Thursday, 7 October 2021

Thursday Serial: "Le Avventure di Pinocchio" by Carlo Collodi (in Italian) - the end

 XXXIV.

Pinocchio, gettato in mare, è mangiato dai pesci e ritorna ad essere un burattino come prima: ma mentre nuota per salvarsi, è ingoiato dal terribile Pesce-cane.

 

Dopo cinquanta minuti che il ciuchino era sott’acqua, il compratore disse, discorrendo da sè solo:

— A quest’ora il mio povero ciuchino zoppo deve essere bell’e affogato. Ritiriamolo dunque su, e facciamo con la sua pelle questo bel tamburo. —

E cominciò a tirare la fune, con la quale lo aveva legato per una gamba: e tira, tira, tira, alla fine vide apparire a fior d’acqua.... indovinate? Invece di un ciuchino morto, vide apparire a fior d’acqua un burattino vivo, che scodinzolava come un’anguilla.

Vedendo quel burattino di legno, il pover’uomo credè di sognare e rimase lì intontito, a bocca aperta e con gli occhi fuori della testa.

Riavutosi un poco dal suo primo stupore, disse piangendo e balbettando:

— E il ciuchino che ho gettato in mare dov’è?...

— Quel ciuchino son io! — rispose il burattino, ridendo.

— Tu?

— Io.

— Ah! mariuolo! Pretenderesti forse burlarti di me?

— Burlarmi di voi? Tutt’altro, caro padrone; io vi parlo sul serio.

— Ma come mai tu, che poco fa eri un ciuchino, ora stando nell’acqua, sei diventato un burattino di legno?...

— Sarà effetto dell’acqua del mare. Il mare ne fa di questi scherzi.

— Bada, burattino, bada!... Non credere di divertirti alle mie spalle. Guai a te, se mi scappa la pazienza!

— Ebbene, padrone; volete sapere tutta la vera storia? Scioglietemi questa gamba e io ve la racconterò.—

Quel buon pasticcione del compratore, curioso di conoscere la vera storia, gli sciolse subito il nodo della fune, che lo teneva legato: e allora Pinocchio, trovandosi libero come un uccello nell’aria, prese a dirgli così:

— Sappiate dunque che io ero un burattino di legno come sono oggi: ma mi trovavo a tocco e non tocco di diventare un ragazzo, come in questo mondo ce n’è tanti: se non che per la mia poca voglia di studiare e per dar retta ai cattivi compagni, scappai di casa.... e un bel giorno, svegliandomi, mi trovai cambiato in un somaro con tanto d'orecchi.... e con tanto di coda!... Che vergogna fu quella per me!... Una vergogna, caro padrone, che Sant’Antonio benedetto non la faccia provare neppure a voi! Portato a vendere sul mercato degli asini, fui comprato dal Direttore di una compagnia equestre, il quale si messe in capo di far di me un gran ballerino e un gran saltatore di cerchi: ma una sera, durante lo spettacolo, feci in teatro una brutta cascata e rimasi zoppo da tutt’e due le gambe. Allora il Direttore, non sapendo che cosa farsi d’un asino zoppo, mi mandò a rivendere, e voi mi avete comprato!...

— Pur troppo! E ti ho pagato venti soldi. E ora chi mi rende i miei poveri venti soldi?

— E perchè mi avete comprato? Voi mi avete comprato per fare con la mia pelle un tamburo!... un tamburo!...

— Pur troppo!… E ora dove troverò un’altra pelle?...

— Non vi date alla disperazione, padrone. Dei ciuchini ce n’è tanti in questo mondo!

— Dimmi, monello impertinente; e la tua storia finisce qui?

— No, — rispose il burattino — ci sono altre due parole, e poi è finita. Dopo avermi comprato, mi avete condotto in questo luogo per uccidermi, ma poi, cedendo a un sentimento pietoso d’umanità, avete preferito di legarmi un sasso al collo e di gettarmi in fondo al mare. Questo sentimento di delicatezza vi onora moltissimo e io ve ne serberò eterna riconoscenza. Per altro, caro padrone, questa volta avete fatto i vostri conti senza la Fata....

— E chi è questa Fata?

— È la mia mamma, la quale somiglia a tutte quelle buone mamme, che vogliono un gran bene ai loro ragazzi e non li perdono mai d’occhio, e li assistono amorosamente in ogni disgrazia, anche quando questi ragazzi, per le loro scapataggini e per i loro cattivi portamenti, meriterebbero di essere abbandonati e lasciati in balia a sè stessi. Dicevo, dunque, che la buona Fata, appena mi vide in pericolo di affogare, mandò subito intorno a me un branco infinito di pesci, i quali, credendomi davvero un ciuchino bell’e morto, cominciarono a mangiarmi! E che bocconi che facevano! Non avrei mai creduto che i pesci fossero più ghiotti anche dei ragazzi! Chi mi mangiò gli orecchi, chi mi mangiò il muso, chi il collo e la criniera, chi la pelle delle zampe, chi la pelliccia della schiena.... e, fra gli altri, vi fu un pesciolino così garbato, che si degnò perfino di mangiarmi la coda.

— Da oggi in poi — disse il compratore inorridito — faccio giuro di non assaggiar più carne di pesce. Mi dispiacerebbe troppo di aprire una triglia o un nasello fritto e di trovargli in corpo una coda di ciuco!

