TRATTATO PRIMO.
Capitolo I.
1. Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere ed è che ciascuna cosa, da providenza di propria natura impinta è inclinabile a la sua propria perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti. 2. Veramente da questa nobilissima perfezione molti sono privati per diverse cagioni, che dentro a l'uomo e di fuori da esso lui rimovono da l'abito di scienza. 3. Dentro da l'uomo possono essere due difetti e impedi[men]ti: l'uno da la parte del corpo, l'altro da la parte de l'anima. Da la parte del corpo è quando le parti sono indebitamente disposte, sì che nulla ricevere può, sì come sono sordi e muti e loro simili. Da la parte de l'anima è quando la malizia vince in essa, sì che si fa seguitatrice di viziose delettazioni, ne le quali riceve tanto inganno che per quelle ogni cosa tiene a vile. 4. Di fuori da l'uomo possono essere similemente due cagioni intese, l'una de le quali è induttrice di necessitade, l'altra di pigrizia. La prima è la cura familiare e civile, la quale convenevolmente a sè tiene de li uomini lo maggior numero, sì che in ozio di speculazione esser non possono. L'altra è lo difetto del luogo dove la persona è nata e nutrita, che tal ora sarà da ogni Studio non solamente privato, ma da gente studiosa lontano.
5. Le due di queste cagioni, cioè la prima da la parte [di dentro e la prima da la parte] di fuori, non sono da vituperare, ma da escusare e di perdono degne; le due altre, avvegna che l'una più, sono degne di biasimo e d'abominazione. 6. Manifestamente adunque può vedere chi bene considera, che pochi rimangono quelli che a l'abito da tutti desiderato possano pervenire, e innumerabili quasi sono li 'mpediti che di questo cibo sempre vivono affamati. 7. Oh beati quelli pochi che seggiono a quella mensa dove lo pane de li angeli si manuca! e miseri quelli che con le pecore hanno comune cibo! 8. Ma però che ciascuno uomo a ciascuno uomo naturalmente è amico, e ciascuno amico si duole del difetto di colui ch'elli ama, coloro che a così alta mensa sono cibati non sanza misericordia sono inver di quelli che in bestiale pastura veggiono erba e ghiande sen gire mangiando. 9. E acciò che misericordia è madre di beneficio, sempre liberalmente coloro che sanno porgono de la loro buona ricchezza a li veri poveri, e sono quasi fonte vivo, de la cui acqua si refrigera la naturale sete che di sopra è nominata. 10. E io adunque, che non seggio a la beata mensa, ma, fuggito de la pastura del vulgo, a' piedi di coloro che seggiono ricolgo di quello che da loro cade, e conosco la misera vita di quelli che dietro m'ho lasciati, per la dolcezza ch'io sento in quello che a poco a poco ricolgo, misericordievolmente mosso, non me dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale a li occhi loro, già è più tempo, ho dimostrata; e in ciò li ho fatti maggiormente vogliosi. 11. Per che ora volendo loro apparecchiare, intendo fare un generale convivio di ciò ch'i' ho loro mostrato, e di quello pane ch'è mestiere a così fatta vivanda, sanza lo quale da loro non potrebbe esser mangiata. 12. E questo [è quello] convivio, di quello pane degno, con tale vivanda qual io intendo indarno [non] essere ministrata. E però ad esso non s'assetti alcuno male de' suoi organi disposto, però che nè denti nè lingua ha nè palato; nè alcuno settatore di vizii, perchè lo stomaco suo è pieno d'omori venenosi contrarii, sì che mai vivanda non terrebbe. 13. Ma vegna qua qualunque è [per cura] familiare o civile ne la umana fame rimaso, e ad una mensa con li altri simili impediti s'assetti; e a li loro piedi si pongano tutti quelli che per pigrizia si sono stati, che non sono degni di più alto sedere: e quelli e questi prendano la mia vivanda col pane, che la far[à] loro e gustare e patire. 14. La vivanda di questo convivio sarà di quattordici maniere ordinata, cioè quattordici canzoni sì d'amor come di vertù materiate, le quali sanza lo presente pane aveano d'alcuna oscuritade ombra, sì che a molti loro bellezza più che loro bontade era in grado. 15. Ma questo pane, cioè la presente disposizione, sarà la luce la quale ogni colore di loro sentenza farà parvente.
