Saturday, 14 April 2018

"Miserentissimus Redemptor" del Papa Pio XI (translated into Italian)


LETTERA ENCICLICA
MISERENTISSIMUS REDEMPTOR
DEL SOMMO PONTEFICE PIO XI
SULL'ATTO DI RIPARAZIONE AL SACRATISSIMO CUORE DI GESÙ



Ai Reverendi Patriarchi,
Primati, Arcivescovi,
Vescovi e agli altri Ordinari locali
che hanno pace e comunione con l’Apostolica Sede.

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

Il misericordiosissimo nostro Redentore, dopo aver recato la salvezza al genere umano sul legno della Croce, prima di salire da questo mondo al Padre, per consolare i suoi mesti apostoli e discepoli, disse: « Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo » [1]. Queste parole, in verità assai gradite, sono motivo di ogni speranza e sicurezza. Esse Ci vengono facilmente alla memoria, Venerabili Fratelli, tutte le volte che — per così dire — da questa più alta specola guardiamo tutta l’umana famiglia afflitta da tanti gravi mali, e la Chiesa pure, tormentata senza tregua da assalti e da insidie. Infatti, tale divina promessa, come dapprima sollevò gli abbattuti animi degli Apostoli e, così animati, li accese fervidamente a spargere per la terra i semi della dottrina evangelica, così in seguito guidò alla vittoria la Chiesa contro le potenze dell’inferno. Sempre, certamente, il Signore Gesù Cristo assistette la sua Chiesa; ma con più valido aiuto e protezione specialmente quando fu travagliata da pericoli e sciagure più gravi, dando proprio quei rimedi che erano i più adatti alla condizione dei tempi e delle cose, con la sua divina Sapienza che « arriva da una estremità all’altra con potenza, e con soavità dispone tutte le cose » [2]. Ma neppure in tempi a noi più vicini « si è accorciata la mano del Signore » [3], specialmente quando qualche errore si introdusse, e abbastanza largamente si diffuse, così da doverne temere che si inaridissero in qualche modo le fonti della vita cristiana per gli uomini allontanatisi dall’amore di Dio e dalla sua consuetudine. E poiché alcuni del popolo forse ignorano, altri trascurano i lamenti che l’amantissimo Gesù fece a Maria Margherita Alacoque nelle sue apparizioni, come pure i desideri e le volontà che manifestò agli uomini, alla fine, per il loro proprio vantaggio, Ci piace, Venerabili Fratelli, trattener- Ci con Voi alquanto per parlare dell’obbligo che Ci impone di fare ammenda onorevole al Sacratissimo Cuor di Gesù, con questa intenzione: che ciascuno di Voi insegni con diligenza al proprio gregge quanto Noi vi avremo comunicato, e lo ecciti alla esecuzione di quanto stiamo per ordinare.
                Tra tutti gli altri documenti della infinita bontà del nostro Redentore, questo specialmente risplende: raffreddandosi l’amore dei fedeli, la stessa divina carità fu proposta ad essere onorata con speciale culto, e così le ricchezze della sua bontà furono largamente svelate con quella forma di venerazione con cui onoriamo il Sacratissimo Cuore di Gesù « nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza » [4]. Infatti, come già al genere umano, che usciva dall’arca di Noè, la bontà di Dio volle che riducesse il segno della contratta amicizia, « l’arcobaleno che appare tra le nubi » [5], così negli agitatissimi tempi moderni, quando serpeggiava l’eresia più scaltra di tutte, quella eresia giansenista — nemica all’amore e alla pietà verso Dio — che predicava un Dio non tanto da amare come padre quanto da temere come giudice implacabile, il benignissimo Gesù mostrò ai popoli il suo Cuore Sacratissimo quale spiegato vessillo di pace e di carità, assicurando indubbia vittoria nella battaglia. Perciò, ben a ragione, il Nostro predecessore Leone XIII di felice memoria nella sua Enciclica « Annum sacrum », ammirando la grandissima opportunità del culto del Cuore Sacratissimo di Gesù, non esitò ad affermare: « Allorché la Chiesa, alle origini, era oppressa dal giogo dei Cesari, ad un giovane imperatore apparve, in alto, una croce, auspice ad un tempo e realizzatrice della splendida vittoria che subito dopo seguì. Ora vi è offerto davanti agli occhi un segno faustissimo e divinissimo, cioè il Sacratissimo Cuore di Gesù, che porta su di sé la croce e che splende tra fiamme di lucentissimo candore. In lui dobbiamo collocare ogni speranza: a lui va richiesta e da lui va attesa la salvezza ».
