Thursday, 17 August 2017

"Apparecchio alla Morte" by St Alfonso Maria de Liguori (in Italian) – XXVII

CONSIDERAZIONE XXVI - DELLE PENE DELL'INFERNO
«Et ibunt hi in supplicium aeternum» (Matth. 25. 46).

PUNTO I
              Due mali fa il peccatore, allorché pecca, lascia Dio sommo bene, e si rivolta alle creature: «Duo enim mala fecit populus meus, me dereliquerunt fontem aquae vivae, et foderunt sibi cisternas; cisternas dissipatas, quae continere non valent aquas» (Ier. 2. 13). Perché dunque il peccatore si volta alle creature con disgusto di Dio, giustamente nell'inferno sarà tormentato dalle stesse creature, dal fuoco e da' demonii, e questa è la pena del senso. Ma perché la sua colpa maggiore, dove consiste il peccato, è il voltare le spalle a Dio, perciò la pena principale che sarà nell'inferno, sarà la pena del danno. Ch'é1 la pena d'aver perduto Dio.
              Consideriamo prima la pena del senso. È di fede che vi è l'inferno. In mezzo alla terra vi è questa prigione riservata al castigo de' ribelli di Dio. Che cosa è questo inferno? è il luogo de' tormenti. «In hunc locum tormentorum», così chiamò l'inferno l'Epulone dannato (Luca 16. 28). Luogo di tormenti, dove tutti i sensi e le potenze del dannato hanno da avere il lor proprio tormento; e quanto più alcuno in un senso avrà offeso Dio, tanto più in quel senso avrà da esser tormentato: «Per quae peccat quis, per haec et torquetur» (Sap. 11. 17). «Quantum in deliciis fuit, tantum date illi tormentum» (Apoc. 18. 7). Sarà tormentata la vista colle tenebre. «Terram tenebrarum, et opertam mortis caligine» (Iob. 10. 21). Che compassione fa il sentire che un pover'uomo sta chiuso in una fossa oscura per mentre vive, per 40-50 anni di vita! L'inferno è una fossa chiusa da tutte le parti dove non entrerà mai raggio di sole o d'altra luce. «Usque in aeternum non videbit lumen» (Psal. 48. 20). Il fuoco che sulla terra illumina, nell'inferno sarà tutt'oscuro. «Vox Domini intercidentis flammam ignis» (Psal. 28. 7). Spiega S. Basilio: Il Signore dividerà dal fuoco la luce, onde tal fuoco farà solamente l'officio di bruciare, ma non d'illuminare; e lo spiega più in breve Alberto Magno: «Dividet a calore splendorem». Lo stesso fumo che uscirà da questo fuoco, componerà quella procella di tenebre, di cui parla S. Giacomo, che accecherà gli occhi de' dannati: «Quibus procella tenebrarum servata est in aeternum» (Iac. 2. 13). Dice S. Tommaso (3. p. q. 97. n. 4), che a' dannati è riservato tanto di luce solamente, quanto basta a più tormentarli. «Quantum sufficit ad videndum illa, quae torquere possunt». Vedranno in quel barlume di luce la bruttezza degli altri reprobi e de' demoni, che prenderanno forme orrende per più spaventarli.
                Sarà tormentato l'odorato. Che pena sarebbe trovarsi chiuso in una stanza con un cadavere fracido? «De cadaveribus eorum ascendit foetor» (Is. 34. 3). Il dannato ha da stare in mezzo a tanti milioni d'altri dannati, vivi alla pena, ma cadaveri per la puzza che mandano. Dice S. Bonaventura che se un corpo d'un dannato fosse cacciato dall'inferno, basterebbe a far morire per la puzza tutti gli uomini. E poi dicono alcuni pazzi: Se vado all'inferno, non sono solo. Miseri! quanti più sono nell'inferno, tanto più penano. «Ibi (dice S. Tommaso) miserorum societas miseriam non minuet, sed augebit» (S. Thom. Suppl. q. 89. a. 1). Più penano (dico) per la puzza, per le grida e per la strettezza; poiché staran nell'inferno l'un sopra l'altro, come pecore ammucchiate in tempo d'inverno: «Sicut oves in inferno positi sunt» (Psal. 48. 15). Anzi più, staran come uve spremute sotto il torchio dell'ira di Dio. «Et ipse calcat torcular vini furoris irae Dei» (Apoc. 19. 15). Dal che ne avverrà poi la pena dell'immobilità. «Fiant immobiles quasi lapis» (Exod. 15. 16). Sicché il dannato siccome caderà nell'inferno nel giorno finale, così avrà da restare senza cambiare più sito e senza poter più muovere né un piede, né una mano, per mentre Dio sarà Dio.
              Sarà tormentato l'udito cogli urli continui e pianti di quei poveri disperati. I demonii faranno continui strepiti. «Sonitus terroris semper in aure eius» (Iob. 15. 21). Che pena è quando si vuol dormire e si sente un infermo che continuamente si lamenta, un cane che abbaia, o un fanciullo che piange? Miseri dannati, che han da sentire di continuo per tutta l'eternità quei rumori e le grida di quei tormentati! Sarà tormentata la gola colla fame; avrà il dannato una fame canina: «Famem patientur ut canes» (Psal. 58. 15). Ma non avrà mai una briciola di pane. Avrà poi una tale sete, che non gli basterebbe tutta l'acqua del mare; ma non ne avrà neppure una stilla: una stilla ne domandava l'Epulone, ma questa non l'ha avuta ancora, e non l'avrà mai, mai.