— Io la penso come voi — replicò il burattino, ridendo. — Del resto, dovete sapere che quando i pesci ebbero finito di mangiarmi tutta quella buccia asinina, che mi copriva dalla testa ai piedi, arrivarono, com’è naturale, all’osso.... o per dir meglio, arrivarono al legno, perchè, come vedete, io son fatto di legno durissimo. Ma dopo dato i primi morsi, quei pesci ghiottoni si accòrsero subito che il legno non era ciccia per i loro denti, e nauseati da questo cibo indigesto se ne andarono chi in qua, chi in là senza voltarsi nemmeno a dirmi grazie. Ed eccovi raccontato come qualmente voi, tirando su la fune, avete trovato un burattino vivo, invece d’un ciuchino morto.

— Io mi rido della tua storia — gridò il compratore imbestialito. — Io so che ho speso venti soldi per comprarti, e rivoglio i miei quattrini. Sai che cosa farò? Ti porterò daccapo al mercato, e ti rivenderò a peso di legno stagionato per accendere il fuoco nel caminetto.

— Rivendetemi pure: io sono contento — disse Pinocchio.

Ma nel dir così, fece un bel salto e schizzò in mezzo all’acqua. E nuotando allegramente e allontanandosi dalla spiaggia, gridava al povero compratore:

— Addio, padrone; se avete bisogno di una pelle per fare un tamburo, ricordatevi di me. —

E poi rideva e seguitava a nuotare: e dopo un poco, rivoltandosi indietro, urlava più forte:

— Addio, padrone; se avete bisogno di un po’ di legno stagionato per accendere il caminetto, ricordatevi di me. —

Fatto sta che in un batter d’occhio si era tanto allontanato, che non si vedeva quasi più; ossia si vedeva solamente sulla superficie del mare un puntolino nero, che di tanto in tanto rizzava le gambe fuori dell’acqua e faceva capriole e salti, come un delfino in vena di buon umore.

Intanto che Pinocchio nuotava alla ventura, vide in mezzo al mare uno scoglio che pareva di marmo bianco, e su in cima allo scoglio, una bella caprettina che belava amorosamente e gli faceva segno di avvicinarsi.

La cosa più singolare era questa: che la lana della caprettina, invece di esser bianca, o nera, o pallata di più colori, come quella delle altre capre, era invece tutta turchina, ma d’un turchino così sfolgorante, che rammentava moltissimo i capelli della bella Bambina.

Lascio pensare a voi se il cuore del povero Pinocchio cominciò a battere più forte! Raddoppiando di forza e di energia si diè a nuotare verso lo scoglio bianco: ed era già a mezza strada, quand’ecco uscir fuori dall’acqua e venirgli incontro un’orribile testa di mostro marino, con la bocca spalancata come una voragine, e tre filari di zanne, che avrebbero fatto paura anche a vederle dipinte.

E sapete chi era quel mostro marino?

Quel mostro marino era nè più nè meno quel gigantesco Pesce-cane ricordato più volte in questa storia, e che per le sue stragi e per la sua insaziabile voracità, veniva soprannominato «l’Attila dei pesci e dei pescatori.»

Immaginatevi lo spavento del povero Pinocchio, alla vista del mostro. Cercò di scansarlo, di cambiare strada: cercò di fuggire: ma quella immensa bocca spalancata gli veniva sempre incontro con la velocità di una saetta.

— Affrettati, Pinocchio, per carità! — gridava belando la bella caprettina.

E Pinocchio nuotava disperatamente con le braccia, col petto, con le gambe e coi piedi.

— Corri, Pinocchio, perchè il mostro si avvicina!… —

E Pinocchio, raccogliendo tutte le sue forze, raddoppiava di lena nella corsa.

— Bada, Pinocchio!... il mostro ti raggiunge! — Eccolo!... Eccolo!... Affrettati, per carità, o sei perduto!... —

E Pinocchio a nuotare più lesto che mai, e via, e via, e via, come anderebbe una palla di fucile. E già si accostava allo scoglio, e già la caprettina, spenzolandosi tutta sul mare, gli porgeva le sue zampine davanti per aiutarlo a uscir fuori dell’acqua... Ma!...

Ma oramai era tardi! Il mostro lo aveva raggiunto. Il mostro, tirando il fiato a sè, si bevve il povero burattino, come avrebbe bevuto un uovo di gallina, e lo inghiottì con tanta violenza e con tanta avidità, che Pinocchio, cascando giù in corpo al Pesce-cane, battè un colpo così screanzato da restarne sbalordito per un quarto d’ora.

Quando ritornò in sè da quello sbigottimento, non sapeva raccapezzarsi, nemmeno lui, in che mondo si fosse. Intorno a sè c’era da ogni parte un gran buio: ma un buio così nero e profondo, che gli pareva di essere entrato col capo in un calamaio pieno d’inchiostro. Stette in ascolto e non sentì nessun rumore; solamente di tanto in tanto sentiva battersi nel viso alcune grandi buffate di vento. Da principio non sapeva intendere da dove quel vento uscisse: ma poi capì che usciva dai polmoni del mostro. Perchè bisogna sapere che il Pesce-cane soffriva moltissimo d’asma, e quando respirava, pareva proprio che soffiasse la tramontana.

Pinocchio, sulle prime, s’ingegnò di farsi un po’ di coraggio: ma quand’ebbe la prova e la riprova di trovarsi chiuso in corpo al mostro marino, allora cominciò a piangere e a strillare; e piangendo diceva:

— Aiuto! aiuto! Oh povero me! Non c’è nessuno che venga a salvarmi?

