfezione di loro natura: e questo è quello che primamente si cerca, per meglio entrare nel trattato de la parte che esponere s'intende.

9. Secondamente è da vedere come da camminare è a trovare la diffinizione de l'umana nobilitade, a la quale intende lo presente processo. Dico adunque che, con ciò sia cosa che in quelle cose che sono d'una spezie, sì come sono tutti li uomini, non si può per li principii essenziali la loro ottima perfezione diffinire, conviensi quella e diffinire e conoscere per li loro effetti. 10. E però si legge nel Vangelio di santo Matteo - quando dice Cristo: «Guardatevi da li falsi profeti» -: «A li frutti loro conoscerete quelli». E per lo cammino diritto è da vedere, questa diffinizione che cercando si vae, per li frutti: che sono morali vertù e intellettuali, de le quali essa nostra nobilitade è seme, sì come ne la sua diffinizione sarà pienamente manifesto. E queste sono quelle due cose che vedere si convenia prima che ad altre si procedesse, sì come in questo capitolo di sopra si dice.

 

Capitolo XVII.

1. Appresso che vedute sono quelle due cose che parevano utili a vedere prima che sopra lo testo si procedesse, ad esso esponere è da procedere. E dice e comincia adunque: Dico ch'ogni vertù principalmente Vien da una radice: Vertute, dico, che fa l'uom felice In sua operazione. E soggiungo: Questo è, secondo che l'Etica dice, Un abito eligente, ponendo tutta la diffinizione de la morale virtù, secondo che nel secondo de l'Etica è per lo Filosofo diffinito. 2. In che due cose principalmente s'intende: l'una è che ogni vertù vegna d'uno principio; l'altra sì è che queste ogni vertù siano le vertù morali, di cui si parla; e ciò si manifesta quando dice: Questo è, secondo che l'Etica dice. Dove è da sapere che propiissimi nostri frutti sono le morali vertudi, però che da ogni canto sono in nostra podestade. 3. E queste diversamente da diversi filosofi sono distinte e numerate; ma però che in quella parte dove aperse la bocca la divina sentenza d'Aristotile da lasciare mi pare ogni altrui sentenza, volendo dire quali queste sono, brevemente secondo la sua sentenza trapasserò di quelle ragionando.

4. Queste sono undici vertudi dal detto Filosofo nomate. La prima si chiama Fortezza, la quale è arme e freno a moderare l'audacia e la timiditate nostra, ne le cose che sono corr[u]zione de la nostra vita. La seconda è Temperanza, che è regola e freno de la nostra gulositade e de la nostra soperchievole astinenza ne le cose che conservano la nostra vita. La terza si è Liberalitade, la quale è moderatrice del nostro dare e del nostro ricevere le cose temporali. 5. La quarta si è Magnificenza, la quale è moderatrice de le grandi spese, quelle facendo e sostenendo a certo termine. La quinta si è Magnanimitade, la quale è moderatrice e acquistatrice de' grandi onori e fama. La sesta si è Amativa d'onore, la quale è moderatrice e ordina noi a li onori di questo mondo. La settima si è Mansuetudine, la quale modera la nostra ira e la nostra troppa pazienza contra li nostri mali esteriori. 6. L'ottava si è Affabilitade, la quale fa noi ben convenire con li altri. La nona si è chiamata Veritade, la quale modera noi dal vantare noi oltre che siamo e da lo diminuire noi oltre che siamo, in nostro sermone. La decima si è chiamata Eutrapelia, la quale modera noi ne li sollazzi facendo, quelli usando debitamente. L'undecima si è Giustizia, la quale ordina noi ad amare e operare dirittura in tutte cose. 7. E ciascuna di queste vertudi ha due inimici collaterali, cioè vizii, uno in troppo e un altro in poco; e queste tutte sono li mezzi intra quelli, e nascono tutte da uno principio, cioè da l'abito de la nostra buona elezione: onde generalmente si può dicere di tutte che siano abito elettivo consistente nel mezzo. 8. E queste sono quelle che fanno l'uomo beato, o vero felice, ne la loro operazione, sì come dice lo Filosofo nel primo de l'Etica quando diffinisce la Felicitade, dicendo che «Felicitade è operazione secondo virtude in vita perfetta». Bene si pone Prudenza, cioè senno, per molti, essere morale virtude, ma Aristotile dinumera quella intra le intellettuali; avvegna che essa sia conduttrice de le morali virtù e mostri la via per ch'elle si compongono e sanza quella essere non possono.

9. Veramente è da sapere che noi potemo avere in questa vita due felicitadi, secondo due diversi cammini, buono e ottimo, che a ciò ne menano: l'una è la vita attiva, e l'altra la contemplativa; la quale, avvegna che per l'attiva si pervegna, come detto è, a buona felicitade, ne mena ad ottima felicitade e beatitudine, secondo che pruova lo Filosofo nel decimo de l'Etica. 10. E Cristo l'afferma con la sua bocca, nel Vangelio di Luca, parlando a Marta, e rispondendo a quella: «Marta, Marta, sollicita se' e turbiti intorno a molte cose: certamente una cosa è necessaria», cioè 'quello che fai'. E soggiugne: «Maria ottima parte ha eletta, la quale non le sarà tolta». E Maria, secondo che dinanzi è scritto a queste parole del Vangelio, a' piedi di Cristo sedendo, nulla cura del ministerio de la casa mostrava; ma solamente le parole del Salvatore ascoltava. 11. Che se moralemente ciò volemo esponere, volse lo nostro Segnore in ciò mostrare che la contemplativa vita fosse ottima, tutto che buona fosse l'attiva: ciò è manifesto a chi ben vuole porre mente a le evangeliche parole. Potrebbe alcuno però dire, contra me argomentando: 'Poichè la felicitade de la vita contemplativa è più eccellente che quella de l'attiva, e l'una e l'altra possa essere e sia frutto e fine di nobilitade, perchè non anzi si procedette per la via de le virtù intellettuali che de le morali?' 12. A ciò si può brievemente rispondere che in ciascuna dottrina si dee avere rispetto a la facultà del discente, e per quella via menarlo che più a lui sia lieve. Onde, perciò che le virtù morali paiano essere e siano più comuni e più sapute e più richieste che l'altre e [im]itate ne lo aspetto di fuori, utile e convenevole fu più per quello cammino procedere che per l'altro; chè così bene [non] si verrebbe a la conoscenza de le api per lo frutto de la cera ragionando come per lo frutto del mele, tutto che l'uno e l'altro da loro procede.

 

Capitolo XVIII.