Affetti e preghiere
              Ah mio Signore, ecco a' piedi vostri chi ha fatto tanto poco conto della vostra grazia e de' vostri castighi. Povero me, se Voi, Gesù mio, non aveste avuto di me pietà, da quanti anni starei in quella fornace puzzolente, dove già vi stanno ad ardere tanti pari miei! Ah mio Redentore, come pensando a ciò non ardo del vostro amore? come potrò per l'avvenire pensare ad offendervi di nuovo! Ah non sia mai, Gesu-Cristo mio, fatemi prima mille volte morire. Giacché avete cominciato, compite l'opera. Voi mi avete cacciato dal lezzo di tanti miei peccati, e con tanto amore mi avete chiamato ad amarvi; deh fate ora che questo tempo che mi date, io lo spenda tutto per Voi. Quanto desidererebbero i dannati un giorno, un'ora del tempo che a me concedete; ed io che farò? seguirò a spenderlo in cose di vostro disgusto? No, Gesù mio, non lo permettete, per li meriti di quel sangue, che sinora m'ha liberato dall'inferno. V'amo, o sommo bene, e perché v'amo mi pento di avervi offeso; non voglio più offendervi, ma sempre amarvi.
              Regina e Madre mia Maria, pregate Gesù per me, ed ottenetemi il dono della perseveranza e del suo santo amore.