16. E se ne la presente opera, la quale è Convivio nominata e vo' che sia, più virilmente si trattasse che ne la Vita Nuova, non intendo però a quella in parte alcuna derogare, ma maggiormente giovare per questa quella; veggendo sì come ragionevolmente quella fervida e passionata, questa temperata e virile esser conviene. 17. Chè altro si conviene e dire e operare ad una etade che ad altra; perchè certi costumi sono idonei e laudabili ad una etade che sono sconci e biasimevoli ad altra, sì come di sotto, nel quarto trattato di questo libro, sarà propria ragione mostrata. E io in quella dinanzi, a l'entrata de la mia gioventute parlai, e in questa dipoi, quella già trapassata. 18. E con ciò sia cosa che la vera intenzione mia fosse altra che quella che di fuori mostrano le canzoni predette, per allegorica esposizione quelle intendo mostrare, appresso la litterale istoria ragionata; sì che l'una ragione e l'altra darà sapore a coloro che a questa cena sono convitati. 19. Li quali priego tutti che se lo convivio non fosse tanto splendido quanto conviene a la sua grida, che non al mio volere ma a la mia facultade imputino ogni difetto; però che la mia voglia di compita e cara liberalitate è qui seguace.
Capitolo II.
1. Nel cominciamento di ciascuno bene ordinato convivio sogliono li sergenti prendere lo pane apposito, e quello purgare da ogni macula. Per che io, che ne la presente scrittura tengo luogo di quelli, da due macule mondare intendo primieramente questa esposizione, che per pane si conta nel mio corredo. 2. L'una, è che parlare alcuno di se medesimo pare non licito; l'altra è, che parlare in esponendo troppo a fondo pare non ragionevole: e lo illicito e 'l non ragionevole lo coltello del mio giudicio purga in questa forma. 3. Non si concede per li retorici alcuno di se medesimo sanza necessaria cagione parlare, e da ciò è l'uomo rimosso, perchè parlare d'alcuno non si può che il parladore non lodi o non biasimi quelli di cui elli parla; le quali due cagioni rusticamente stanno, a far [dire] di sè, ne la bocca di ciascuno. 4. E per levare un dubbio che qui surge, dico che peggio sta biasimare che lodare, avvegna che l'uno e l'altro non sia da fare. La ragione è che qualunque cosa è per sè da biasimare, è più laida che quella che è per accidente. 5. Dispregiar se medesimo è per sè biasimevole, però che a l'amico dee l'uomo lo suo difetto contare strettamente, e nullo è più amico che l'uomo a sè; onde ne la camera de' suoi pensieri se medesimo riprender dee e piangere li suoi difetti, e non palese. 6. Ancora: del non potere e del non sapere ben sè menare le più volte non è l'uomo vituperato, ma del non volere è sempre, perchè nel volere e nel non volere nostro si giudica la malizia e la bontade; e però chi biasima se medesimo appruova sè conoscere lo suo difetto, appruova sè non essere buono: per che, per sè, è da lasciare di parlare sè biasimando. 7. Lodare sè è da fuggire sì come male per accidente, in quanto lodare non si può, che quella loda non sia maggiormente vituperio. È loda ne la punta de le parole, è vituperio chi cerca loro nel ventre: chè le parole sono fatte per mostrare quello che non si sa, onde chi loda sè mostra che non creda essere buono tenuto; che non li incontra sanza maliziata conscienza, la quale, sè lodando, discuopre e, discoprendo, si biasima.
8. E ancora la propria loda e lo proprio biasimo è da fuggire per una ragione igualmente, sì come falsa testimonianza fare; però che non è uomo che sia di sè vero e giusto misuratore, tanto la propria caritate ne 'nganna. 9. Onde avviene che ciascuno ha nel suo giudicio le misure del falso mercatante, che compera con l'una e vende con l'altra; e ciascuno con ampia misura cerca lo suo mal fare e con piccola cerca lo bene; sì che 'l numero e la quantità e 'l peso del bene li pare più che se con giusta misura fosse saggiato, e quello del male meno. 10. Per che, parlando di sè con loda o col contrario, o dice falso per rispetto a la cosa di che parla; o dice falso per rispetto a la sua sentenza, c'ha l'una e l'altra falsitate. 11. E però, con ciò sia cosa che lo consentire è uno confessare, villania fa chi loda o chi biasima dinanzi al viso alcuno, perchè nè consentire nè negare puote lo così estimato sanza cadere in colpa di lodarsi o di biasimare: salva qui la via de la debita correzione, che essere non può sanza improperio del fallo che correggere s'intende; e salva la via del debito onorare e magnificare, la quale passar non si può sanza far menzione de l'opere virtuose, o de le dignitadi virtuosamente acquistate.