— Chi vuoi che ti salvi, disgraziato?... — disse in quel buio una vociaccia fessa di chitarra scordata.

— Chi è che parla così? — domandò Pinocchio, sentendosi gelare dallo spavento.

— Sono io! sono un povero Tonno, inghiottito dal Pesce-cane insieme con te. E tu che pesce sei?

— Io non ho che veder nulla coi pesci. Io sono un burattino.

— E allora se non sei un pesce, perchè ti sei fatto inghiottire dal mostro?

— Non son io, che mi son fatto inghiottire: gli è lui che mi ha inghiottito! Ed ora, che cosa dobbiamo fare qui al buio?...

— Rassegnarsi e aspettare che il Pesce-cane ci abbia digeriti tutt’e due!...

— Ma io non voglio esser digerito! — urlò Pinocchio, ricominciando a piangere.

— Neppure io vorrei esser digerito — soggiunse il Tonno — ma io sono abbastanza filosofo e mi consolo pensando che, quando si nasce Tonni, c’è più dignità a morir sott’acqua che sott’olio!...

— Scioccherie! — gridò Pinocchio.

— La mia è un’opinione — replicò il Tonno — e le opinioni, come dicono i Tonni politici, vanno rispettate!

— Insomma..., io voglio andarmene di qui.... io voglio fuggire....

— Fuggi, se ti riesce!...

— È molto grosso questo Pesce-cane che ci ha inghiottiti? — domandò il burattino.

— Figurati che il suo corpo è più lungo di un chilometro senza contare la coda. —

Nel tempo che faceva questa conversazione al buio, parve a Pinocchio di vedere, lontano lontano, una specie di chiarore.

— Che cosa sarà mai quel lumicino lontano lontano? — disse Pinocchio. —

— Sarà qualche nostro compagno di sventura, che aspetterà come noi il momento di esser digerito!...

— Voglio andare a trovarlo. Non potrebbe darsi il caso che fosse qualche vecchio pesce capace di insegnarmi la strada per fuggire?

— Io te l’auguro di cuore, caro burattino.

— Addio, Tonno.

— Addio, burattino: e buona fortuna.

— Dove ci rivedremo?...

— Chi lo sa?... È meglio non pensarci neppure! —

 

 

XXXV.

Pinocchio ritrova in corpo al Pesce-cane.... chi ritrova?

Leggete questo capitolo e lo saprete.

 

Pinocchio, appena che ebbe detto addio al suo buon amico Tonno, si mosse brancolando in mezzo a quel buio, e camminando a tastoni dentro il corpo del Pesce-cane, si avviò un passo dietro l’altro verso quel piccolo chiarore che vedeva baluginare lontano lontano.

E nel camminare sentì che i suoi piedi sguazzavano in una pozzanghera d’acqua grassa e sdrucciolona, e quell’acqua sapeva di un odore così acuto di pesce fritto, che gli pareva di essere a mezza quaresima.

E più andava avanti, e più il chiarore si faceva rilucente e distinto: finchè, cammina cammina, alla fine arrivò: e quando fu arrivato.... che cosa trovò? Ve lo do a indovinare in mille: trovò una piccola tavola apparecchiata, con sopra una candela accesa infilata in una bottiglia di cristallo verde, e seduto a tavola un vecchiettino tutto bianco, come se fosse di neve o di panna montata, il quale se ne stava lì biascicando alcuni pesciolini vivi, ma tanto vivi, che alle volte, mentre li mangiava, gli scappavano perfino di bocca.

A quella vista il povero Pinocchio ebbe un’allegrezza così grande e così inaspettata, che ci mancò un ette non cadesse in delirio. Voleva ridere, voleva piangere, voleva dire un monte di cose; e invece mugolava confusamente e balbettava delle parole tronche e sconclusionate. Finalmente gli riuscì di cacciar fuori un grido di gioia, e spalancando le braccia e gettandosi al collo del vecchietto, cominciò a urlare:

— Oh! babbino mio! finalmente vi ho ritrovato! Ora poi non vi lascio più, mai più, mai più!

— Dunque gli occhi mi dicono il vero? — replicò il vecchietto, stropicciandosi gli occhi. — Dunque tu se’ proprio il mi’ caro Pinocchio?