1. Nel precedente capitolo è diterminato come ogni vertù morale viene da uno principio, cioè buona e abituale elezione; e ciò importa lo testo presente infino a quella parte che comincia: Dico che nobiltate in sua ragione. 2. In questa parte adunque si procede per via probabile a sapere che ogni sopra detta virtude, singularmente o ver generalmente presa, proceda da nobilitade sì come effetto da sua cagione. E fondasi sopra una proposizione filosofica, che dice che quando due cose si truovano convenire in una, che ambo queste si deono riducere ad alcuno terzo, o vero l'una a l'altra, sì come effetto a cagione; però che una cosa avuta prima e per sè non può essere se non da uno: e se quelle non fossero ambedue effetto d'un terzo, o vero l'una de l'altra, ambedue avrebbero quella cosa prima e per sè, ch'è impossibile. 3. Dice adunque che nobilitade e vertute cotale, cioè morale, convegnono in questo, che l'una e l'altra importa loda di colui di cui si dice; e dico ciò quando dice: Per che in medesmo detto Convegnono ambedue, ch'en d'uno effetto, cioè lodare e rendere pregiato colui cui esser si dicono. E poi conchiude prendendo la vertude de la sopra notata proposizione, e dice che però conviene l'una procedere da l'altra, o vero ambe da un terzo; e soggiunge che più tosto è da presummere l'una venire da l'altra, che ambe da terzo, s'elli appare che l'una vaglia quanto l'altra, e più ancora; e ciò dice: Ma se l'una val ciò che l'altra vale. 4. Ove è da sapere che qui non si procede per necessaria dimostrazione, sì come sarebbe a dire, se lo freddo è generativo de l'acqua, e noi vedemo li nuvoli [generare acqua, che lo freddo è generativo de li nuvoli]; sì di bella e convenevole induzione, che se in noi sono più cose laudabili, [e] in noi è lo principio de le nostre lodi, ragionevole è queste a questo principio riducere; e quello che comprende più cose, più ragionevolemente si dee dire principio di quelle, che quelle principio di lui. 5. Chè lo piè de l'albero, che tutti li altri rami comprende, si dee principio dire e cagione di quelli, e non quelli di lui; e così nobilitade, [che] comprende ogni vertude, sì come cagione effetto comprende, [e] molte altre nostre operazioni laudabili, si dee avere per tale, che la vertude sia da ridurre ad essa prima che ad altro terzo che in noi sia.

6. Ultimamente dice, che quello ch'è detto (cioè, che ogni vertù morale vegna da una radice, e che vertù cotale e nobilitade convegnano in una cosa, come detto è di sopra; e che però si convegna l'una reducere a l'altra, o vero ambe ad uno terzo; e che se l'una vale quello che l'altra e più, di quella [questa] proceda maggiormente che d'altro terzo), tutto sia per supposto, cioè ordito e apparecchiato a quello che per innanzi s'intende. E così termina questo verso e questa presente parte.

 

Capitolo XlX.

1. Poi che ne la precedente parte sono pertrattate certe cose e diterminate, ch'erano necessarie a vedere come diffinire si possa questa buona cosa di che si parla, procedere si conviene a la seguente parte, che comincia: È gentilezza dovunqu'è vertute. 2. E questa si vuole in due parti reducere: ne la prima si pruova certa cosa che dinanzi è toccata e lasciata non provata; ne la seconda, conchiudendo, si truova questa diffinizione che cercando si va. E comincia questa seconda parte: Dunque verrà, come dal nero il perso.

3. Ad evidenza de la prima parte, da reducere a memoria è che di sopra si dice che se nobilitade vale e si stende più che vertute, [vertute] più tosto procederà da essa. La qual cosa ora in questa parte pruova, cioè che nobilitade più si stenda; e rende essemplo del cielo, dicendo che dovunque è vertude, quivi è nobilitade. 4. E quivi si vuole sapere che, sì come scritto è in Ragione e per regola di Ragione si tiene, in quelle cose che per sè sono manifeste non è mestiere di pruova; e nulla n'è più manifesta che nobilitade essere dove è vertude, e ciascuna cosa volgarmente vedemo, in sua natura [virtuosa], nobile esser chiamata. 5. Dice dunque: Sì com'è 'l cielo dovunqu'è la stella, e non è questo vero e converso, cioè rivolto, che dovunque è cielo sia la stella, così è nobilitade dovunque è vertude, e non vertude dovunque nobilitade: e con bello e convenevole essemplo, chè veramente è cielo ne lo quale molte e diverse stelle rilucono. Riluce in essa le intellettuali e le morali virtudi; riluce in essa le buone disposizioni da natura date, cioè pietade e religione, e le laudabili passioni, cioè vergogna e misericordia e altre molte; riluce in essa le corporali bontadi, cioè bellezza, fortezza e quasi perpetua valitudine. 6. E tante sono le sue stelle, che [n]el cielo si stendono, che certo non è da maravigliare se molti e diversi frutti fanno ne la umana nobilitade; tante sono le nature e le potenze di quella, in una sotto una semplice sustanza comprese e adunate, ne le quali sì come in diversi rami fruttifica diversamente. Certo da dovvero ardisco a dire che la nobilitade umana, quanto è da la parte di molti suoi frutti, quella de l'angelo soperchia, tutto che l'angelica in sua unitade sia più divina. 7. Di questa nobilitade nostra, che in tanti e tali frutti fruttificava, s'accorse lo Salmista, quando fece quel Salmo che comincia: «Segnore nostro Iddio, quanto è ammirabile lo nome tuo ne l'universa terra!», là dove commenda l'uomo, quasi maravigliandosi del divino affetto in essa umana creatura, dicendo: «Che cosa è l'uomo, che tu, Dio, lo visiti? Tu l'hai fatto poco minore che li angeli, di gloria e d'onore l'hai coronato, e posto lui sopra l'opere de le mani tue». Veramente dunque bella e convenevole comparazione fu del cielo a l'umana nobilitade.

8. Poi quando dice: E noi in donna e in età novella, pruova ciò che dico, mostrando che la nobilitade si stenda in parte dove virtù non sia. E dice poi: vedem questa salute: e tocca nobilitade, che bene è vera salute, essere là dove è vergogna, cioè tema di disnoranza, sì come è ne le donne e ne li giovani, dove la vergogna è buona e laudabile; la qual vergogna non è virtù, ma certa passione buona. 9. E dice: E noi in donna e in età novella, cioè in giovani; però che, secondo che vuole lo Filosofo nel quarto de l'Etica, «vergogna non è laudabile nè sta bene ne li vecchi e ne li uomini studiosi», però che a loro si conviene di guardare da quelle cose che a vergogna li conducano. 10. A li giovani e a le donne non è tanto richesto di c[au]tela, e però in loro è laudabile la paura del disnore ricevere per la colpa; che da nobilitade viene, e nobilitade si puote credere e in loro chiamare, sì come viltade e ignobilitade la sfacciatezza. Onde buono e ottimo segno di nobilitade è ne li pargoli e imperfetti d'etade, quando dopo lo fallo nel viso loro vergogna si dipinge, che è allora frutto di vera nobilitade.

 

Capitolo XX.

1. Quando appresso seguita: Dunque verrà, come dal nero il perso, procede lo testo a la diffinizione di nobilitade, la qual si cerca, e per la quale si potrà vedere che è questa nobilitade di che tanta gente erroneamente parla. Dice dunque, conchiudendo da quello che dinanzi detto è: dunque ogni vertude, o vero il gener loro, cioè l'abito elettivo consistente nel mezzo, verrà da questa, cioè nobilitade. 2. E rende essemplo ne li colori, dicendo: sì come lo perso dal nero discende, così questa, cioè vertude, discende da nobilitade. Lo perso è uno colore misto di purpureo e di nero, ma vince lo nero, e da lui si dinomina; e così la vertù è una cosa mista di nobilitade e di passione; ma perchè la nobilitade vince in quella, è la vertù dinominata da essa, e appellata bontade. 3. Poi appresso argomenta, per quello che detto è, che nessuno, per poter dire: 'Io sono di cotale schiatta', non dee credere essere con essa, se questi frutti non sono in lui. E rende incontanente ragione, dicendo che quelli che hanno questa grazia, cioè questa divina cosa, sono quasi come dei, sanza macula di vizio; e ciò dare non può se non Iddio solo, appo cui non è scelta di persone, sì come le divine Scritture manifestano. 4. E non paia troppo alto dire ad alcuno, quando si dice: Ch'elli son quasi dei; chè, sì come di sopra nel settimo capitolo del terzo trattato si ragiona, così come uomini sono vilissimi e bestiali, così uomini sono nobilissimi e divini, e ciò pruova Aristotile nel settimo de l'Etica per lo testo d'Omero poeta. 5. Sì che non dica quelli de li Uberti di Fiorenza, nè quelli de li Visconti da Melano: 'Perch'io sono di cotale schiatta, io sono nobile'; chè 'l divino seme non cade in ischiatta, cioè in istirpe, ma cade ne le singulari persone, e, sì come di sotto si proverà, la stirpe non fa le singulari persone nobili, ma le singulari persone fanno nobile la stirpe.