12. Veramente, al principale intendimento tornando, dico, come è toccato di sopra, per necessarie cagioni lo parlare di sè è conceduto: e intra l'altre necessarie cagioni due sono più manifeste. 13. L'una è quando sanza ragionare di sè grande infamia o pericolo non si può cessare; e allora si concede, per la ragione che de li due sentieri prendere lo men reo è quasi prendere un buono. E questa necessitate mosse Boezio di se medesimo a parlare, acciò che sotto pretesto di consolazione escusasse la perpetuale infamia del suo essilio, mostrando quello essere ingiusto, poi che altro escusatore non si levava. 14. L'altra è quando, per ragionare di sè, grandissima utilitade ne segue altrui per via di dottrina; e questa ragione mosse Agustino ne le sue Confessioni a parlare di sè, chè per lo processo de la sua vita, lo quale fu di [non] buono in buono, e di buono in migliore, e di migliore in ottimo, ne diede essemplo e dottrina, la quale per sì vero testimonio ricevere non si potea. 15. Per che se l'una e l'altra di queste ragioni mi scusa, sufficientemente lo pane del mio formento è purgato de la prima sua macula. Movemi timore d'infamia, e movemi desiderio di dottrina dare la quale altri veramente dare non può. 16. Temo la infamia di tanta passione avere seguita, quanta concepe chi legge le sopra nominate canzoni in me avere segnoreggiata; la quale infamia si cessa, per lo presente di me parlare, interamente, lo quale mostra che non passione ma vertù sia stata la movente cagione. 17. Intendo anche mostrare la vera sentenza di quelle, che per alcuno vedere non si può s'io non la conto, perchè è nascosa sotto figura d'allegoria: e questo non solamente darà diletto buono a udire, ma sottile ammaestramento e a così parlare e a così intendere l'altrui scritture.
Capitolo III.
1. Degna di molta riprensione è quella cosa che, ordinata a torre alcuno difetto, per se medesima quello induce; sì come quelli che fosse mandato a partire una rissa e, prima che partisse quella, ne iniziasse un'altra. 2. E però che lo mio pane è purgato da una parte, convienlomi purgare da l'altra, per fuggire questa riprensione, che lo mio scritto, che quasi comento dir si può, è ordinato a levar lo difetto de le canzoni sopra dette, ed esso per sè fia forse in parte alcuna un poco duro. La qual durezza, per fuggir maggiore difetto, non per ignoranza, è qui pensata. 3. Ahi, piaciuto fosse al dispensatore de l'universo che la cagione de la mia scusa mai non fosse stata! chè nè altri contra me avria fallato, nè io sofferto avria pena ingiustamente, pena, dico, d'essilio e di povertate. 4. Poi che fu piacere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno - nel quale nato e nutrito fui in fino al colmo de la vita mia, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto lo cuore di riposare l'animo stancato e terminare lo tempo che m'è dato -, per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. 5. Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade; e sono apparito a li occhi a molti che forsechè per alcuna fama in altra forma m'aveano imaginato, nel conspetto de' quali non solamente mia persona invilio, ma di minor pregio si fece ogni opera, sì già fatta, come quella che fosse a fare. 6. La ragione per che ciò incontra - non pur in me, ma in tutti - brievemente or qui piace toccare: e prima, perchè la stima oltre la veritade si sciampia; e poi, perchè la presenzia oltre la veritade stringe. 7. La fama buona principalmente è generata da la buona operazione ne la mente de l'amico, e da quella è prima partorita; chè la mente del nemico, avvegna che riceva lo seme, non concepe. 8. Quella mente che prima la partorisce, sì per far più ornato lo suo presente, sì per la caritade de l'amico che lo riceve, non si tiene a li termini del vero, ma passa quelli. E quando per ornare ciò che dice li passa, contra conscienza parla; quando inganno di caritade li fa passare, non parla contra essa. 9. La seconda mente che ciò riceve, non solamente a la dilatazione de la prima sta contenta, ma 'l suo riportamento, sì come qu[as]i suo effetto, procura d'adornare; e sì, che per questo fare e per lo 'nganno che riceve de la caritade in lei generata, quella più ampia fa che a lei non viene, e con concordia e con discordia di conscienza come la prima. E questo fa la terza ricevitrice e la quarta, e così in infinito si dilata. 10. E così, volgendo le cagioni sopra dette ne le contrarie, si può vedere la ragione de la infamia, che simigliantemente si fa grande. Per che Virgilio dice nel quarto de lo Eneida che la Fama vive per essere mobile, e acquista grandezza per andare. 11. Apertamente adunque veder può chi vuole che la imagine per sola fama generata sempre è più ampia, quale che essa sia, che non è la cosa imaginata nel vero stato.