— Sì, sì! sono io, proprio io! E voi mi avete digià perdonato, non è vero? Oh! babbino mio, come siete buono!... e pensare che io, invece.... Oh! ma se sapeste quante disgrazie mi son piovute sul capo e quante cose mi son andate a traverso! Figuratevi che il giorno che voi, povero babbino, col vendere la vostra casacca, mi compraste l’Abbecedario per andare a scuola, io scappai a vedere i burattini, e il burattinaio mi voleva mettere sul fuoco perchè gli cocessi il montone arrosto, che fu quello poi che mi dètte cinque monete d’oro, perchè le portassi a voi, ma io trovai la Volpe e il Gatto, che mi condussero all’Osteria del Gambero Rosso, dove mangiarono come lupi, e partito solo di notte incontrai gli assassini che si messero a corrermi dietro, e io via, e loro dietro, e io via e loro sempre dietro, e io via, finchè m’impiccarono a un ramo della Quercia Grande, dovecchè la bella Bambina dai capelli turchini mi mandò a prendere con una carrozzina, e i medici, quando m’ebbero visitato, dissero subito: «Se non è morto, è segno che è sempre vivo» e allora mi scappò detta una bugia, e il naso cominciò a crescermi e non mi passava più dalla porta di camera, motivo per cui andai con la Volpe e col Gatto a sotterrare le quattro monete d’oro, che una l’avevo spesa all’Osteria, e il pappagallo si messe a ridere, e viceversa di duemila monete non trovai più nulla, la quale il Giudice quando seppe che ero stato derubato, mi fece subito mettere in prigione, per dare una soddisfazione ai ladri, di dove, col venir via, vidi un bel grappolo d’uva in un campo, che rimasi preso alla tagliola e il contadino di santa ragione mi messe il collare da cane perchè facessi la guardia al pollaio, che riconobbe la mia innocenza e mi lasciò andare, e il serpente, colla coda che gli fumava, cominciò a ridere e gli si strappò una vena sul petto, e così ritornai alla casa della bella Bambina, che era morta, e il Colombo vedendo che piangevo mi disse: «Ho visto il tu’ babbo che si fabbricava una barchettina per venirti a cercare» e io gli dissi: «Oh! se avessi le ali anch’io» e lui mi disse: «Vuoi venire dal tuo babbo?» e io gli dissi: «Magari! ma chi mi ci porta?» e lui mi disse: «Ti ci porto io» e io gli dissi: «Come?» e lui mi disse: «Montami sulla groppa» e così abbiamo volato tutta la notte, poi la mattina tutti i pescatori che guardavano verso il mare mi dissero: «C’è un pover’omo in una barchetta che sta per affogare» e io da lontano vi riconobbi subito, perchè me lo diceva il core, e vi feci segno di tornare alla spiaggia....

— Ti riconobbi anch’io, — disse Geppetto — e sarei volentieri tornato alla spiaggia: ma come fare? il mare era grosso e un cavallone m’arrovesciò la barchetta. Allora un orribile Pesce-cane che era lì vicino, appena che m’ebbe visto nell’acqua corse subito verso di me, e tirata fuori la lingua, mi prese pari pari, e m’inghiottì come un tortellino di Bologna.

— E quant’è che siete chiuso qui dentro? — domandò Pinocchio.

— Da quel giorno in poi, saranno ormai due anni: due anni, Pinocchio mio,... che mi son parsi due secoli!

— E come avete fatto a campare? E dove avete trovata la candela? E i fiammiferi per accenderla, chi ve li ha dati?

— Ora ti racconterò tutto. Devi dunque sapere che quella medesima burrasca, che rovesciò la mia barchetta, fece anche affondare un bastimento mercantile. I marinaj si salvarono tutti, ma il bastimento colò a fondo e il solito Pesce-cane che quel giorno aveva un appetito eccellente, dopo aver inghiottito me, inghiottì anche il bastimento....

— Come? Lo inghiottì tutto in un boccone?... — domandò Pinocchio maravigliato.

— Tutto in un boccone: e risputò solamente l’albero maestro, perchè gli era rimasto fra i denti come una lisca. Per mia gran fortuna, quel bastimento era carico non solo di carne conservata in cassette di stagno, ma di biscotto, ossia di pane abbrostolito, di bottiglie di vino, d’uva secca, di cacio, di caffè, di zucchero, di candele steariche e di scatole di fiammiferi di cera. Con tutta questa grazia di Dio ho potuto campare due anni: ma oggi sono agli ultimi sgoccioli: oggi nella dispensa non c’è più nulla, e questa candela, che vedi accesa, è l’ultima candela che mi sia rimasta....

— E dopo?...

— E dopo, caro mio, rimarremo tutt’e due al buio.

— Allora, babbino mio, — disse Pinocchio — non c’è tempo da perdere. Bisogna pensar subito a fuggire....

— A fuggire?... e come?

— Scappando dalla bocca del Pesce-cane e gettandosi a nuoto in mare.

— Tu parli bene: ma io, caro Pinocchio, non so nuotare!

— E che importa?... Voi mi monterete a cavalluccio sulle spalle e io, che sono un buon nuotatore, vi porterò sano e salvo fino alla spiaggia.

— Illusioni, ragazzo mio! — replicò Geppetto, scotendo il capo e sorridendo malinconicamente. — Ti par egli possibile che un burattino, alto appena un metro come sei tu, possa aver tanta forza da portarmi a nuoto sulle spalle?

— Provatevi e vedrete! A ogni modo, se sarà scritto in cielo che dobbiamo morire, avremo almeno la gran consolazione di morire abbracciati insieme.

E senza dir altro, Pinocchio prese in mano la candela, e andando avanti per far lume, disse al suo babbo:

— Venite dietro a me, e non abbiate paura. —

E così camminarono un bel pezzo, e traversarono tutto il corpo e tutto lo stomaco del Pesce-cane. Ma giunti che furono al punto dove cominciava la spaziosa gola del mostro, pensarono bene di fermarsi per dare un’occhiata e cogliere il momento opportuno alla fuga.

Ora bisogna sapere che il Pesce-cane, essendo molto vecchio e soffrendo d’asma e di palpitazione di cuore, era costretto a dormire a bocca aperta: per cui Pinocchio affacciandosi al principio della gola e guardando in su, potè vedere al di fuori di quell’enorme bocca spalancata un bel pezzo di cielo stellato e un bellissimo lume di luna.