                E ciò ben a ragione, Venerabili Fratelli, perché in quel felicissimo segno e nella forma che ne emana non sono forse contenute tutta la sostanza della religione e specialmente la norma di una vita più perfetta, come quella che guida per una via più facile le menti a conoscere intimamente Gesù Cristo e induce i cuori ad amarlo più ardentemente e più generosamente ad imitarlo? Nessuno dunque deve meravigliarsi che i Nostri predecessori abbiano sempre difeso questa ottima forma di culto dalle accuse dei denigratori e l’abbiano sommamente lodata e promossa con il massimo impegno secondo che i tempi e le condizioni richiedevano. Certo per divina ispirazione avvenne che il pio affetto dei fedeli verso il Sacratissimo Cuore di Gesù di giorno in giorno andasse sempre crescendo; quindi sorsero dappertutto pie associazioni per promuovere il culto del divin Cuore, e si diffuse l’usanza, che oggi dappertutto già vige, della sacra Comunione fatta il primo venerdì di ogni mese, secondo il desiderio di Gesù Cristo stesso.
                È certo però che fra tutte le pratiche che spettano propriamente al culto del Sacratissimo Cuore, primeggia, degna da ricordare, la pia consacrazione con la quale offriamo al Cuore di Gesù noi e tutte le cose nostre, riconoscendole ricevute dalla eterna carità di Dio. E avendo il Salvator nostro manifestato alla innocentissima discepola del suo Cuore Margherita Maria, quanto Egli, mosso meno dal suo diritto che dalla immensa carità verso di noi, desiderasse che dagli uomini gli fosse reso questo tributo di devozione, la Santa prima di tutti lo offerse insieme con il suo Padre spirituale Claudio de la Colombière; seguirono poi, con l’andare del tempo, a tributarlo le singole persone, poi le famiglie private e le Associazioni, infine le stesse autorità, le città e i regni. Essendosi nel secolo scorso e in questo nostro, per le macchinazioni degli empi, giunti a tal punto da disprezzare l’impero di Cristo e da dichiarare pubblicamente guerra alla Chiesa con leggi e mozioni dei popoli contrarie al diritto divino e naturale, anzi con il grido di intere assemblee: «Non vogliamo che costui regni su di noi » [6], appunto per la detta consacrazione erompeva quasi, e faceva forte contrasto, la voce unanime dei devoti del Sacratissimo Cuore per rivendicarne la gloria e difenderne i diritti: « Bisogna che Cristo regni [7]: Venga il regno tuo ». Ne fu finalmente conseguenza felice che tutto il genere umano, che appartiene per diritto nativo a Cristo, nel quale solo tutte le cose sono riunite [8], all’inizio di questo secolo, dal Nostro predecessore Leone XIII di f.m., con il plauso di tutto l’orbe cristiano, fosse consacrato al suo Sacratissimo Cuore.
                Questi così fausti e lieti inizi, come dicemmo nella Nostra Enciclica «Quas primas », Noi stessi, per somma bontà di Dio, portammo a pieno compimento, quando, secondo i moltissimi desideri e voti di Vescovi e fedeli, al termine dell’Anno giubilare istituimmo la festa di Cristo Re universale, da celebrarsi solennemente in tutto il mondo cristiano. E ciò facendo, non soltanto ponemmo in luce il sommo impero che Cristo tiene su tutte le cose, sulla società civile e domestica, sugli individui singoli, ma fin d’allora pregustammo insieme la gioia di quel giorno lietissimo, in cui il mondo intero si sottometterà di buon grado e volonteroso al dominio dolcissimo di Cristo Re. Perciò ordinammo allora contemporaneamente che, in occasione della festa istituita, si rinnovasse questa medesima consacrazione ogni anno, per conseguire più certo e più copioso il frutto della consacrazione stessa, e stringere nel Cuore del Re dei re e del Sovrano dei sovrani i popoli tutti, con amore cristiano nella comunione di pace.