Capitolo IV.
1. Mostrata ragione innanzi per che la fama dilata lo bene e lo male oltre la vera quantità, resta in questo capitolo a mostrar quelle ragioni che fanno vedere perchè la presenza ristringe per opposito; e mostrate quelle, si verrà lievemente al principale proposito, cioè de la sopra notata scusa.
2. Dico adunque che per tre cagioni la presenza fa la persona di meno valore ch'ella non è: l'una de le quali è puerizia, non dico d'etate ma d'animo; la seconda è invidia, - e queste sono ne lo giudicatore -; la terza è l'umana impuritade, e questa è ne lo giudicato. 3. La prima si può brievemente così ragionare. La maggiore parte de li uomini vivono secondo senso e non secondo ragione, a guisa di pargoli; e questi cotali non conoscono le cose se non semplicemente di fuori, e la loro bontade, la quale a debito fine è ordinata, non veggiono, per ciò che hanno chiusi li occhi de la ragione, li quali passano a veder quello. Onde tosto veggiono tutto ciò che ponno, e giudicano secondo la loro veduta. 4. E però che alcuna oppinione fanno ne l'altrui fama per udita, da la quale ne la presenza si discorda lo imperfetto giudicio che non secondo ragione ma secondo senso giudica solamente, quasi menzogna reputano ciò che prima udito hanno, e dispregiano la persona prima pregiata. 5. Onde appo costoro, che sono, ohmè, quasi tutti, la presenza ristringe l'una e l'altra qualitade. Questi cotali tosto sono vaghi e tosto sono sazii, spesso sono lieti e spesso tristi di brievi dilettazioni e tristizie, tosto amici e tosto nemici; ogni cosa fanno come pargoli, sanza uso di ragione. 6. La seconda si vede per queste ragioni: che paritade ne li viziosi è cagione d'invidia, e invidia è cagione di mal giudicio, però che non lascia la ragione argomentare per la cosa invidiata, e la potenza giudicativa è allora quel giudice che ode pur l'una parte. 7. Onde quando questi cotali veggiono la persona famosa, incontanente sono invidi, però che veggiono a s[è] pari membra e pari potenza, e temono, per la eccellenza di quel cotale, meno esser pregiati. 8. E questi non solamente passionati mal giudicano, ma, diffamando, fanno a li altri mal giudicare; per che appo costoro la presenza ristringe lo bene e lo male in ciascuno appresentato: e dico lo male, perchè molti, dilettandosi ne le male operazioni, hanno invidia a' mali operatori. 9. La terza si è l'umana impuritade, la quale si prende da la parte di colui ch'è giudicato, e non è sanza familiaritade e conversazione alcuna. Ad evidenza di questa, è da sapere che l'uomo è da più parti maculato, e, come dice Agustino, nullo è sanza macula. 10. Quando è l'uomo maculato d'una passione, a la quale tal volta non può resistere; quando è maculato d'alcuno disconcio membro; e quando è maculato d'alcuno colpo di fortuna; e quando è maculato d'infamia di parenti o d'alcuno suo prossimo: le quali cose la fama non porta seco ma la presenza, e discuoprele per sua conversazione. 11. E queste macule alcuna ombra gittano sopra la chiarezza de la bontade, sì che la fanno parere men chiara e men valente. E questo è quello per che ciascuno profeta è meno onorato ne la sua patria; questo è quello per che l'uomo buono dee la sua presenza dare a pochi e la familiaritade dare a meno, acciò che 'l nome suo sia ricevuto, ma non spregiato. 12. E questa terza cagione può essere così nel male come nel bene, se le cose de la sua ragione si volgano ciascuna in suo contrario. Per che manifestamente si vede che per impuritade, sanza la quale non è alcuno, la presenza ristringe lo bene e lo male in ciascuno più che 'l vero non vuole.
13. Onde con ciò sia cosa che, come detto è di sopra, io mi sia quasi a tutti li Italici appresentato, per che fatto mi sono più vile forse che 'l vero non vuole non solamente a quelli a li quali mia fama era già corsa, ma eziandio a li altri, onde le mie cose sanza dubbio meco sono alleviate; conviemmi che con più alto stilo dea, ne la presente opera, un poco di gravezza, per la quale paia di maggiore autoritade. E questa scusa basti a la fortezza del mio comento.