— Questo è il vero momento di scappare — bisbigliò allora voltandosi al suo babbo. — Il Pesce-cane dorme come un ghiro: il mare è tranquillo e ci si vede come di giorno. Venite dunque, babbino, dietro a me, e fra poco saremo salvi. —

Detto fatto salirono su per la gola del mostro marino, e arrivati in quell’immensa bocca cominciarono a camminare in punta di piedi sulla lingua; una lingua così larga e così lunga, che pareva il viottolone d’un giardino. E già stavano lì lì per fare il gran salto e per gettarsi a nuoto nel mare, quando, sul più bello, il Pesce-cane starnutì, e nello starnutire, dètte uno scossone così violento, che Pinocchio e Geppetto si trovarono rimbalzati all’indietro e scaraventati nuovamente in fondo allo stomaco del mostro.

Nel grand’urto della caduta la candela si spense, e padre e figliuolo rimasero al buio.

— E ora?… — domandò Pinocchio facendosi serio.

— Ora, ragazzo mio, siamo bell’e perduti.

— Perchè perduti? Datemi la mano, babbino, e badate di non sdrucciolare!...

— Dove mi conduci?

— Dobbiamo ritentare la fuga. Venite con me e non abbiate paura. —

Ciò detto, Pinocchio prese il suo babbo per la mano: e camminando sempre in punta di piedi, risalirono insieme su per la gola del mostro: poi traversarono tutta la lingua e scavalcarono i tre filari di denti. Prima però di fare il gran salto, il burattino disse al suo babbo:

— Montatemi a cavalluccio sulle spalle e abbracciatemi forte forte. Al resto ci penso io. —

Appena Geppetto si fu accomodato per bene sulle spalle del figliuolo, il bravo Pinocchio, sicuro del fatto suo, si gettò nell’acqua e cominciò a nuotare. Il mare era tranquillo come un olio: la luna splendeva in tutto il suo chiarore e il Pesce-cane seguitava a dormire di un sonno così profondo, che non l’avrebbe svegliato nemmeno una cannonata.

 

 

XXXVI.

Finalmente Pinocchio cessa d’essere un burattino e diventa un ragazzo.

 

Mentre Pinocchio nuotava alla svelta per raggiungere la spiaggia, si accorse che il suo babbo, il quale gli stava a cavalluccio sulle spalle e aveva le gambe mezze nell’acqua, tremava fitto fitto, come se al pover’uomo gli battesse la febbre terzana.

Tremava di freddo o di paura? Chi lo sa?... Forse un po’ dell’uno e un po’ dell’altra. Ma Pinocchio, credendo che quel tremito fosse di paura, gli disse per confortarlo:

— Coraggio, babbo! Fra pochi minuti arriveremo a terra e saremo salvi.

— Ma dov’è questa spiaggia benedetta? — domandò il vecchietto, diventando sempre più inquieto, e appuntando gli occhi, come fanno i sarti quando infilano l’ago.

— Eccomi qui, che guardo da tutte le parti, e non vedo altro che cielo e mare.

— Ma io vedo anche la spiaggia — disse il burattino. — Per vostra regola io sono come i gatti: ci vedo meglio di notte che di giorno.―

Il povero Pinocchio faceva finta di essere di buonumore: ma invece.... Invece cominciava a scoraggiarsi: le forze gli scemavano, il suo respiro diventava grosso e affannoso.... insomma non ne poteva più, e la spiaggia era sempre lontana.

Nuotò finchè ebbe fiato: poi si voltò col capo verso Geppetto, e disse con parole interrotte:

— Babbo mio.... ajutatemi.... perchè io muojo!... —

E il padre e il figliuolo erano oramai sul punto di affogare, quando udirono una voce di chitarra scordata che disse:

— Chi è che muore?

— Sono io e il mio povero babbo!

— Questa voce la riconosco! Tu sei Pinocchio!...

— Preciso: e tu?

— Io sono il Tonno, il tuo compagno di prigionia in corpo al Pesce-cane.

— E come hai fatto a scappare?

— Ho imitato il tuo esempio. Tu sei quello che mi hai insegnato la strada, e dopo te, sono fuggito anch’io.

— Tonno mio, tu capiti proprio a tempo! Ti prego, per l’amore che porti ai Tonnini tuoi figliuoli; ajutaci, o siamo perduti.

— Volentieri e con tutto il cuore. Attaccatevi tutti e due alla mia coda, e lasciatevi guidare. In quattro minuti vi condurrò alla riva. —

Geppetto e Pinocchio, come potete immaginarvelo, accettarono subito l’invito: ma invece di attaccarsi alla coda, giudicarono più comodo di mettersi addirittura a sedere sulla groppa del Tonno.

— Siamo troppo pesi? — gli domandò Pinocchio.

— Pesi? Neanche per ombra; mi par di avere addosso due gusci di conchiglia — rispose il Tonno, il quale era di una corporatura così grossa e robusta, da parere un vitello di due anni.

Giunti alla riva, Pinocchio saltò a terra il primo per ajutare il suo babbo a fare altrettanto: poi si voltò al Tonno, e con voce commossa gli disse:

— Amico mio, tu hai salvato il mio babbo! Dunque non ho parole per ringraziarti abbastanza! Permetti almeno che ti dia un bacio in segno di riconoscenza eterna!... —

Il Tonno cacciò il muso fuori dall’acqua, e Pinocchio, piegandosi coi ginocchi a terra, gli posò un affettuosissimo bacio sulla bocca. A questo tratto di spontanea e vivissima tenerezza, il povero Tonno, che non c’era avvezzo, si sentì talmente commosso, che vergognandosi a farsi veder piangere come un bambino, ricacciò il capo sott’acqua e sparì.