                Se non che a tutti questi ossequi, e particolarmente alla tanto fruttuosa consacrazione, che mediante l’istituzione della festa di Cristo Re venne, a dir così, riconfermata, conviene che se ne aggiunga un altro di cui, Venerabili Fratelli, Ci è caro al presente intrattenervi alquanto più a lungo: l’atto cioè di espiazione o riparazione, come suol dirsi, da prestarsi al Cuore Sacratissimo di Gesù. Infatti, se nella consacrazione primeggia l’intento di ricambiare l’amore del Creatore con l’amore della creatura, ne segue naturalmente un altro, che dello stesso Amore increato, quando sia o per dimenticanza trascurato o per offesa amareggiato, si debbano risarcire gli oltraggi in qualsiasi modo recatigli; il qual dovere comunemente chiamiamo col nome di riparazione.
                Se all’uno e all’altro dovere siamo obbligati per le stesse ragioni, al debito particolarmente della riparazione siamo tenuti da un più potente motivo di giustizia e di amore: di giustizia, per espiare l’offesa recata a Dio con le nostre colpe e ristabilire, con la penitenza, l’ordine violato; di amore, per patire insieme con Cristo paziente e « saturato di obbrobri » e recargli, secondo la nostra pochezza, qualche conforto. Infatti, essendo noi tutti peccatori e gravati da molte colpe, dobbiamo onorare il nostro Dio, non solo con il culto col quale adoriamo coi dovuti ossequi la somma sua Maestà, o mediante la preghiera riconosciamo il suo supremo dominio, o con i ringraziamenti lodiamo la sua generosità infinita; ma inoltre è necessario che diamo soddisfazione alla giusta vendetta di Dio, « per gli innumerevoli peccati e offese e negligenze » nostre. Dunque, alla consacrazione con la quale ci offriamo a Dio e diventiamo sacri a Lui, per quella santità e stabilità che sono proprie della consacrazione, come insegna l’Angelico [9], si deve aggiungere l’espiazione, con cui estinguere del tutto le colpe, a meno che la santità della somma giustizia rigetti la nostra proterva indegnità, e anziché gradire il nostro dono, lo rifiuti piuttosto come sgradito.
                Questo dovere di espiazione incombe a tutto il genere umano poiché, secondo gli insegnamenti della fede cristiana, dopo la miseranda caduta di Adamo, esso, macchiato di colpa ereditaria, soggetto alle passioni e degradato nel modo più compassionevole, avrebbe meritato d’essere condannato alla eterna perdizione. Negano, sì, questa verità, i superbi sapienti del nostro secolo i quali, rinnovando la vecchia eresia di Pelagio, vantano una bontà congenita della umana natura, che per virtù sua si spinge a sempre maggiore perfezione. Ma queste false invenzioni della superbia umana sono condannate dall’Apostolo, il quale ci ammonisce che « eravamo per natura meritevoli d’ira »[10]. E in verità, già fin dal principio del mondo gli uomini riconobbero in qualche modo il debito di tale comune espiazione, mentre per un certo istinto naturale si diedero, anche con pubblici sacrifici, a placare la divinità.
                Se non che nessuna potenza creata era bastevole all’espiazione delle colpe umane, se il figlio di Dio non avesse assunto la natura umana da redimere. E ciò lo stesso Salvatore degli uomini annunziò per bocca del Salmista: «Tu non hai voluto né vittime né oblazioni, ma mi hai formato un corpo; non hai gradito né olocausti né sacrifici espiatori. Allora io dissi: Ecco, io vengo » [11]. E in verità « egli prese le nostre infermità e portò i nostri dolori; per le nostre iniquità fu ferito »[12] e « i peccati nostri portò egli stesso nel proprio corpo sopra il legno …[13]… cancellando il chirografo del decreto scritto contro di noi, ed Egli, affiggendolo alla croce, lo tolse di mezzo …[14], affinché, morti al peccato, vivessimo per la giustizia » [15].