Capitolo V.
1. Poi che purgato è questo pane da le macule accidentali, rimane ad escusare lui da una sustanziale, cioè da l'essere vulgare e non latino; che per similitudine dire si può di biado e non di frumento. 2. E da ciò brievemente lo scusano tre ragioni, che mossero me ad eleggere innanzi questo che l'altro: l'una si muove da cautela di disconvenevole ordinazione; l'altra da prontezza di liberalitade; la terza da lo naturale amore a propria loquela. 3. E queste cose per sue ragioni, a sodisfacimento di ciò che riprendere si potesse per la notata ragione, intendo per ordine ragionare in questa forma.
4. Quella cosa che più adorna e commenda l'umana operazione, e che più dirittamente a buon fine la mena, sì è l'abito di quelle disposizioni che sono ordinate a lo inteso fine; sì com'è ordinata al fine de la cavalleria franchezza d'animo e fortezza di corpo. 5. E così colui che è ordinato a l'altrui servigio dee avere quelle disposizioni che sono a quello fine ordinate, sì come subiezione, conoscenza e obedienza, sanza le quali è ciascuno disordinato a ben servire; perchè, s'elli non è subietto in ciascuna condizione, sempre con fatica e con gravezza procede nel suo servigio e rade volte quello continua; e se elli non è [conoscente del bisogno del suo signore e a lui non è] obediente, non serve mai se non a suo senno e a suo volere, che è più servigio d'amico che di servo. 6. Dunque, a fuggire questa disordinazione, conviene questo comento, che è fatto invece di servo a le 'nfrascritte canzoni, esser subietto a quelle in ciascuna sua [condi]zione, ed essere conoscente del bisogno del suo signore e a lui obediente. 7. Le quali disposizioni tutte li mancavano, se latino e non volgare fosse stato, poi che le canzoni sono volgari. Chè, primamente, non era subietto ma sovrano, e per nobilità e per vertù e per bellezza. Per nobilità, perchè lo latino è perpetuo e non corruttibile, e lo volgare è non stabile e corruttibile. 8. Onde vedemo ne le scritture antiche de le comedie e tragedie latine, che non si possono transmutare, quello medesimo che oggi avemo; che non avviene del volgare, lo quale a piacimento artificiato si transmuta. 9. Onde vedemo ne le cittadi d'Italia, se bene volemo agguardare, da cinquanta anni in qua molti vocabuli essere spenti e nati e variati; onde se 'l picciol tempo così transmuta, molto più transmuta lo maggiore. Sì ch'io dico, che se coloro che partiron d'esta vita già sono mille anni tornassero a le loro cittadi, crederebbero la loro cittade essere occupata da gente strana, per la lingua da loro discordante. 10. Di questo si parlerà altrove più compiutamente in uno libello ch'io intendo di fare, Dio concedente, di Volgare Eloquenza.
11. Ancora, non era subietto ma sovrano per vertù. Ciascuna cosa è virtuosa in sua natura che fa quello a che ella è ordinata; e quanto meglio lo fa tanto è più virtuosa. Onde dicemo uomo virtuoso che vive in vita contemplativa o attiva, a le quali è ordinato naturalmente; dicemo del cavallo virtuoso che corre forte e molto, a la qual cosa è ordinato; dicemo una spada virtuosa che ben taglia le dure cose, a che essa è ordinata. 12. Così lo sermone, lo quale è ordinato a manifestare lo concetto umano, è virtuoso quando quello fa, e più virtuoso quello che più lo fa; onde, con ciò sia cosa che lo latino molte cose manifesta concepute ne la mente che lo volgare far non può, sì come sanno quelli che hanno l'uno e l'altro sermone, più è la vertù sua che quella del volgare.
13. Ancora, non era subietto ma sovrano per bellezza. Quella cosa dice l'uomo essere bella cui le parti debitamente si rispondono, per che de la loro armonia resulta piacimento. Onde pare l'uomo essere bello, quando le sue membra debitamente si rispondono; e dicemo bello lo canto, quando le voci di quello, secondo debito de l'arte, sono intra sè rispondenti. 14. Dunque quello sermone è più bello ne lo quale più debitamente si rispondono [le parole; e più debitamente si rispondono] in latino che in volgare, però che lo volgare seguita uso, e lo latino arte: onde concedesi esser più bello, più virtuoso e più nobile. 15. Per che si conchiude lo principale intendimento, cioè che non sarebbe stato subietto a le canzoni, ma sovrano.