PUNTO II
              La pena poi che più tormenta il senso del dannato, è il fuoco del l'inferno, che tormenta il tatto. «Vindicta carnis impii ignis, et vermis» (Eccli. 7. 19). Che perciò il Signore nel giudizio ne fa special menzione: «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum» (Matth. 41). Anche in questa terra la pena del fuoco è la maggior di tutte; ma vi è tanta differenza dal fuoco nostro a quello dell'inferno, che dice S. Agostino che 'l nostro sembra dipinto. «In eius comparatione noster hic ignis depictus est». E S. Vincenzo Ferreri dice che a confronto il nostro è freddo. La ragione è, perché il fuoco nostro è creato per nostro utile, ma il fuoco dell'inferno è creato da Dio a posta per tormentare. «Longe alius (dice Tertulliano) est ignis, qui usui humano, alius qui Dei iustitiae deservit». Lo sdegno di Dio accende questo fuoco vendicatore. «Ignis succensus est in furore meo» (Ier. 15. 14). Quindi da Isaia il fuoco dell'inferno è chiamato spirito d'ardore: «Si abluerit Dominus sordes... in spiritu ardoris» (Is. 4). Il dannato sarà mandato non al fuoco, ma nel fuoco: «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum». Sicché il misero sarà circondato dal fuoco, come un legno dentro una fornace. Si troverà il dannato con un abisso di fuoco da sotto, un abisso di sopra, e un abisso d'intorno. Se tocca, se vede, se respira; non tocca, non vede, né respira altro che fuoco. Starà nel fuoco come il pesce nell'acqua. Ma questo fuoco non solamente starà d'intorno al dannato, ma entrerà anche dentro le sue viscere a tormentarlo. Il suo corpo diventerà tutto di fuoco, sicché bruceranno le viscere dentro del ventre, il cuore dentro del petto, le cervella dentro il capo, il sangue dentro le vene, anche le midolla dentro l'ossa: ogni dannato diventerà in se stesso una fornace di fuoco. «Pone eos ut clibanum ignis» (Ps. 20. 10). Taluni non possono soffrire di camminare per una via battuta dal sole, di stare in una stanza chiusa con una braciera, non soffrire una scintilla, che svola da una candela; e poi non temono quel fuoco, che divora, come dice Isaia: «Quis poterit habitare de vobis cum igne devorante?» (Is. 33. 14). Siccome una fiera divora un capretto, così il fuoco dell'inferno divora il dannato; lo divora, ma senza farlo mai morire. Siegui pazzo, dice S. Pier Damiani (parlando al disonesto), siegui a contentare la tua carne, che verrà un giorno in cui le tue disonestà diventeranno tutte pece nelle tue viscere, che farà più grande e più tormentosa la fiamma che ti brucerà nell'inferno: «Venit dies, imo nox, quando libido tua vertetur in picem, qua se nutriat perpetuus ignis in tuis visceribus» (S. P. Dam. Epist. 6). Aggiunge S. Girolamo (Epist. ad Pam.) che questo fuoco porterà seco tutti i tormenti e dolori che si patiscono in questa terra; dolori di fianco e di testa, di viscere, di nervi: «In uno igne omnia supplicia sentiunt in inferno peccatores». In questo fuoco vi sarà anche la pena del freddo. «Ad nimium calorem transeat ab aquis nivium» (Iob. 24. 19). Ma sempre bisogna intendere che tutte le pene di questa terra sono un'ombra, come dice il Grisostomo, a paragone delle pene dell'inferno: «Pone ignem, pone ferrum, quid, nisi umbra ad illa tormenta?»
              Le potenze anche avranno il lor proprio tormento. Il dannato sarà tormentato nella memoria, col ricordarsi del tempo che ha avuto in questa vita per salvarsi, e l'ha speso per dannarsi; e delle grazie che ha ricevute da Dio, e non se ne ha voluto servire. Nell'intelletto, col pensare al gran bene che ha perduto, paradiso e Dio; e che a questa perdita non vi è più rimedio. Nella volontà, in vedere che gli sarà negata sempre ogni cosa che domanda. «Desiderium peccatorum peribit» (Ps. 111. 10). Il misero non avrà mai niente di quel che desidera, ed avrà sempre tutto quello che abborrisce, che saranno le sue pene eterne. Vorrebbe uscir da' tormenti, e trovar pace, ma sarà sempre tormentato, e non avrà mai pace.