6. Poi, quando dice: Chè solo Iddio a l'anima la dona, ragione è del suscettivo, cioè del subietto dove questo divino dono discende: ch'è bene divino dono, secondo la parola de l'Apostolo: «Ogni ottimo dato e ogni dono perfetto di suso viene, discendendo dal padre de' lumi». 7. Dice adunque che Dio solo porge questa grazia a l'anima di quelli cui vede stare perfettamente ne la sua persona, acconcio e disposto a questo divino atto ricevere. Chè, secondo dice lo Filosofo nel secondo de l'Anima, «le cose convengono essere disposte a li loro agenti, e a ricevere li loro atti»; onde se l'anima è imperfettamente posta, non è disposta a ricevere questa benedetta e divina infusione: sì come se una pietra margarita è male disposta, o vero imperfetta, la vertù celestiale ricever non può, sì come disse quel nobile Guido Guinizzelli in una sua canzone, che comincia: Al cor gentil ripara sempre Amore. 8. Puote adunque l'anima stare non bene ne la persona per manco di complessione, o forse per manco di temporale: e in questa cotale questo raggio divino mai non risplende. E possono dire questi cotali, la cui anima è privata di questo lume, che essi siano sì come valli volte ad aquilone, o vero spelunche sotterranee, dove la luce del sole mai non discende, se non ripercussa da altra parte da quella illuminata.

9. Ultimamente conchiude, e dice che, per quello che dinanzi detto è (cioè che le vertudi sono frutto di nobilitade, e che Dio questa metta ne l'anima che ben siede), che ad alquanti, cioè a quelli che hanno intelletto, che sono pochi, è manifesto che nobilitade umana non sia altro che 'seme di felicitade', messo da Dio ne l'anima ben posta, cioè lo cui corpo è d'ogni parte disposto perfettamente. Chè se le vertudi sono frutto di nobilitade, e felicitade è dolcezza [per quelle] comparata, manifesto è essa nobilitade essere semente di felicitade, come detto è. 10. E se bene si guarda, questa diffinizione tutte e quattro le cagioni, cioè materiale, formale, efficiente e finale, comprende: materiale in quanto dice: ne l'anima ben posta, che è materia e subietto di nobilitade: formale in quanto dice che è seme; efficiente in quanto dice: Messo da Dio ne l'anima; finale in quanto dice: di felicità. E così è diffinita questa nostra bontade, la quale in noi similemente discende da somma e spirituale Virtude, come virtude in pietra da corpo nobilissimo celestiale.

 

Capitolo XXI.

1. Acciò che più perfettamente s'abbia conoscenza de la umana bontade, secondo che in noi è principio di tutto bene, la quale nobilitade si chiama, da chiarire è in questo speziale capitolo come questa bontade discende in noi; e prima per modo naturale, e poi per modo teologico, cioè divino e spirituale. 2. In prima è da sapere che l'uomo è composto d'anima e di corpo; ma ne l'anima è quella; sì come detto è che è a guisa di semente de la virtù divina. Veramente per diversi filosofi de la differenza de le nostre anime fue diversamente ragionato: chè Avicenna e Algazel volsero che esse da loro e per loro principio fossero nobili e vili; e Plato e altri volsero che esse procedessero da le stelle, e fossero nobili e più e meno secondo la nobilitade de la stella. 3. Pittagora volse che tutte fossero d'una nobilitade, non solamente le umane, ma con le umane quelle de li animali bruti e de le piante, e le forme de le minere; e disse che tutta la differenza è de le corpora e de le forme. Se ciascuno fosse a difendere la sua oppinione, potrebbe essere che la veritade si vedrebbe essere in tutte; ma però che ne la prima faccia paiono un poco lontane dal vero, non secondo quelle procedere si conviene, ma secondo l'oppinione d'Aristotile e de li Peripatetici. 4. E però dico che quando l'umano seme cade nel suo recettaculo, cioè ne la matrice, esso porta seco la vertù de l'anima generativa e la vertù del cielo e la vertù de li elementi legati, cioè la complessione; e matura e dispone la materia a la vertù formativa, la quale diede l'anima del generante; e la vertù formativa prepara li organi a la vertù celestiale, che produce de la potenza del seme l'anima in vita. 5. La quale, incontanente produtta, riceve da la vertù del motore del cielo lo intelletto possibile; lo quale potenzialmente in sè adduce tutte le forme universali, secondo che sono nel suo produttore, e tanto meno quanto più dilungato da la prima Intelligenza è.

6. Non si maravigli alcuno, s'io parlo sì che par forte ad intendere; chè a me medesimo pare maraviglia, come cotale produzione si può pur conchiudere e con lo intelletto vedere. Non è cosa da manifestare a lingua, lingua, dico, veramente volgare. Per che io voglio dire come l'Apostolo: «O altezza de le divizie de la sapienza di Dio, come sono incomprensibili li tuoi giudicii e investigabili le tue vie!». 7. E però che la complessione del seme puote essere migliore e men buona, e la disposizione del seminante puote essere migliore e men buona, e la disposizione del Cielo a questo effetto puote essere buona, migliore e ottima (la quale si varia per le constellazioni, che continuamente si transmutano); incontra che de l'umano seme e di queste vertudi più pura [e men pura] anima si produce; e, secondo la sua puritade, discende in essa la vertude intellettuale possibile che detta è, e come detto è. 8. E s'elli avviene che, per la puritade de l'anima ricevente, la intellettuale vertude sia bene astratta e assoluta da ogni ombra corporea, la divina bontade in lei multiplica, sì come in cosa sufficiente a ricevere quella, e quindi sì multiplica ne l'anima questa intelligenza, secondo che ricevere puote. E questo è quel seme di felicitade del quale al presente si parla. 9. E ciò è concordevole a la sentenza di Tullio in quello De Senectute, che, parlando in persona di Catone, dice: «Imperciò celestiale anima discese in noi, de l'altissimo abitaculo venuta in loco lo quale a la divina natura e a la etternitade è contrario». E in questa cotale anima è la vertude sua propria, e la intellettuale, e la divina, cioè quella influenza che detta è: però è scritto nel libro de le Cagioni: «Ogni anima nobile ha tre operazioni, cioè animale, intellettuale e divina». 10. E sono alcuni di tale oppinione che dicono, se tutte le precedenti vertudi s'accordassero sovra la produzione d'un'anima ne la loro ottima disposizione, che tanto discenderebbe in quella de la deitade, che quasi sarebbe un altro Iddio incarnato. E quasi questo è tutto ciò che per via naturale dicere si puote.