Capitolo VI.
1. Mostrato come lo presente comento non sarebbe stato subietto a le canzoni volgari se fosse stato latino, resta a mostrare come non sarebbe stato conoscente, nè obediente a quelle; e poi sarà conchiuso come per cessare disconvenevoli disordinazioni fu mestiere volgarmente parlare. 2. Dico che 'l latino non sarebbe stato servo conoscente al signore volgare per cotal ragione. La conoscenza del servo si richiede massimamente a due cose perfettamente conoscere. 3. L'una si è la natura del signore: onde sono signori di sì asinina natura che comandano lo contrario di quello che vogliono, e altri che sanza dire vogliono essere intesi, e altri che non vogliono che 'l servo si muova a fare quello ch'è mestiere se nol comandano. 4. E perchè queste variazioni sono ne li uomini non intendo al presente mostrare, che troppo multiplicherebbe la digressione; se non in tanto, che dico in genere che cotali sono quasi bestie, a li quali la ragione fa poco prode. Onde, se 'l servo non conosce la natura del suo signore, manifesto è che perfettamente servire nol può. 5. L'altra cosa è, che si conviene conoscere al servo, li amici del suo signore, chè altrimenti non li potrebbe onorare nè servire, e così non servirebbe perfettamente lo suo signore; con ciò sia cosa che li amici siano quasi parti d'un tutto, però che 'l tutto loro è uno volere e uno non volere.
6. Nè lo comento latino avrebbe avuta la conoscenza di queste cose, che l'ha 'l volgare medesimo. Che lo latino non sia conoscente del volgare e de' suoi amici, così si pruova. Quelli che conosce alcuna cosa in genere, non conosce quella perfettamente: sì come, se conosce da lungi uno animale, non conosce quello perfettamente, perchè non sa se s'è cane o lupo o becco. 7. Lo latino conosce lo volgare in genere, ma non distinto: che se esso lo conoscesse distinto, tutti li volgari conoscerebbe, perchè non è ragione che l'uno più che l'altro conoscesse; e così in qualunque uomo fosse tutto l'abito del latino, sarebbe l'abito di conoscenza distinto de lo volgare. 8. Ma questo non è; chè uno abituato di latino non distingue, s'elli è d'Italia, lo volgare [inghilese] da lo tedesco; nè lo tedesco, lo volgare italico dal provenzale. Onde è manifesto che lo latino non è conoscente de lo volgare. 9. Ancora, non è conoscente de' suoi amici, però ch'è impossibile conoscere li amici, non conoscendo lo principale; onde, se non conosce lo latino lo volgare, come provato è di sopra, impossibile è a lui conoscere li suoi amici. 10. Ancora, sanza conversazione o familiaritade impossibile è a conoscere li uomini: e lo latino non ha conversazione con tanti in alcuna lingua con quanti ha lo volgare di quella, al quale tutti sono amici; e per consequente non può conoscere li amici del volgare. 11. E non è contradizione ciò che dire si potrebbe, che lo latino pur conversa con alquanti amici de lo volgare: chè però non è familiare di tutti, e così non è conoscente de li amici perfettamente; però che si richiede perfetta conoscenza, e non difettiva.
Capitolo VII.
1. Provato che lo comento latino non sarebbe stato servo conoscente, dirò come non sarebbe stato obediente. 2. Obediente è quelli che ha la buona disposizione che si chiama obedienza. La vera obedienza conviene avere tre cose, sanza le quali essere non può: vuole essere dolce, e non amara; e comandata interamente, e non spontanea; e con misura, e non dismisurata. 3. Le quali tre cose era impossibile ad avere lo latino comento, e però era impossibile ad essere obediente. Che a lo latino fosse stato impossibile, come detto è, si manifesta per cotale ragione. 4. Ciascuna cosa che da perverso ordine procede è laboriosa, e per consequente è amara e non dolce, sì come dormire lo die e vegghiare la notte, e andare indietro e non innanzi. Comandare lo subietto a lo sovrano procede da ordine perverso - chè ordine diritto è lo sovrano a lo subietto comandare -, e così è amaro, e non dolce. E però che a l'amaro comandamento è impossibile dolcemente obedire, impossibile è, quando lo subietto comanda, la obedienza del sovrano essere dolce. 5. Dunque se lo latino è sovrano del volgare, come di sopra per più ragioni è mostrato, e le canzoni, che sono in persona di comandatore, sono volgari, impossibile è sua [obedienza] esser dolce.
