Nel ‘43
quando ho scritto l’Usignolo avevo ventun anni, ma era come se ne avessi
sedici. Partito da Bologna, l’incontro col paese materno aveva fatto prendere
alla mia bontà di adolescente la figura che la Chiesa chiede a quei suoi figli
più pii che sono i catecumeni. Non credevo in dio, ma amavo, o, meglio, volevo
amare la Chiesa. Sapevo bene che Pascal aveva scritto in uno dei suoi Pensieri
– che erano stati quell’anno coi Canti del popolo greco di Tommaseo il mio
livre de chevet – che si può creare artificialmente un accostamento a Dio
andando per prova in Chiesa. La Chiesa che io avevo trovato era quella di un
povero paese friulano.
Tutto andò a finire come doveva andare a finire. Della conversione non
se ne fece niente. Erano passati tre anni, e quel Friuli che era stato il nido
di un vergine finì col trasformarsi in una stalla, un meretricio. Legato da una
nostalgia che era vizio, non potevo più strapparmene. Il periodo della santità
era ben finito, era ben finito il tempo in cui nei miei scartafacci, sotto la
citazione dell’Asperge me hyssopo preso come epigrafe, invocavo d’essere impuro
per poter serenamente ritornare alla purezza. Il fatto è che ancora, fino quasi
a ventiquattro anni ero ancora praticamente vergine: quando poi questo stato
ebbe infine la conclusione che doveva avere, pur ben lontano dal ritrovare –
come con mistica ipocrisia mi dicevo – la vera purezza. Al contrario, come ho
accennato, caddi sempre più profondamente nelle delizie della perdizione. Ormai
non cercavo più la grazia: e la gioia consisteva nel piacere di obbedire ai
richiami di una nostalgia viziosamente inmediata, di una sensualità
violentissima.
Ma
“Dio” – la mia coscienza, che era limpida nel giudicare, e non aveva nulla di
quell’aspetto paterno e moralistico che si analizza nei refoulés, perché tale
non sono mai stato: la mia educazione domestica, profondamente e ingenuamente
morale, non aveva avuto nulla di applicato e addirittura neanche di religioso
nel senso di cattolico; la mia stupenda “mamma” era la creatura più innocente,
innocua e timida della terra, la sua era una religione naturale nel senso più
puro – Dio dicevo, continuava il suo lavoro dentro di me. Non c’era nessuna
ragione per cui io mi condannassi, dato che non credevo in Lui e anzi lo detestavo…
Eppure io in quegli anni, di ricaduta in ricaduta, in pieno giardino di Alcina,
ero sempre sotto i suoi occhi. Questa è la situazione del “Dio che non amo”.
Gli
istinti (posso chiamarli così) religiosi che erano in me mi portarono al comunismo.
Sbagliai, caddi. La contraddizione non poteva che venire alla luce. Non potevo
essere a metà religioso; e io che ho sempre scontato (con maniera quasi da
nevrotico, malgrado la mia natura serena e sana) ogni minima mancanza,
figurarsi se non dovevo scontare una simile contraddizione, una simile
vocazione impantanata nel compromesso. Rivoltato come un guanto, esposto come
un cristo in croce… Per capire alla lettera Paolo e Baruch del ’49 occorre
dunque una chiave: il lettore può immaginarla, altrimenti leggere in questi
testi solo ciò che è leggibile – e che importa – il riconoscimiento del mio
peccato di superbia (è sempre stato così: io, fiore di modestia ho finito
sempre con l’apparire, e quindi in molta parte con l’essere, un superbo); la
mia resa di fronte al re di Babilonia.
Nel
’50 – letteralmente fuggito de Casarsa – venni a Roma, a vivere la vita di un
disoccupato, che si ciba e dorme d’elemosina. In tali condizioni ogni problema
interiore perde interesse e chiarezza; l’identità personale, come avviene nei
momenti di estremo pericolo o di (…), si disgrega… Ho perduto di vista
Dio.
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