11. Per via teologica si può dire che, poi che la somma deitade, cioè Dio, vede apparecchiata la sua creatura a ricevere del suo beneficio, tanto largamente in quella ne mette quanto apparecchiata è a riceverne. E però che da ineffabile caritate vegnono questi doni, e la divina caritate sia appropriata a lo Spirito Santo, quindi è che chiamati sono doni di Spirito Santo. 12. Li quali, secondo che li distingue Isaia profeta, sono sette, cioè Sapienza, Intelletto, Consiglio, Fortezza, Scienza, Pietade e Timore di Dio. Oh buone biade, e buona e ammirabile sementa! e oh ammirabile e benigno seminatore, che non attende se non che la natura umana li apparecchi la terra a seminare! e beati quelli che tale sementa coltivano come si conviene! 13. Ove è da sapere che 'l primo e lo più nobile rampollo che germogli di questo seme, per essere fruttifero, si è l'appetito de l'animo, lo quale in greco è chiamato 'hormen'. E se questo non è bene culto e sostenuto diritto per buona consuetudine, poco vale la sementa, e meglio sarebbe non essere seminato. 14. E però vuole santo Augustino, e ancora Aristotile nel secondo de l'Etica, che l'uomo s'ausi a ben fare e a rifrenare le sue passioni, acciò che questo tallo, che detto è, per buona consuetudine induri, e rifermisi ne la sua rettitudine, sì che possa fruttificare, e del suo frutto uscire la dolcezza de l'umana felicitade.

Saturday, 27 January 2024

Good Reading: "Ode a um Poeta Morto" by Raul de Leoni (in Portuguese)

À memória de Olavo BiIac.


Semeador de harmonia e de beleza
Que num glorioso túmulo repousas,
Tua alma foi um cântico diverso,
Cheio da eterna música das cousas:
Uma voz superior da Natureza
E uma ideia sonora do Universo!

Onde passaste, ao longo das estradas,
Linhas de imagens rútilas e vivas,
Em filigrana,
Foram tecendo, como o olhar das fadas,
Nas mais nobres e belas perspectivas,
O panorama dos ideais da Terra
E a ondulante paisagem da alma humana.

Toda a emoção, que anda nas cousas, fala,
Nos seus diversos tons e reflexos e cores,
Pela tua palavra irisada de opala,
Feita de radiações e finas tessituras:
Desde a vida sutil da borboleta
À alma leve das águas e das flores
À exaltação do Sol e ao sonho das criaturas:
Toda a sensualidade esparsa do Planeta.

Freme em tua arte o sangue de Dionisos,
Diluído nas virtudes apolíneas;
E do seu seio voluptuoso chovem
Alvas formas pagãs, ardentes frisos,
Baixos-relevos, camafeus, sanguíneas,
Numa palpitação de carne jovem.
 
Desfolhando um esplêndido destino,
A tua mão teve, por sentimento,
A sutileza platônica e a doçura
De um florentino do Renascimento,
Que, atormentado de ímpetos românticos,
Trabalhasse em esmalte do Piemonte,
Contendo no cinzel lascivo e fino
O sonho capitoso de Anacreonte
E o lirismo sensual do Cântico dos Cânticos.

Vieste de longe para longe. A tua
Alma encarnou-se em outras entidades,
Em outros povos, tempos e países,
E, deslumbrante, continua,
Plástica, móvel, irisada e nua,
A longa emigração pelas idades,
Deixando atrás de si seus frutos e raízes.

Foste o Homem de sempre, no prestígio
De poeta sensualista, atravessando as eras,
Por toda parte encontro o teu vestígio:
Um dia, na Índia védica, sonhando
No limiar das eternas primaveras,
– As mãos cheias de rosas e ametistas –
Fazes oblatas líricas e votos
Aos poderosos gênios avatares
E escreves os teus poemas animistas
Na folha dos nelumbos e dos lótus,
Na flor sonâmbula dos nenúfares...
E os teus versos, nos quais um grande sonho abranges,
Vão descendo a cantar na corrente do Ganges.
 
Depois, pastor na Argólida ou no Epiro,
Vivendo entre os rebanhos, em retiro,
Ao luar, sobre as montanhas, passo a passo
Vais contando as estrelas pelo espaço,
E a sonata sutil da tua avena
Tem o sabor do favo das abelhas
E a melodia simples e serena
Da alma dócil e errante das ovelhas.

Mais tarde, na Tessália, entre as selvas e os rios,
Companheiro dos sátiros vadios,
Modulas o teu canto surpreendente,
E vais buscar o som das tuas rimas
No intermezzo das fontes, ao nascente,
Na canção das águas frescas,
Na orquestração nostálgica dos ventos,
No tropel dos centauros truculentos,
Nas gargalhadas faunescas,
Na púrpura radiante das vindimas.

Mal doura o sol a folha das videiras
E ouves o ruído das primeiras frautas,
Sais a espreitar, horas e horas,
Sobre a areia de prata das ribeiras,
As oréades trêfegas e incautas,
De braços entrelaçados,
Urdindo a teia de ouro das auroras,
Na fantasmagoria dos bailados.
 
Reapareces, depois de vidas tantas,
Com o mesmo coração sonoro e imenso,
Dentro das cortes bíblicas e cantas,
Na harpa esguia e ritual, entre espirais de incenso,
As vitórias dos reis e as searas benditas,
As lendas do Jordão e o olhar das moabitas.

Voltas ainda à Grécia, onde pertences
Ao povo e és o poeta da cidade.
Honras a velha raça dos rapsodos;
A tua voz tem a sublimidade
Do perfume dos parques atenienses;
E é uma expressão da pátria e o evangelho de todos.
Trazes mirtos e pâmpanos na fronte;
Entoas hinos a Febus
E bailas, com Anacreonte,
No arabesco da ronda dos éfebos.

Depois, em Mitilene, és o único homem
Nessa ilha extravagante das mulheres.
Lá os epitalâmios que proferes,
Entre ruídos de crótalos e taças,
Sobem no ar e se consomem;
Despertam nossos desejos,
E consegues possuir para os teus beijos
A própria Safo numa noite – e passas.

Vais a Roma, no vértice do Império,
Onde a predileção do César te conforta.
Dão-te em Tíbure estâncias e domínios;
Vais a Capri na corte de Tibério;
Instalas teu palácio no Aventino;
Tens eunucos etíopes à porta
E liteiras de estofo damasquino.
És a alma delirante dos triclínios;
Exortas os circenses sobre vícios;
Cantas no banho azul das cortesãs cesáreas;
És íntimo nos tálamos patrícios,
Onde os teus versos sacros e profanos
São guardados nas urnas legendárias
Em custosos papiros africanos.

Mais tarde, já na idade alexandrina,
De novo, a terra helênica conquistas,
E, poeta irônico e brando,
No tom fresco e loução dos idilistas,
Passas cantando
As canções que Teócrito te ensina.
Revejo-te, depois, indiferentemente,
Em Córdoba, em Bagdá, quase em segredo,
No teu destino ideal de citaredo:
Cantor do califado, entre os tesouros
Do Islamismo e os mistérios do Oriente.
Dormes no harém real e vais às guerras.
Continuando de seres, entre os mouros,
O mesmo de outro tempo em outras terras.
Na Germânia feudal encontras nas distâncias,
Um bando de harmonias que comunguem
Com o teu coração de poeta heleno.
Murmura-te no ouvido, em ressonâncias,
A legenda pagã dos “Niebelungen”.
És todo o amor das castelãs do Reno
E a tua voz de “minnesinger” se ergue
Ora veemente e funda, ora em trêmulos suaves:
Com “Tannhäuser” visita “Venusberg”
E canta nos castelos dos margraves.
 
Mais adiante,
Renasces na Florença azul da “Senhoria”.
Florença eleva na canção dos sinos
A sua alma de Vênus e Maria.
É um sonho de amor nos Apeninos.
A cidade das flores e dos poetas,
Das paixões elegantes e discretas,
Das fontes, dos jardins e das duquesas,
Das obras-primas e das sutilezas.
É todo um povo amável que se anima
E que a amar e a sorrir, da alvorada ao sol posto,
Faz da Vida uma obra-prima
De sensibilidade e de bom gosto...