Intanto s’era fatto giorno.

Allora Pinocchio, offrendo il suo braccio a Geppetto, che aveva appena il fiato di reggersi in piedi, gli disse:

— Appoggiatevi pure al mio braccio, caro babbino, e andiamo. Cammineremo pian pianino come le formicole, e quando saremo stanchi, ci riposeremo lungo la via.

— E dove dobbiamo andare? — domandò Geppetto.

— In cerca di una casa o d’una capanna, dove ci diano per carità un boccon di pane e un po’ di paglia che ci serva da letto. —

Non avevano ancora fatti cento passi, che videro seduti sul ciglione della strada due brutti ceffi, i quali stavano lì in atto di chiedere l’elemosina.

Erano il Gatto e la Volpe: ma non si riconoscevano più da quelli d’una volta. Figuratevi che il Gatto, a furia di fingersi cieco, aveva finito coll’accecare davvero: e la Volpe invecchiata, intignata e tutta perduta da una parte, non aveva più nemmeno la coda. Così è. Quella trista ladracchiola, caduta nella più squallida miseria, si trovò costretta un bel giorno a vendere perfino la sua bellissima coda a un merciaio ambulante, che la comprò per farsene uno scacciamosche.

— O Pinocchio! — gridò la Volpe con voce di piagnisteo — fai un po’ di carità a questi due poveri infermi!

— Infermi! — ripetè il Gatto.

— Addio, mascherine! — rispose il burattino. — Mi avete ingannato una volta, e ora non mi ripigliate più.

— Credilo, Pinocchio, che oggi siamo poveri e disgraziati davvero!

— Davvero! — ripetè il Gatto.

— Se siete poveri ve lo meritate. Ricordatevi del proverbio che dice: «I quattrini rubati non fanno mai frutto.» Addio, mascherine.

— Abbi compassione di noi!...

— Di noi!

— Addio, mascherine! Ricordatevi del proverbio che dice: «La farina del diavolo va tutta in crusca.»

— Non ci abbandonare!...

— ....are! — ripetè il Gatto.

— Addio, mascherine! Ricordatevi del proverbio che dice: «Chi ruba il mantello al suo prossimo, per il solito muore senza camicia.» —

E così dicendo, Pinocchio e Geppetto seguitarono tranquillamente per la loro strada: finchè fatti altri cento passi, videro in fondo a una viottola, in mezzo ai campi, una bella capanna tutta di paglia, e col tetto coperto d’embrici e di mattoni.

— Quella capanna dev’essere abitata da qualcuno — disse Pinocchio. — Andiamo là, e bussiamo. —

Difatti andarono, e bussarono alla porta.

— Chi è? — disse una vocina di dentro.

— Siamo un povero babbo e un povero figliuolo, senza pane e senza tetto — rispose il burattino.

— Girate la chiave, e la porta si aprirà — disse la solita vocina.

Pinocchio girò la chiave, e la porta si aprì. Appena entrati dentro, guardarono di qua, guardarono di là, e non videro nessuno.

— O il padrone della capanna dov’è? — disse Pinocchio maravigliato.

— Eccomi quassù! —

Babbo e figliuolo si voltarono subito verso il soffitto, e videro sopra un travicello il Grillo-parlante.

— Oh! mio caro Grillino — disse Pinocchio salutandolo garbatamente.

— Ora mi chiami il «Tuo caro Grillino» non è vero? Ma ti rammenti di quando, per cacciarmi di casa tua, mi tirasti un manico di martello?...

— Hai ragione, Grillino! Scaccia anche me.... tira anche a me un manico di martello: ma abbi pietà del mio povero babbo....

— Io avrò pietà del babbo e anche del figliuolo: ma ho voluto rammentarti il brutto garbo ricevuto, per insegnarti che in questo mondo, quando si può, bisogna mostrarsi cortesi con tutti, se vogliamo esser ricambiati con pari cortesia nei giorni del bisogno.

— Hai ragione, Grillino, hai ragione da vendere; e io terrò a mente la lezione che mi hai data. Ma mi dici come hai fatto a comprarti questa bella capanna?

— Questa capanna mi è stata regalata jeri da una graziosa capra, che aveva la lana d’un bellissimo colore turchino.

— E la capra dov’è andata? — domandò Pinocchio, con vivissima curiosità.

— Non lo so.

— E quando ritornerà?...

— Non ritornerà mai. Ieri è partita tutta afflitta, e, belando, pareva che dicesse: «Povero Pinocchio.... oramai non lo rivedrò più.... il Pesce-cane a quest’ora l’avrà bell’e divorato!...» —

— Ha detto proprio così?... Dunque era lei!... era lei!... era la mia cara Fatina!... — cominciò a urlare Pinocchio, singhiozzando e piangendo dirottamente.

Quand’ebbe pianto ben bene, si rasciugò gli occhi, e preparato un buon lettino di paglia, vi distese sopra il vecchio Geppetto. Poi domandò al Grillo-parlante:

— Dimmi, Grillino: dove potrei trovare un bicchiere di latte per il mio povero babbo?