6. Ancora: allora è la obedienza interamente comandata e da nulla parte spontanea, quando quello che fa chi fa obediendo non averebbe fatto sanza comandamento, per suo volere, nè tutto nè in parte. 7. E però se a me fosse comandato di portare due guarnacche in dosso, e sanza comandamento io mi portasse l'una, dico che la mia obedienza non è interamente comandata, ma in parte spontanea. E cotale sarebbe stata quella del comento latino; e per consequente non sarebbe stata obedienza comandata interamente. 8. Che fosse stata cotale, appare per questo: che lo latino sanza lo comandamento di questo signore averebbe esposite molte parti de la sua sentenza - ed espone, chi cerca bene le scritture latinamente scritte - che non lo fa lo volgare in parte alcuna.
9. Ancora: è l'obedienza con misura, e non dismisurata, quando al termine del comandamento va, e non più oltre; sì come la natura particulare è obediente a la universale, quando fa trentadue denti a l'uomo, e non più nè meno, e quando fa cinque dita ne la mano, e non più nè meno; e l'uomo è obediente a la giustizia [quando fa pagar lo debito de la pena, e non più nè meno che la giustizia] comanda, al peccatore. 10. Nè questo averebbe fatto lo latino, ma peccato averebbe non pur nel difetto, e non pur nel soperchio, ma in ciascuno; e così non sarebbe stata la sua obedienza misurata, ma dismisurata, e per consequente non sarebbe stato obediente. 11. Che non fosse stato lo latino empitore del comandamento del suo signore, e che ne fosse stato soperchiatore, leggermente si può mostrare. Questo signore, cioè queste canzoni, a le quali questo comento è per servo ordinato, comandano e vogliono essere esposte a tutti coloro a li quali puote venire sì lo loro intelletto, che quando parlano elle siano intese; e nessuno dubita, che s'elle comandassero a voce, che questo non fosse lo loro comandamento. 12. E lo latino non l'averebbe esposte se non a' litterati, chè li altri non l'averebbero inteso. Onde con ciò sia cosa che molti più siano quelli che desiderano intendere quelle non litterati che litterati, seguitasi che non averebbe pieno lo suo comandamento come 'l volgare, che da li litterati e non litterati è inteso. 13. Anche, lo latino l'averebbe esposte a gente d'altra lingua, sì come a Tedeschi e Inghilesi e altri, e qui averebbe passato lo loro comandamento; chè contra loro volere, largo parlando dico, sarebbe essere esposta la loro sentenza colà dov'elle non la potessero con la loro bellezza portare. 14. E però sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può de la sua loquela in altra transmutare sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia. 15. E questa è la cagione per che Omero non si mutò di greco in latino come l'altre scritture che avemo da loro. E questa è la cagione per che li versi del Salterio sono sanza dolcezza di musica e d'armonia; chè essi furono transmutati d'ebreo in greco e di greco in latino, e ne la prima transmutazione tutta quella dolcezza venne meno. 16. E così è conchiuso ciò che si promise nel principio del capitolo dinanzi a questo immediate.
Capitolo VIII.
1. Quando è mostrato per le sufficienti ragioni come, per cessare disconvenevoli disordinamenti, converrebbe, [a le] nominate canzoni aprire e mostrare, comento volgare e non latino, mostrare intendo come ancora pronta liberalitate mi fece questo eleggere e l'altro lasciare. 2. Puotesi adunque la pronta liberalitate in tre cose notare, le quali seguitano questo volgare, e lo latino non averebbero seguitato. La prima è dare a molti; la seconda è dare utili cose; la terza è, sanza essere domandato lo dono, dare quello. 3. Chè dare a uno e giovare a uno è bene; ma dare a molti e giovare a molti è pronto bene, in quanto prende simiglianza da li benefici di Dio, che è universalissimo benefattore. 4. E ancora, dare a molti è impossibile sanza dare a uno, acciò che uno in molti sia inchiuso; ma dare a uno si può bene, sanza dare a molti. Però chi giova a molti fa l'uno bene e l'altro; chi giova a uno, fa pur un bene: onde vedemo li ponitori de le leggi massimamente pur a li più comuni beni tenere confissi li occhi, quelle componendo. 5. Ancora, dare cose non utili al prenditore pure è bene, in quanto colui che dà mostra almeno sè essere amico; ma non è perfetto bene, e così non è pronto: come quando uno cavaliere donasse ad uno medico uno scudo, e quando uno medico donasse a uno cavaliere scritti li Aphorismi d'Ipocràs, ovvero li Tegni di Galieno. Per che li savi dicono che la faccia del dono dee essere simigliante a quella del ricevitore, cioè a dire che si convegna con lui, e che sia utile: e in quello è detta pronta liberalitade di colui che così dicerne donando. 6. Ma però che li morali ragionamenti sogliono dare desiderio di vedere l'origine loro, brievemente in questo capitolo intendo mostrare quattro ragioni per che di necessitade lo dono, acciò che in quello sia pronta liberalitade, conviene essere utile a chi riceve.