Há guirlandas votivas,
De acantos e de louros pelas ruas!
O Grande Pã voltou! As formas vivas
Da Grécia, emergem, fúlgidas e nuas!
Nas casas senhoriais e nas vilas burguesas,
Toda a gente, animada de surpresas,
Aprende o homérico idioma,
Entretém-se de Erasmo e de Bocácio.
De humanistas e letrados,
E dos últimos mármores achados
Sob a poeira católica de Roma.

Nos belvederes do Arno andam as grandes damas:
Smeralda, Lucrezia, Simonetta,
Entre rosas, sorrisos e epigramas...
Botticelli olha o céu azul violeta;
Lê-se Platão nos templos: e eu te vejo,
Sereno e lindo,
Diante do “Ponte-Vecchio”, num cortejo,
Dizendo aos príncipes sonetos de ouro
E Lourenço de Médicis te ouvindo!

Compões ainda com teu gênio afoito,
Na forma antiga que se cristaliza,
Certos versos do século dezoito,
Quando Watteau pintava, em plena primavera,
O “Embarque” para Citera
E Rousseau escrevia a Nova Heloísa.

Poeta cosmopolita, alma moderna,
Com Leconte e Banville, em Paris de setenta,
Buscas nas viagens teus motivos de arte,
Fazes o inverno em Nice e o verão em Lucerna
E a tua sombra cíclica se ostenta
Nos salões de Matilde Bonaparte.

***

Na amplitude geral do teu abraço:
– Fora do Tempo e do Espaço,
Na Humanidade e no Mundo –
Vejo-te sempre presente
Onde há um homem que sente
Que a vida é um sentimento esplêndido e profundo!
As almas como a tua a quem n’as fite
Transmitem a emoção da vida soberana.

Seja onde for se pode compreendê-las,
Porque, sem fim, sem pátria e sem limite,
Têm no conceito eterno da alma humana
A universalidade das estrelas.
Se a Humanidade fosse feita delas,
Na dúvida em que não cabe
E em que se estreita,
Talvez não fosse mais feliz, quem sabe?
– Mas seria mais bela e mais perfeita...

Dignificaste a Espécie, na nobreza
Das grandes sensações de Harmonia e Beleza;
Disseste a Glória de viver, e, agora,
O teu eco a cantar pelos tempos em fora,
Dirá aos homens que o melhor destino,
Que o sentido da Vida e o seu arcano,
É a imensa aspiração de ser divino,
No supremo prazer de ser humano!

Friday, 26 January 2024

Friday's Sung Word: "Castelos de Areia" by Cândido das Neves (in Portuguese)

Saudade tédio e dor, trindade amarga
Que alarma dolorosa me domina
Não posso por meu coração à larga
Uma tristeza enorme me assassina

Meu pobre coração assiste a trama
De amor que em tantos íntimos prediz
Já que Deus não ouve os gritos de quem ama
A lágrima é o protesto do infeliz

Ai, se fito o firmamento
Simbólio azul franjado em prata
Logo ao pensamento
Vem aquela ingrata

Lua deusa da natura
Tu que viste o beijo
Dada após a jura
Caindo em meus braços
Fez pura aquela estrela

Lua tudo fiz para esquecê-la, mas em vão
A saudade não me sai do coração
Áurea catedral do meu ideal
Como um castelo de areia tombou

Nômade que sou, choro os prantos meus
Nascem d'alma num protesto a Deus
Vai, nessa saudade, a minha mocidade
Vai se estiolando oh! Senhor!
Já que não há esperança
Tirai-me da lembrança
A história desse amor

Senhor, maior que as dores que sentiste
Maior que a dor de ser crucificado
Maior Senhor, que tudo o que carpiste
É a dor que sente um desprezado

Amor ambicionada desventura
Que ao pórtico da morte me conduz
É dado aos infelizes ter na sepultura
O amor simbolizado numa cruz

 

You can listen  "Castelos de Areis" sung by  Vicente Celestino here.

Thursday, 25 January 2024

Thursday's Serial: “The Dark Other” by Stanley G. Weinbaum - the end

 

30. The Demon Free

Pat emitted a small, startled shriek, and heard it echoed by a surprised grunt from Dr. Horker.

"Queer!" he muttered. "The stuff must be mislabeled. Scopolamine doesn't act like this; it's a narcotic."

"He's—the other!" gasped Pat, while the being on the couch grinned sardonically.

"Eh? An attack? Can't be!" The Doctor shook his head emphatically.

"It's not Nick!" cried the girl in panic. "You're not, are you?" she appealed to the grim entity.

"Not your sweetheart?" queried the creature, still with his mocking leer. "A few hours ago you were lying here all but naked, confessing you were mine. Have you forgotten?"

She shuddered at the reference, and shrank back in her chair. She heard the Doctor's ominous, angry rumble, and the evil tittering chuckle of the other.

"Pathological or not," snapped Horker, "I can resent your remarks! I've considered several times varying my treatment with another solid cut to the jaw!" He rose from his chair, stamping viciously toward the other.

"A moment," said Nicholas Devine. "Do you know what you've done? Have you any idea what you've done?" He turned cool, mocking, red-glinting eyes on the Doctor.

"Huh?" Horker paused as if puzzled. "What I've done? What do you mean?"

"You don't know, then." The other gave a satyric smile. "You're stupid; I gave you the clue, yet you hadn't the intelligence to follow it. Do you know what I am?" He leaned forward, his eyes leering evilly into the Doctor's. "I'll tell you. I'm a question of synapses. That's all—merely a question of synapses!" He tittered again, horribly. "It still means nothing to you, doesn't it, Doctor?"

"I'll show you what it means!" Horker clenched a massive fist and strode toward the figure, whose eyes stared, steadily, unwinkingly into his own.

"Back!" the being snapped as the great form bent over him. The Doctor paused as if struck rigid, his arm and heavy fist drawn back like the conventional fighting pose of a boxer. "Go back!" repeated the other, rising. Pat whimpered in abject terror as she heard Horker's surprised grunt, and saw him recede slowly, and finally sink into his chair. His bewildered eyes were still fixed on those of Nicholas Devine.

"I'll tell you what you've done!" said the strange being. "You've freed me! There was nothing wrong with your scopolamine. It worked!" He chuckled. "You drugged him and freed me!"

Horker managed a questioning grunt.

"I'm free!" exulted the other. "For the first time I haven't him to fight! He's here, but helpless to oppose me—he's feeble—feeble!" He gave again the horrible tittering chuckle. "See how weak the two of you are against my unopposed powers!" he jeered. "Weaklings—food for my pleasures!"

He turned his eyes, luminous and avid, on Pat. "This time," he said, "there'll be no interruptions. A witness to our experiment will add a delicate touch of pleasure—"

He broke off at the Doctor's sudden movement. Horker had snatched a glistening blue revolver from his pocket, held it leveled at the lust-filled eyes.

"Huh!" growled the Doctor triumphantly. "Do you think I come trailing a maniac without some protection? Especially a vicious one like you?"

Nicholas Devine turned his eyes on his opponent. He stared long and intently.

"Drop it!" he commanded at length. Pat felt a surge of chaotic terror as the weapon clattered to the floor. She turned a frightened glance on Horker's face, and her fright redoubled at the sight of his straining jaw, the perspiration-beaded forehead, and his bewildered eyes. The demon kicked the gun carelessly aside.

"Puerile!" he said contemptuously. He backed away from them, re-seating himself on the couch whence he had risen. He surveyed the pair in sardonic mirth.

"Pat!" muttered the Doctor huskily. "Get out of here, Honey! He's got some hellish trick of fascination that's paralyzed me. Get out and get help!"

The girl moved as if to rise. Nicholas Devine shifted his eyes for the barest instant to her face; she felt the strength drain out of her body, and she sank weakly to her chair.