— Tre campi distante di qui c’è l’ortolano Giangio, che tiene le mucche. Va’ da lui, e troverai il latte che cerchi. —

Pinocchio andò di corsa a casa dell’ortolano Giangio: ma l’ortolano gli disse:

— Quanto ne vuoi del latte?

— Ne voglio un bicchiere pieno.

— Un bicchiere di latte costa un soldo. Comincia intanto dal darmi il soldo.

— Non ho nemmeno un centesimo — rispose Pinocchio, tutto mortificato e dolente.

— Male, burattino mio, — replicò l’ortolano. — Se tu non hai nemmeno un centesimo, io non ho nemmeno un dito di latte.

— Pazienza! — disse Pinocchio e fece l’atto di andarsene.

— Aspetta un po’ — disse Giangio. — Fra te e me ci possiamo accomodare. Vuoi adattarti a girare il bindolo?

— Che cos’è il bindolo?

— Gli è quell’ordigno di legno che serve a tirar su l’acqua dalla cisterna per annaffiare gli ortaggi.

— Mi proverò....

— Dunque, tirami su cento secchie d’acqua, e io ti regalerò in compenso un bicchiere di latte.

— Sta bene. —

Giangio condusse il burattino nell’orto e gl’insegnò la maniera di girare il bindolo. Pinocchio si pose subito al lavoro; ma prima di aver tirato su le cento secchie d’acqua, era tutto grondante di sudore dalla testa ai piedi. Una fatica a quel modo non l’aveva durata mai.

— Finora questa fatica di girare il bindolo — disse l’ortolano — l’ho fatta fare al mio ciuchino: ma oggi quel povero animale è in fin di vita.

— Mi menate a vederlo? — disse Pinocchio.

— Volentieri.—

Appena che Pinocchio fu entrato nella stalla vide un bel ciuchino disteso sulla paglia, rifinito dalla fame e dal troppo lavoro. Quando l’ebbe guardato fisso fisso, disse dentro di sè, turbandosi:

— Eppure quel ciuchino lo conosco! Non mi è fisonomia nuova! —

E chinatosi fino a lui, gli domandò in dialetto asinino:

— Chi sei?—

A questa domanda, il ciuchino apri gli occhi moribondi, e rispose balbettando nel medesimo dialetto:

— Sono Lu....ci....gno....lo.... —

E dopo richiuse gli occhi e spirò.

— Oh! povero Lucignolo! — disse Pinocchio a mezza voce: e presa una manciata di paglia si rasciugò una lacrima che gli colava giù per il viso.

— Ti commuovi tanto per un asino che non ti costa nulla? — disse l’ortolano. — Che cosa dovrei far io che lo comprai a quattrini contanti?

— Vi dirò.... era un mio amico!...

— Tuo amico?

— Un mio compagno di scuola!...

— Come?! — urlò Giangio dando in una gran risata.

— Come?! avevi dei somari per compagni di scuola?... Figuriamoci i begli studj che devi aver fatto!... —

Il burattino, sentendosi mortificato da quelle parole, non rispose: ma prese il suo bicchiere di latte quasi caldo, e se ne tornò alla capanna.

E da quel giorno in poi, continuò più di cinque mesi a levarsi ogni mattina, prima dell’alba, per andare a girare il bindolo, e guadagnare così quel bicchiere di latte, che faceva tanto bene alla salute cagionosa del suo babbo. Nè si contentò di questo: perchè a tempo avanzato, imparò a fabbricare anche i canestri e i panieri di giunco: e coi quattrini che ne ricavava, provvedeva con moltissimo giudizio a tutte le spese giornaliere. Fra le altre cose costruì da sè stesso un elegante carrettino per condurre a spasso il suo babbo nelle belle giornate, e per fargli prendere una boccata d’aria.

Nelle veglie poi della sera, si esercitava a leggere e a scrivere. Aveva comprato nel vicino paese per pochi centesimi un grosso libro, al quale mancavano il frontespizio e l’indice, e con quello faceva la sua lettura. Quanto allo scrivere, si serviva di un fuscello temperato a uso penna; e non avendo nè calamaio nè inchiostro, lo intingeva in una boccettina ripiena di sugo di more e di ciliege.

Fatto sta che con la sua buona volontà d’ingegnarsi, di lavorare e di tirarsi avanti, non solo era riuscito a mantenere quasi agiatamente il suo genitore sempre malaticcio, ma per di più aveva potuto mettere da parte anche quaranta soldi per comprarsi un vestitino nuovo.

Una mattina disse a suo padre:

— Vado qui al mercato vicino a comprarmi una giacchettina, un berrettino e un paio di scarpe. Quando tornerò a casa — soggiunse ridendo — sarò vestito così bene, che mi scambierete per un gran signore. —

E uscito di casa, cominciò a correre tutto allegro e contento. Quando a un tratto sentì chiamarsi per nome: e voltandosi, vide una bella Lumaca che sbucava fuori dalla siepe.

— Non mi riconosci? — disse la Lumaca.

— Mi pare e non mi pare....

— Non ti ricordi di quella Lumaca, che stava per cameriera con la Fata dai capelli turchini? non ti rammenti di quella volta quando scesi a farti lume e che tu rimanesti con un piede confitto nell’uscio di casa?