7. Primamente, però che la vertù dee essere lieta, e non trista in alcuna sua operazione; onde, se 'l dono non è lieto nel dare e nel ricevere, non è in esso perfetta vertù, non è pronta. Questa letizia non può dare altro che utilitade, che rimane nel datore per lo dare, e che viene nel ricevitore per ricevere. 8. Nel datore adunque dee essere la providenza in far sì che de la sua parte rimagna l'utilitade de l'onestate, ch'è sopra ogni utilitade, e far sì che a lo ricevitore vada l'utilitade de l'uso de la cosa donata; e così sarà l'uno e l'altro lieto, e per consequente sarà più pronta la liberalitade. 9. Secondamente, però che la vertù dee muovere le cose sempre al migliore. Chè così come sarebbe biasimevole operazione fare una zappa d'una bella spada o fare un bel nappo d'una bella chitarra, così è biasimevole muover la cosa d'un luogo dove sia utile e portarla in parte dove sia meno utile. 10. E però che biasimevole è invano adoperare, biasimevole è non solamente a porre la cosa in parte dove sia meno utile, ma eziandio in parte ove sia igualmente utile. 11. Onde, acciò che sia laudabile lo mutare de le cose, conviene sempre essere [al] migliore, per ciò che dee massimamente essere laudabile: e questo non [si] può fare nel dono se 'l dono per transmutazione non viene più caro; nè più caro può venire, se esso non è più utile ad usare al ricevitore che al datore. Per che si conchiude che 'l dono conviene essere utile a chi lo riceve, acciò che sia in esso pronta liberalitade. 12. Terziamente, però che la operazione de la vertù per sè dee essere acquistatrice d'amici; con ciò sia cosa che la nostra vita di quello abbisogni, e lo fine de la vertù sia la nostra vita essere contenta. Onde acciò che 'l dono faccia lo ricevitore amico, conviene a lui essere utile, però che l'utilitade sigilla la memoria de la imagine del dono, l[a] quale è nutrimento de l'amistade; e tanto più forte, quanto essa è migliore. 13. Onde suole dire Martino: 'Non caderà de la mia mente lo dono che mi fece Giovanni'. Per che, acciò che nel dono sia la sua vertù, la quale è liberalitade, e che essa sia pronta, conviene essere utile a chi riceve. 14. Ultimamente, però che la vertù dee avere atto libero e non sforzato. Atto libero è quando una persona va volentieri ad alcuna parte, che si mostra nel tener volto lo viso in quella; atto sforzato è quando contra voglia si va, che si mostra in non guardare ne la parte dove si va. 15. E allora sì guarda lo dono a quella parte, quando si dirizza al bisogno de lo ricevente. E però che dirizzarsi ad esso non si può se non sia utile, conviene, acciò che sia con atto libero la vertù, essere [utile] lo dono a la parte ov'elli vae, ch'è lo ricevitore; e per consequente conviene essere ne lo dono l'utilità de lo ricevitore, acciò che quinci sia pronta liberalitade.
16. La terza cosa, ne la quale si può notare la pronta liberalitade, si è dare non domandato: acciò che 'l domandato è da una parte non vertù ma mercatantia, però che lo ricevitore compera, tutto che 'l datore non venda. Per che dice Seneca che «nulla cosa più cara si compera che quella dove i prieghi si spendono». 17. Onde acciò che nel dono sia pronta liberalitade e che essa si possa in esso notare, allora, s[e] conviene esser netto d'ogni atto di mercatantia, conviene esser lo dono non domandato. 18. Perchè sì caro costa quello che si priega, non intendo qui ragionare, perchè sufficientemente si ragionerà ne l'ultimo trattato di questo libro.
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