"It's useless," she murmured hopelessly to the Doctor. "He's—he's just what I told you—a devil!"

"I guess you were right," mumbled Horker dazedly.

There was a burst of demonic mirth from the being on the couch. "Merely a matter of synapses," he rasped, chuckling. His face changed, took on the familiar coldness, the stony expression Pat had observed there before. "This palls!" he snapped. "I've better amusement—after we've rendered your friend merely an interested on-looker." He narrowed his red eyes as if in thought. "Take off a stocking," he ordered. "Tie his hands to the back of the chair."

"I won't!" said the girl. The eyes shifted to her face. "I won't!" she repeated tremulously as she kicked off a diminutive pump. She shuddered at the gleam in the evil eyes as she stripped the long silken sheath from a white, rounded limb. She slipped a bare foot into the pump and moved reluctantly behind the chair that held the groaning Horker. She took one of the clenched, straining hands, and drew it back, fumbling with shaking fingers as she twisted the strip of thin chiffon. The demon moved closer, standing over her.

"Loose knots!" he snarled abruptly. He knocked her violently away with a stinging slap across her cheek, and seized the strip in his own hands. He drew the binding tight, twisting it about the lowest rung of the chair's ladder back. Horker was forced to lean awkwardly to the rear; in this unbalanced position it was quite impossible to rise.

Nicholas Devine turned away from the straining, perspiring Doctor, and advanced toward Pat, who cowered against the shattered cabinet.

"Now!" he muttered. "The experiment!" He chuckled raspingly. "What delicacy of degradation! Your lover and your guardian angel—both helpless watchers! Excellent! Oh, very excellent!"

He grasped her wrist, drawing her after him to the center of the room, into the full view of the horrified, staring eyes of Horker.

"Always before," continued her tormentor, "these hands have prepared you for the rites—the ceremony that failed on two other occasions to transpire. Would it add a poignancy to the torture if I made you strip this body of yours with your own hands? Or will they suffer more watching me? Which do you think?"

Pat closed her eyes in helpless resignation to her fate. "Nick!" she moaned. "Oh, Nick dearest!"

"Not this time!" sneered the other. "Your friend and protector, the Doctor, has thoughtfully eliminated your sweetheart as a factor. He struggles too feebly for me to feel."

"Nick!" she murmured again. "Dr. Carl!"

But the Doctor, now pulling painfully at his bonds, could only groan in distraction, and curse the unsuspected strength of sheer chiffon. He writhed miserably at the chafing of his wrists; his strange paralysis had departed, but he was quite helpless to assist Pat.

"I think," said the cold tones of Nicholas Devine, "that the more delicate torture lies in your willingness. Let us see."

He drew her into his arms. He twisted a hand in her hair, jerked her head violently backward, and pressed avid lips to hers. She struggled a little, but hopelessly, automatically. At last she lay quite passive, quite motionless, supported by his arms, and making not the slightest response to his kiss.

"Are you mine?" he queried fiercely, releasing her lips. "Are you mine now?"

She shook her head without opening her eyes. "No," she said dully. "Not now, or ever."

Again he crushed her, while the Doctor looked on in helpless, bewildered, voiceless anger. This time his kiss was painful, burning, searing. Again that unholy fascination and unnatural delight in her own pain stirred her, and it took what little effort she was able to make to keep from responding. After a long interval, his lips again withdrew.

"Are you mine?" he repeated. She made no answer; she was gasping, and tears glistened under her closed eye-lids, from the pain of her crushed lips. Again he kissed her, and again the wild abandonment to evil suffused her. She was suddenly responding to his agonizing caress; she was clinging fiercely to his torturing lips, feeling an unholy exaltation in the pain of his tearing fingers in the flesh of her back.

"Yours!" she murmured in response to his query. She heard her voice repeat madly, "Yours! Yours! Yours!"

"Do you yield willingly?" came the icy tones of the demon.

"Yes—yes—yes! Willingly!"

"Take off your clothes!" sounded the terrible, overpowering voice. He thrust her from him, so that she staggered dizzily backward. She stood swaying; the voice repeated its command.

 

The girl's eyes widened wildly; she had the appearance of one in an ecstasy, a religious fervor. She raised her hand with a jerky impulsive gesture to the neck of her frock, still pinned together in the makeshift repairs of the evening.

There came a strange interruption. The Doctor, helpless on-looker, had at length evolved an idea out of the bewilderment in his mind. He opened his mouth and emitted a tremendous, deep, ear-shattering bellow!

Nicholas Devine sent the girl spinning to the floor with a vicious shove, and turned his blazing eyes on Horker, who was drawing in his breath for a repetition of his roar. "Quiet!" he rasped, his red orbs boring down at the other. "Quiet, or I'll muffle you!" Closing his eyes, the Doctor repeated his mighty shout.

The demon snatched the blanket from the couch, tossing it over the figure of the Doctor, where it became a billowing, writhing heap of brown wool. He turned his gaze on Pat, who was just struggling to her feet, and moved as if to advance toward her.

He paused. She had retrieved the Doctor's revolver from the floor, and now faced him with the madness gone out of her eyes, supporting the weapon with both hands, the muzzle wavering toward his face.

"Drop it!" he commanded. She felt a recurrence of fascination, and an impulse to obey. Out of the corner of her eye, she saw the Doctor's head emerging from the blanket as he shook it off.

"Drop it!" repeated Nicholas Devine.

She closed her eyes, shutting out the vision of his dominant visage. With a surge of terror, she squeezed the trigger, staggering back to the couch at the roar and the recoil.

She opened her eyes. Nicholas Devine lay in the center of the room on his face; a crimson spot was matting the hair on the back of his head. She saw the Doctor raise a free hand; he was working clear of his bonds.

"Pat!" he said softly. He looked at her pale, sickened features. "Honey," he said, "sit down till I get free. Sit down, Pat; you look faint."

"Never faint!" murmured the girl, and pitched backward to the couch, with one clad and one bare leg hanging in curious limpness over the edge.

 

31. "Not Humanly Possible"

Pat opened weary eyes and gazed at a blank, uninformative ceiling. It was some moments before she realized that she was lying on the couch in the room of Nicholas Devine. Somebody had placed her there, presumably, since she was quite unaware of the circumstances of her awakening. Then recollection began to form—Dr. Carl, the other, the roar of a shot. After that, nothing save a turmoil ending in blankness.

A sound of movement beside her drew her attention. She turned her head and perceived Dr. Horker kneeling over a form on the floor, fingering a white bandage about the head of the figure. Her recollections took instant form; she remembered the catastrophes of the evening—last night, rather, since dawn glowed dully in the window. She had shot Nick! She gave a little moan and pushed herself to a sitting position.

The Doctor glanced at her with a sick, shaky smile. "Hello," he said. "Come to, have you? Sorry I couldn't give you any attention." He gave the bandage a final touch. "Here's a job I had no heart for," he muttered. "Better for everyone to let things happen without interference."

The girl, returning to full awareness, noticed now that the bandage consisted of strips of the Doctor's shirt. She glanced fearfully at the still features of Nicholas Devine; she saw pale cheeks and closed eyes, but indubitably not the grim mien of the demon.

"Dr. Carl!" she whispered. "He isn't—he isn't—"

"Not yet."

"But will he—?"

"I don't know. That's a bad spot, a wound in the base of the brain. You'd best know it now, Pat, but also realize that nothing can happen to you. I'll see to that!"

"To me!" she said dully. "What difference does that make? It's Nick I want saved."

"I'll do my best for you, Honey," said Horker with almost a hint of reluctance. "I've phoned Briggs General for an ambulance. Your faint lasted a full quarter hour," he added.

