Tuesday, 11 November 2014

“The Divine Comedy” by Dante Alighieri (Inferno: Canto XV) (in Italian)



Inferno: Canto XV

Ora cen porta l'un de' duri margini;
  e 'l fummo del ruscel di sopra aduggia,
  si` che dal foco salva l'acqua e li argini.

Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,
  temendo 'l fiotto che 'nver lor s'avventa,
  fanno lo schermo perche' 'l mar si fuggia;

e quali Padoan lungo la Brenta,
  per difender lor ville e lor castelli,
  anzi che Carentana il caldo senta:

a tale imagine eran fatti quelli,
  tutto che ne' si` alti ne' si` grossi,
  qual che si fosse, lo maestro felli.

Gia` eravam da la selva rimossi
  tanto, ch'i' non avrei visto dov'era,
  perch'io in dietro rivolto mi fossi,

quando incontrammo d'anime una schiera
  che venian lungo l'argine, e ciascuna
  ci riguardava come suol da sera

guardare uno altro sotto nuova luna;
  e si` ver' noi aguzzavan le ciglia
  come 'l vecchio sartor fa ne la cruna.

Cosi` adocchiato da cotal famiglia,
  fui conosciuto da un, che mi prese
  per lo lembo e grido`: <<Qual maraviglia!>>.

E io, quando 'l suo braccio a me distese,
  ficcai li occhi per lo cotto aspetto,
  si` che 'l viso abbrusciato non difese

la conoscenza sua al mio 'ntelletto;
  e chinando la mano a la sua faccia,
  rispuosi: <<Siete voi qui, ser Brunetto?>>.

E quelli: <<O figliuol mio, non ti dispiaccia
  se Brunetto Latino un poco teco
  ritorna 'n dietro e lascia andar la traccia>>.

I' dissi lui: <<Quanto posso, ven preco;
  e se volete che con voi m'asseggia,
  farol, se piace a costui che vo seco>>.

<<O figliuol>>, disse, <<qual di questa greggia
  s'arresta punto, giace poi cent'anni
  sanz'arrostarsi quando 'l foco il feggia.

Pero` va oltre: i' ti verro` a' panni;
  e poi rigiugnero` la mia masnada,
  che va piangendo i suoi etterni danni>>.

I' non osava scender de la strada
  per andar par di lui; ma 'l capo chino
  tenea com'uom che reverente vada.

El comincio`: <<Qual fortuna o destino
  anzi l'ultimo di` qua giu` ti mena?
  e chi e` questi che mostra 'l cammino?>>.

<<La` su` di sopra, in la vita serena>>,
  rispuos'io lui, <<mi smarri' in una valle,
  avanti che l'eta` mia fosse piena.

Pur ier mattina le volsi le spalle:
  questi m'apparve, tornand'io in quella,
  e reducemi a ca per questo calle>>.

Ed elli a me: <<Se tu segui tua stella,
  non puoi fallire a glorioso porto,
  se ben m'accorsi ne la vita bella;

e s'io non fossi si` per tempo morto,
  veggendo il cielo a te cosi` benigno,
  dato t'avrei a l'opera conforto.

Ma quello ingrato popolo maligno
  che discese di Fiesole ab antico,
  e tiene ancor del monte e del macigno,

ti si fara`, per tuo ben far, nimico:
  ed e` ragion, che' tra li lazzi sorbi
  si disconvien fruttare al dolce fico.

Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;
  gent'e` avara, invidiosa e superba:
  dai lor costumi fa che tu ti forbi.

La tua fortuna tanto onor ti serba,
  che l'una parte e l'altra avranno fame
  di te; ma lungi fia dal becco l'erba.

Faccian le bestie fiesolane strame
  di lor medesme, e non tocchin la pianta,
  s'alcuna surge ancora in lor letame,

in cui riviva la sementa santa
  di que' Roman che vi rimaser quando
  fu fatto il nido di malizia tanta>>.

<<Se fosse tutto pieno il mio dimando>>,
  rispuos'io lui, <<voi non sareste ancora
  de l'umana natura posto in bando;

che' 'n la mente m'e` fitta, e or m'accora,
  la cara e buona imagine paterna
  di voi quando nel mondo ad ora ad ora

m'insegnavate come l'uom s'etterna:
  e quant'io l'abbia in grado, mentr'io vivo
  convien che ne la mia lingua si scerna.

Cio` che narrate di mio corso scrivo,
  e serbolo a chiosar con altro testo
  a donna che sapra`, s'a lei arrivo.

Tanto vogl'io che vi sia manifesto,
  pur che mia coscienza non mi garra,
  che a la Fortuna, come vuol, son presto.

Non e` nuova a li orecchi miei tal arra:
  pero` giri Fortuna la sua rota
  come le piace, e 'l villan la sua marra>>.

Lo mio maestro allora in su la gota
  destra si volse in dietro, e riguardommi;
  poi disse: <<Bene ascolta chi la nota>>.

Ne' per tanto di men parlando vommi
  con ser Brunetto, e dimando chi sono
  li suoi compagni piu` noti e piu` sommi.

Ed elli a me: <<Saper d'alcuno e` buono;
  de li altri fia laudabile tacerci,
  che' 'l tempo saria corto a tanto suono.

In somma sappi che tutti fur cherci
  e litterati grandi e di gran fama,
  d'un peccato medesmo al mondo lerci.

Priscian sen va con quella turba grama,
  e Francesco d'Accorso anche; e vedervi,
  s'avessi avuto di tal tigna brama,

colui potei che dal servo de' servi
  fu trasmutato d'Arno in Bacchiglione,
  dove lascio` li mal protesi nervi.

Di piu` direi; ma 'l venire e 'l sermone
  piu` lungo esser non puo`, pero` ch'i' veggio
  la` surger nuovo fummo del sabbione.

Gente vien con la quale esser non deggio.
  Sieti raccomandato il mio Tesoro
  nel qual io vivo ancora, e piu` non cheggio>>.

Poi si rivolse, e parve di coloro
  che corrono a Verona il drappo verde
  per la campagna; e parve di costoro

quelli che vince, non colui che perde.

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