— Mi rammento di tutto — gridò Pinocchio. — Rispondimi subito, Lumachina bella: dove hai lasciato la mia buona Fata? che fa? mi ha perdonato? si ricorda sempre di me? mi vuol sempre bene? è molto lontana da qui? potrei andare a trovarla? —

A tutte queste domande, fatte precipitosamente e senza ripigliar fiato, la Lumaca rispose con la sua solita flemma:

— Pinocchio mio! La povera Fata giace in un fondo di letto allo spedale!...

— Allo spedale?...

— Pur troppo. Colpita da mille disgrazie, si è gravemente ammalata, e non ha più da comprarsi un boccon di pane.

— Davvero?... Oh! che gran dolore che mi hai dato! Oh! povera Fatina! povera Fatina! povera Fatina!... Se avessi un milione, correrei a portarglielo.... Ma io non ho che quaranta soldi.... eccoli qui: andavo giusto a comprarmi un vestito nuovo. Prendili, Lumaca, e va’ a portarli subito alla mia buona Fata.

— E il tuo vestito nuovo?

— Che m’importa del vestito nuovo? Venderei anche questi cenci che ho addosso, per poterla aiutare! Va’, Lumaca, e spicciati: e fra due giorni ritorna qui, che spero di poterti dare qualche altro soldo. Finora ho lavorato per mantenere il mio babbo: da oggi in là, lavorerò cinque ore di più per mantenere anche la mia buona mamma. Addio, Lumaca, e fra due giorni ti aspetto. —

La Lumaca, contro il suo costume, cominciò a correre come una lucertola nei grandi solleoni d’agosto.

Quando Pinocchio tornò a casa, il suo babbo gli domandò:

— E il vestito nuovo?

— Non m’è stato possibile di trovarne uno che mi tornasse bene. Pazienza!... Lo comprerò un’altra volta. —

Quella sera Pinocchio, invece di vegliare fino alle dieci, vegliò fino alla mezzanotte sonata: e invece di far otto canestri di giunco ne fece sedici.

Poi andò a letto e si addormentò. E nel dormire, gli pareva di vedere in sogno la Fata, tutta bella e sorridente, la quale, dopo avergli dato un bacio, gli disse così:

— «Bravo Pinocchio! In grazia del tuo buon cuore, io ti perdono tutte le monellerie che hai fatto fino a oggi. I ragazzi che assistono amorosamente i propri genitori nelle loro miserie e nelle loro infermità, meritano sempre gran lode e grande affetto, anche se non possono esser citati come modelli d’ubbidienza e di buona condotta. Metti giudizio per l’avvenire, e sarai felice.»

A questo punto il sogno finì, e Pinocchio si svegliò con tanto d’occhi spalancati.

Ora immaginatevi voi quale fu la sua maraviglia quando, svegliandosi, si accòrse che non era più un burattino di legno: ma che era diventato, invece, un ragazzo come tutti gli altri. Dètte un’occhiata all’intorno e invece delle solite pareti di paglia della capanna, vide una bella camerina ammobiliata e agghindata con una semplicità quasi elegante. Saltando giù dal letto, trovò preparato un bel vestiario nuovo, un berretto nuovo e un paio di stivaletti di pelle, che gli tornavano una vera pittura.

Appena si fu vestito, gli venne fatto, naturalmente di mettere la mani nelle tasche e tirò fuori un piccolo portamonete d’avorio, sul quale erano scritte queste parole: «La Fata dai capelli turchini restituisce al suo caro Pinocchio i quaranta soldi, e lo ringrazia tanto del suo buon cuore.» Aperto il portafoglio, invece dei quaranta soldi di rame, vi luccicavano quaranta zecchini d’oro tutti nuovi di zecca.

Dopo andò a guardarsi allo specchio e gli parve d’essere un altro. Non vide più riflessa la solita immagine della marionetta di legno, ma vide l’immagine vispa e intelligente di un bel fanciullo coi capelli castagni, cogli occhi celesti e con un’aria allegra e festosa come una pasqua di rose.

In mezzo a tutte queste meraviglie, che si succedevano le une alle altre, Pinocchio non sapeva più nemmeno lui se era desto davvero o se sognava sempre a occhi aperti.

— E il mio babbo dov’è? — gridò tutt’a un tratto: ed entrato nella stanza accanto trovò il vecchio Geppetto sano, arzillo e di buonumore, come una volta, il quale, avendo ripreso subito la sua professione d’intagliatore, stava appunto disegnando una bellissima cornice ricca di fogliami, di fiori e di testine di diversi animali.

— Levatemi una curiosità, babbino: ma come si spiega tutto questo cambiamento improvviso? — gli domandò Pinocchio saltandogli al collo e coprendolo di baci.

— Questo improvviso cambiamento in casa nostra è tutto merito tuo — disse Geppetto.

— Perchè merito mio?...

— Perchè quando i ragazzi, di cattivi diventano buoni, hanno la virtù di far prendere un aspetto nuovo e sorridente anche nell’interno delle loro famiglie.

— E il vecchio Pinocchio di legno dove si sarà nascosto?

— Eccolo là! — rispose Geppetto; e gli accennò un grosso burattino appoggiato a una seggiola, col capo girato sur una parte, con le braccia ciondoloni e con le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo, da parere un miracolo se stava ritto.

Pinocchio si voltò a guardarlo; e dopo che l’ebbe guardato un poco, disse dentro di sè con grandissima compiacenza:

— Com’ero buffo, quand’ero un burattino! e come ora son contento di esser diventato un ragazzino perbene!... —

No comments:

Post a Comment