Affetti e preghiere
              Ah Gesù mio, il vostro sangue e la vostra morte sono la speranza mia. Voi siete morto, per liberare me dalla morte eterna. Ah Signore, e chi più ha partecipato de' meriti della vostra passione, che io miserabile, il quale tante volte mi ho meritato l'inferno? Deh non mi fate vivere più ingrato a tante grazie che mi avete fatte. Voi m'avete liberato dal fuoco dell'inferno, perché non volete ch'io arda in quel fuoco di tormento, ma arda del dolce fuoco dell'amor vostro. Aiutatemi dunque, acciocché io possa compiacere il vostro desiderio. Se ora stessi nell'inferno, non vi potrei più amare; ma giacché posso amarvi, io vi voglio amare. V'amo bontà infinita, v'amo mio Redentore, che tanto mi avete amato. Come ho potuto vivere tanto tempo scordato di Voi! Vi ringrazio che Voi non vi siete scordato di me. Se di me vi foste scordato, o starei al presente nell'inferno, o non avrei dolore de' miei peccati. Questo dolore che mi sento nel cuore di avervi offeso, questo desiderio che provo di amarvi assai, son doni della vostra grazia, che ancora mi assiste. Ve ne ringrazio, Gesù mio. Spero per l'avvenire di dare a Voi la vita che mi resta. Rinunzio a tutto. Voglio solo pensare a servirvi e darvi gusto. Ricordatemi sempre l'inferno che mi ho meritato, e le grazie che mi avete fatte; e non permettete ch'io abbia un'altra volta a voltarvi le spalle, ed a condannarmi da me stesso a questa fossa di tormenti.
              O Madre di Dio, pregate per me peccatore. La vostra intercessione m'ha liberato dall'inferno, con questa ancora liberatemi, o Madre mia, dal peccato, che solo può condannarmi di nuovo all'inferno.

PUNTO III
              Ma tutte queste pene son niente a rispetto della pena del danno. Non fanno l'inferno le tenebre, la puzza, le grida e 'l fuoco; la pena che fa l'inferno è la pena di aver perduto Dio. Dice S. Brunone: «Addantur tormenta tormentis, ac Deo non priventur» (Serm. de Iud. fin.). E S. Gio. Grisostomo: «Si mille dixeris gehennas, nihil par dices illius doloris» (Hom. 49. ad Pop.). Ed aggiunge S. Agostino che se i dannati godessero la vista di Dio, «nullam poenam sentirent, et infernus ipse verteretur in paradisum» (S. Aug. to. 9. de Tripl. hab.). Per intendere qualche cosa di questa pena, si consideri che se taluno perde (per esempio) una gemma, che valea 100 scudi, sente gran pena, ma se valea 200 sente doppia pena: se 400 più pena. In somma quanto cresce il valore della cosa perduta, tanto cresce la pena. Il dannato qual bene ha perduto? un bene infinito, ch'è Dio; onde dice S. Tommaso che sente una pena in certo modo infinita: «Poena damnati est infinita, quia est amissio boni infiniti» (D. Th. 1. 2. q. 87. a. 4).
              Questa pena ora solo si teme da' santi. «Haec amantibus, non contemnentibus poena est», dice S. Agostino. S. Ignazio di Loiola dicea: Signore, ogni pena sopporto, ma questa no, di star privo di Voi. Ma questa pena niente si apprende da' peccatori, che si contentano di vivere i mesi e gli anni senza Dio, perché i miseri vivono fra le tenebre. In morte non però han da conoscere il gran bene che perdono. L'anima in uscire da questa vita, come dice S. Antonino, subito intende ch'ella è creata per Dio: «Separata autem anima a corpore intelligit Deum summum bonum et ad illud esse creatam». Onde subito si slancia per andare ad abbracciarsi col suo sommo bene; ma stando in peccato, sarà da Dio discacciata. Se un cane vede la lepre, ed uno lo tiene con una catena, che forza fa il cane per romper la catena ed andare a pigliar la preda? L'anima in separarsi dal corpo, naturalmente è tirata a Dio, ma il peccato la divide da Dio, e la manda lontana all'inferno. «Iniquitates vestrae diviserunt inter vos, et Deum vestrum» (Is. 59. 2). Tutto l'inferno dunque consiste in quella prima parola della condanna: «Discedite a me, maledicti». Andate, dirà Gesu-Cristo, non voglio che vediate più la mia faccia. «Si mille quis ponat gehennas, nihil tale dicturus est, quale est exosum esse Christo» (Chrysost. hom. 24. in Matth.). Allorché Davide condannò Assalonne a non comparirgli più davanti, fu tale questa pena ad Assalonne che rispose: Dite a mio padre, che o mi permetta di vedere la sua faccia o mi dia la morte (2. Reg. 14. 24). Filippo II ad un grande che vide stare irriverente in chiesa, gli disse: Non mi comparite più davanti. Fu tanta la pena di quel grande, che giunto alla casa se ne morì di dolore. Che sarà, quando Dio in morte intimerà al reprobo: Va via che io non voglio vederti più. «Abscondam faciem ab eo, et invenient eum omnia mala» (Deut. 31. 17). Voi (dirà Gesù a' dannati nel giorno finale) non siete più miei, io non sono più vostro. «Voca nomen eius, non populus meus, quia vos non populus meus, et ego non ero vester» (Osea 1. 9).
              Che pena è ad un figlio, a cui gli muore il padre, o ad una moglie quando le muore lo sposo, il dire: Padre mio, sposo mio, non t'ho da vedere più. Ah se ora udissimo un'anima dannata che piange, e le chiedessimo: Anima, perché piangi tanto? Questo solo ella risponderebbe: Piango, perché ho perduto Dio, e non l'ho da vedere più. Almeno potesse la misera nell'inferno amare il suo Dio, e rassegnarsi alla sua volontà. Ma no; se potesse ciò fare, l'inferno non sarebbe inferno; l'infelice non può rassegnarsi alla volontà di Dio, perché è fatta nemica della divina volontà. Né può amare più il suo Dio, ma l'odia e l'odierà per sempre; e questo sarà il suo inferno, il conoscere che Dio è un bene sommo e il vedersi poi costretto ad odiarlo, nello stesso tempo che lo conosce degno d'infinito amore. «Ego sum ille nequam privatus amore Dei», così rispose quel demonio, interrogato chi fosse da S. Caterina da Genova. Il dannato odierà e maledirà Dio, e maledicendo Dio, maledirà anche i beneficii che gli ha fatti, la creazione, la redenzione, i sagramenti, specialmente del battesimo e della penitenza, e sopra tutto il SS. Sagramento dell'altare. Odierà tutti gli angeli e santi ma specialmente l'angelo suo custode e i santi suoi avvocati, e più di tutti la divina Madre; ma principalmente maledirà le tre divine Persone, e fra queste singolarmente il Figlio di Dio, che un giorno è morto per la di lei salute, maledicendo le sue piaghe, il suo sangue, le sue pene e la sua morte.