"What can we tell them?" asked the girl. "What can we say?"

"Don't you say anything, Pat. I'm not on the board for nothing." He rose from his knees, glancing out of the window into the cool dawn. "Queer neighborhood!" he said. "All that yelling and a shot, and still no sign of interest from the neighbors. That's Chicago, though," he mused. "Lucky for us, Pat; we can handle the thing quietly now."

But the girl was staring dully at the still figure on the floor. "Oh God!" she said huskily. "Help him, Dr. Carl!"

"I'll do my best," responded Horker gloomily. "I was a good surgeon before I specialized in psychiatry. Brain surgery, too; it led right into my present field."

Pat said nothing, but dropped her head on her hands and stared vacantly before her.

"Better for you, and for him too, if I fail," muttered the Doctor.

His words brought a reply. "You won't fail," she said tensely. "You won't!"

"Not voluntarily, I'm afraid," he growled morosely. "I've still a little respect for medical ethics, but if ever a case—" His voice trailed into silence as from somewhere in the dawn sounded the wail of a siren. "There's the ambulance," he finished.

Pat sat unmoving as the sounds from outdoors detailed the stopping of the vehicle before the house. She heard the Doctor descending the steps, and the creak of the door. Though it took place before her eyes, she scarcely saw the white-coated youths as they lifted the form of Nicholas Devine and bore it from the room on a stretcher, treading with carefully broken steps to prevent the swaying of the support. Dr. Horker's order to follow made no impression on her; she sat dully on the couch as the chamber emptied.

Why, she wondered, had the thought of Nick's death disturbed her so? Wasn't it but a short time since they had both contemplated it? What had occurred to alter that determination? Nick was dying, she thought mournfully; all that remained was for her to follow. There on the floor lay the revolver, and on the table, glistening in the wan light, reposed the untouched lethal draft. That was the preferable way, she mused, staring fixedly at its glowing contour.

But suppose Nick weren't to die—she'd have abandoned him to his terrible doom, left him to face a situation far more ominous than any unknown terrors beyond death. She shook her head distractedly, and looked up to meet the eyes of Dr. Horker, who was watching her gravely in the doorway.

"Come on, Pat," he said gently.

She rose, followed him down the stairs and out into the morning light. The driver of the ambulance stared curiously at her dishevelled, bedraggled figure, but she was so weary and forlorn that even the effort of brushing away the black strands of hair that clouded her smoke-dark eyes was beyond her. She slumped into the seat of the Doctor's car and sighed in utter exhaustion.

"Rush it!" Horker called to the driver ahead. "I'll follow you."

The car swept into motion, and the swift cool morning air beating against her face from the open window restored some clarity to her mind. She fixed her eyes on the rear of the speeding vehicle they followed.

"Is there any hope at all?" she queried despondently.

"I don't know, Pat. I can't tell yet. When you closed your eyes, he half turned, dodged; the bullet entered his skull near the base, near the cerebellum. If it had pierced the cerebellum, his heart and breathing must have stopped instantly. They didn't, however, and that's a mildly hopeful sign. Very mildly hopeful, though."

"Do you know now what that devil—what the attack was?"

"No, Pat," Horker admitted. "I don't. Call it a devil if you like; I can't name it any better." His voice changed to a tone of wonder. "Pat, I can't understand that paralyzing fascination the thing exerted. I—any medical man—would say that mental dominance of that sort doesn't exist."

"Hypnotism," the girl suggested.

"Bah! Every psychiatrist uses hypnotism in his business; it's part of some treatments. There's nothing of fascination about it; no dominance of one will over another, despite the popular view. That's natural and understandable; this was like—well, like the exploded claims of Mesmerism. I tell you, it's not humanly possible—and yet I felt it!"

"Not humanly possible," murmured Pat. "That's the answer, then, Dr. Carl. Maybe now you'll believe in my devil."

"I'm tempted to."

"You'll have to! Can't you see it, Dr. Carl? Even his name, Nick—that's a colloquialism for the devil, isn't it?"

"And Devine, I suppose," said Horker, "refers to his angelic ancestry. Devils are only fallen \+angels, aren't they?"

"All right," said Pat wearily. "Make fun of it. You'll see!"

"I'm not making fun of your theory, Honey. I can't offer a better one myself. I never saw nor heard of anything similar, and I'm not in position to ridicule any theory."

"But you don't believe me."

"Of course I don't, Pat. You're weaving an intricate fairy tale about a pathological condition and a fortuitous suggestiveness in names. Whatever the condition is—and I confess I don't understand it—it's something rational, and those things can be treated."

"Treated by exorcism," said the girl. "That's the only way anyone ever succeeded in casting out a devil."

The Doctor made no answer. The wailing vehicle ahead of them swung rapidly out of sight into an alley, and Horker halted his car before the gray facade of Briggs General.

"Come in here," he said, helping Pat to alight. "You'll want to wait, won't you?"

"How long," she queried listlessly, "before—before you'll know?"

"Perhaps immediately. The only chance is to get that bullet out at once—if there's still time for it."

She followed him into the building, past a desk where a white-clad girl regarded her curiously, and up an elevator. He led her into a small office.

"Sit here," he said gently, and disappeared.

She sat dully in the chair he had indicated, and minutes passed. She made no attempt to think; the long, cataclysmic night had exhausted her powers. She simply sat and suffered; the deep scratches of fingernails burned in the flesh of her back, her cheek pained from the violent slap, and her head and jaw ached from that first blow, the one that had knocked her unconscious last evening. But these twinges were minor; they were merely physical, and the hurts of the demon had struck far deeper than any physical injury. The damage to her spirit was by all odds the more painful; it numbed her mind and dulled her thoughts, and she simply sat idle and stared at the blank wall.

She had no conception of the interval before Dr. Horker returned. He entered quietly, and began rinsing his hands at a basin in the corner.

"Is it over?" she asked listlessly.

"Not even begun," he responded. "However, it isn't too late. He'll be ready in a moment or so."

"I wish it were over," she murmured. "One way or the other."

"I too!" said the Doctor. "With all my heart, I wish it were over! If there were anyone within call who could handle it, I'd turn it to him gladly. But there isn't!"

He moved again toward the door, leaning out and glancing down the hall.

"You stay here," he admonished her. "Don't try to find us; I want no interruptions, no matter what enters that mind of yours!"

"You needn't worry," she said soberly. "I'm not fool enough for that." She leaned wearily back in the chair, closing her eyes. A long interval passed; she was vaguely surprised to see the Doctor still standing in the doorway when she opened her eyes. She had fancied him already in the midst of his labor.

"What will you do?" she asked.

"About what?"

"I mean what sort of operation will it need? Probing or what?"

"Oh," he said. "I'll have to trephine him. Must get that bullet."

"What's that—trephine?"

He glanced down the hall. "They're ready," he said, and turned to go. At the door he paused. "Trephining is to open a little door in the skull. If your devil is in his head, we'll have it out along with the bullet."

His footsteps receded down the hall.

 

32. Revelation

"Is it over now?" queried Pat tremulously as the Doctor finally reappeared. The interminable waiting had left her even more worn, and her pallid features bore the marks of strain.

"Twenty minutes ago," said Horker. His face too bore evidence of tension; moreover, there was a puzzled, dubious expression in his eyes that frightened Pat. She was too apprehensive to risk a question as to the outcome, and simply stared at him with wide, fearful, questioning eyes.

"I called up your home," he said irrelevantly. "I told them you left with me early this morning. Your mother's still in bed, although it's after ten." He paused. "Slip in without anyone seeing you, will you, Honey? And rumple up your bed."

"If I haven't lost my key," she said, still with the question in her eyes.