Affetti e preghiere
              Ah mio Dio, Voi dunque siete il mio sommo bene, bene infinito, ed io volontariamente tante volte v'ho perduto. Sapeva io già che col mio peccato vi dava un gran disgusto, e che perdeva la vostra grazia, e l'ho fatto? Ah che se non vi vedessi trafitto in croce, o Figlio di Dio, morire per me, non avrei più animo di cercarvi e di sperare da Voi perdono. Eterno Padre, non guardate me, guardate questo amato Figlio, che vi cerca per me pietà; esauditelo, e perdonatemi. A quest'ora dovrei star nell'inferno da tanti anni senza speranza di potervi più amare, e di ricuperare la vostra grazia perduta. Dio mio, mi pento sopra ogni male di quest'ingiuria che v'ho fatta, di rinunziare alla vostr'amicizia e di disprezzare il vostro amore per li gusti miserabili di questa terra. Oh fossi morto prima mille volte! Come ho potuto essere così cieco e così pazzo! Vi ringrazio, Signor mio, che mi date tempo di poter rimediare al mal fatto. Giacché per misericordia vostra sto fuori dell'inferno, e vi posso amare, Dio mio, vi voglio amare. Non voglio più differire di convertirmi tutto a Voi. V'amo bontà infinita, v'amo mia vita, mio tesoro, mio amore, mio tutto. Ricordatemi sempre, o Signore, l'amore che mi avete portato, e l'inferno dove dovrei stare; acciocché questo pensiero mi accenda sempre a farvi atti d'amore e a dirvi sempre: io v'amo, io v'amo, io v'amo.
              O Maria Regina, speranza e Madre mia, se stessi nell'inferno, neppure potrei amar più Voi. V'amo Madre mia, e a Voi confido di non lasciare più d'amar Voi e 'l mio Dio. Aiutatemi, pregate Gesù per me.

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