"It's in the mail-box. Magda found it on the porch this morning. I talked to her."

She could bear the uncertainty no longer. "Tell me!" she demanded.

"It's all right, I think."

"You mean—he'll live?"

The Doctor nodded. "I think so." He turned his puzzled eyes on her.

"Oh!" breathed Pat. "Thank God!"

"You wanted him back, Honey, didn't you?" Horker's tone was gentle.

"Oh, yes!"

"Devil and all?"

"Yes—devil and all!" she echoed. Suddenly she sensed something strange in the other's manner. She perceived the uncertainty in his visage, and felt a rising trepidation. "What's the matter?" she queried anxiously. "You're not telling me everything! Tell me, Dr. Carl!"

"There's something else," he said. "I'm not sure, Pat, but I think—I hope—you've got him back without the devil!"

"He's cured?" Her voice was incredulous; she did not dare accept the Doctor's meaning.

"I hope so. At least I located the cause."

"What was it?" she demanded, an unexpected vigor livening her tired body. "What was that devil? Tell me! I want to know, Dr. Carl!"

"I think the best name for it is a tumor," he said slowly. "I told them in there it was a tumor. I wish I knew myself."

"A tumor! I don't understand!"

"I don't either, Pat—not fully. It's something on or beyond the border of medical knowledge. I don't think any living authority could classify it definitely."

"But tell me!" she cried fiercely. "Tell me!"

"Well, Honey—I'll try." He paused thoughtfully. "Cancers and tumors—sarcomas—are curious things, Dear. Doctors aren't at all sure just what they are. And one of their peculiarities is that they sometimes seem to be trying to develop into separate entities, trying to become human by feeding like parasites on their hosts. Do you understand?"

"No," said the girl. "I'm sorry, Dr. Carl, but I don't."

"I mean," he continued, "that sometimes these growths seem to be trying to develop into—into organisms. I've seen them, for instance—every surgeon has—with bones developing. I've seen one with a rather perfect jaw-bone, and little teeth, and hair. As if," he added, "it were making a sort of attempt to become human, in a primitive, disorganized fashion. Now do you see what I mean?"

"Yes," said the girl, with a violent shudder. "Dr. Carl, that's horrible!"

"Life sometimes is," he agreed. "Well," he continued slowly, "I opened up our patient's skull at the point where the fluoroscope indicated the bullet. I trephined it, and there, pierced by the shot, was this—" He hesitated, "—this tumor."

"Did you—remove it?"

"Of course. But it wasn't a natural sort of brain tumor, Honey. It was a little cerebrum, apparently joined to a Y-shaped branch of the spinal cord. A little brain, Pat—no larger than your small fist, but deeply convoluted, and with the pre-Rolandic area highly developed."

"What's pre-Rolandic, Dr. Carl?" asked Pat, shivering.

"The seat of the motor nerves. The home, you might say, of the will. This brain was practically all will—and I wonder," he said musingly, "if that explains the ungodly, evil fascination the creature could command. A brain that was nothing but pure will-power, relieved by its parasitic nature of all the distractions of a directing body! I wonder—" He fell silent.

"Tell me the rest!" she said frantically.

"That's all, Honey. I removed it, and I guess I'm the only surgeon in the world who ever removed a brain from a human skull without killing the patient! Luckily, he had two of them!"

"Oh God!" murmured the girl faintly. She turned to Horker. "But he will live?"

"I think so. Your shot killed the devil, it seems." He frowned. "I said it was a tumor; I told them it was a tumor, but I'm not sure. Perhaps, just as some people are born with six fingers or toes on each member, he was born with two brains. It's possible; one developed normally, humanly, and the other—into that creature we faced last night. I don't know!"

"It's what I said," asserted Pat. "It's a devil, and what you've just told me about tumors proves it. They're devils, that's all, and some day some student is going to cut one loose and raise it to maturity outside a human body, and you'll see what a devil is really like! And go ahead and laugh!"

"I'm not laughing, Pat. I'd be the last one to laugh at your theory, after facing that thing last night. It had satanic powers, all right—that paralyzing fascination! You felt it too; it wasn't just a mental lapse on my part, was it?"

"I felt it, Dr. Carl! I'd felt it before that; I was always helpless in the presence of it."

"Could it," he asked, "have imposed its will actively on yours? I mean, could it have made you actually do what it asked there at the end, just before I recovered enough sense to let out that bellow?"

"To take off—my dress?" She shivered. "I don't know, Dr. Carl.—I'm afraid so." She looked at him appealingly. "Why did I yield to it so?" she cried. "What made me find such a fierce pleasure in its kisses—in its blows and scratches, and the pain it inflicted on me? Why was that, Dr. Carl?"

"Why," he countered, "do gangsters' girls and apache women enjoy the cruelties perpetrated on them by their men? There's a little masochism in most women, and that—creature was sadistic, perverted, abnormal, and somehow dominating. It took an unfair advantage of you, Pat; don't blame yourself."

"It was—utterly evil!" she muttered. "It was the ultimate in everything unholy."

"It was an aberrant brain," said Horker. "You can't judge it by human standards, since it wasn't actually human. It was, I suppose, just what you said—a devil. I didn't even keep it," he added grimly. "I destroyed it."

"Do you know what it meant by saying it was a question of synapses?" she asked.

"That was queer!" The Doctor's voice was puzzled. "That remark implies that the thing itself knew what it was. How? It must have possessed knowledge that the normal brain lacked."

"Was it a question of synapses?"

"In a sense it was. The nerves from the two rival brains must have met in a synaptic juncture. The oftener the aberrant brain gained control, the easier it became for it to repeat the process, as the synapse, so to speak, wore thin. That's why the attacks intensified so horribly toward the end; the habit was being formed."

"Last night was the very worst!"

"Of course. As the thing itself pointed out, I made the mistake of drugging the normal brain and giving the other complete control of the body. At other times, there'd always been the rivalry to weaken whichever was dominant."

"Does that mean," asked Pat anxiously, "that Nick's character will be changed now?"

"I think so. I think you'll find him less meek, less gentle, than heretofore. More spirited, perhaps, since his energies won't be drained so constantly by the struggle."

"I don't care!" she said. "I'd like that, and anyway, it doesn't make a bit of difference to me as long as he's just—my Nick."

The Doctor gave her a tender smile. "Let's go home," he said, pinching her cheek in his great hand.

"Can you leave him?"

"I'll run back after a while, Honey. I think he'll do." He took her hand, drawing her after him. "Don't forget to slip in unseen, Pat, and rumple up your bed."

"Rumple it!" She gave him a weary smile. "I'll be in it!"

"Good idea. You look a bit worn out, Honey, and we can't have you getting sick now, or even pull a temporary faint like that one last night."

"I didn't faint!"

"Maybe not," grinned Horker. "Perhaps the proceedings grew a little boring, and you just lay down on the couch for a nap. It was a dull evening."

Wednesday, 24 January 2024

Good Reading: "The Rhodora: on being asked, whencie is the flower?" by Ralph W. Emerson (in English)

In May, when sea-winds pierced our solitudes,
I found the fresh Rhodora in the woods,
Spreading its leafless blooms in a damp nook,
To please the desert and the sluggish brook.
The purple petals, fallen in the pool,
Made the black water with their beauty gay;
Here might the red-bird come his plumes to cool,
And court the flower that cheapens his array.
Rhodora! if the sages ask thee why
This charm is wasted on the earth and sky,
Tell them, dear, that if eyes were made for seeing,
Then Beauty is its own excuse for being:
Why thou wert there, O rival of the rose!
I never thought to ask, I never knew:
But, in my simple ignorance, suppose
The self-same Power that brought me there brought you.