                Sebbene la copiosa redenzione di Cristo, con sovrabbondanza « ci condonò tutti i peccati » [16], tuttavia, per quella mirabile disposizione della divina Sapienza secondo la quale nel nostro corpo si deve compiere quello che manca dei patimenti di Cristo a favore del corpo di Lui, che è la Chiesa [17], noi possiamo, anzi dobbiamo aggiungere alle lodi e soddisfazioni « che Cristo in nome dei peccatori tributò a Dio », anche le nostre lodi e soddisfazioni. Ma conviene sempre ricordare che tutto il valore espiatorio dipende unicamente dal cruento sacrificio di Cristo, il quale si rinnova, senza interruzione, sui nostri altari in modo incruento, poiché « una stessa è la Vittima, uno medesimo è ora l’oblatore mediante il ministero dei sacerdoti, quello stesso che si offrì sulla croce, mutata solamente la maniera dell’oblazione » [18]. Per tale motivo con questo augusto sacrificio Eucaristico si deve congiungere l’immolazione dei ministri e degli altri fedeli, affinché anche essi si offrano quali « vittime vive, sante, gradevoli a Dio » [19]. Anzi, San Cipriano non esita ad affermare « che il sacrificio del Signore non si compie con la dovuta santificazione se l’offerta e il sacrificio nostro non corrisponderanno alla passione » [20]. Perciò l’Apostolo ci ammonisce perché « portando nel nostro corpo la mortificazione di Gesù » [21] e sepolti e innestati con Cristo in somiglianza con la sua morte [22], non solo crocifiggiamo la nostra carne, i vizi e le passioni [23] « fuggendo la corruzione della concupiscenza che è nel mondo » [24], ma « la vita di Gesù si manifesti così nei corpi nostri » [25] e fatti partecipi del suo sacerdozio eterno possiamo offrire « doni e sacrifici per i peccati » [26]. Non sono, infatti, partecipi di questo arcano sacerdozio e dell’ufficio di offrire soddisfazioni e sacrifici quelli solamente di cui il Pontefice nostro Cristo Gesù si vale come di ministri per offrire a Dio un’oblazione monda in ogni luogo dall’oriente all’occidente [27], ma anche tutta la moltitudine dei cristiani, chiamata a ragione dal Principe degli Apostoli « Stirpe eletta, Sacerdozio regale » [28], deve offrire sacrificio per i peccati per sé e per tutto il genere umano [29], quasi non altrimenti che ogni sacerdote e pontefice «preso fra gli uomini è preposto a pro degli uomini in tutte quelle cose che riguardano Dio » [30].
                Quando poi l’oblazione nostra e il nostro sacrificio avranno più perfettamente corrisposto al sacrificio del Signore, ossia noi avremo immolato l’amore proprio e le nostre passioni, e crocifisso la nostra carne con quella mistica crocifissione di cui parla l’Apostolo, tanto più copiosi frutti di propiziazione e di espiazione raccoglieremo per noi e per gli altri. Mirabile legame stringe infatti i fedeli tutti con Cristo, come quello che corre fra il capo e le altre membra del corpo, e similmente quella misteriosa comunione dei Santi, che professiamo per fede cattolica, onde gli individui e i popoli non solamente sono uniti fra loro, ma altresì con lo stesso « capo che è Cristo, dal quale tutto il corpo, ben compaginato e connesso mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità » [31]. Questa fu la preghiera che lo stesso Cristo Gesù, mediatore tra Dio e gli uomini, vicino a morte rivolse al Padre: « Io in essi e tu in me, affinché siano consumati nell’unità » [32].
                Pertanto, nella stessa maniera in cui la consacrazione professa e conferma l’unione con Cristo, così l’espiazione, purificando dalle colpe, incomincia l’unione stessa, e con la partecipazione dei patimenti di Cristo la perfeziona, e con l’oblazione dei sacrifici a favore dei fratelli la porta all’ultimo compimento. E tale appunto fu il disegno della misericordia di Gesù quando, acceso della fiamma dell’amore, volle svelare a noi il suo Cuore con i segni della sua passione, affinché noi, meditando da una parte la malizia infinita del peccato e ammirando dall’altra la infinita carità del Redentore, detestassimo più vivamente il peccato e più ardentemente ricambiassimo l’amore.

E in verità lo spirito di espiazione o di riparazione ebbe sempre le prime e principali parti nel culto con cui si onora il Cuore Sacratissimo di Gesù, ed è certo il più consono all’origine, alla natura, all’efficacia, alle pratiche proprie di questa particolare devozione, come è confermato dalla storia e dalla pratica, dalla sacra liturgia e dagli atti dei Sommi Pontefici. Infatti, nel manifestarsi a Margherita Maria, Cristo, mentre insisteva sull’immensità del proprio amore, al tempo stesso, in atteggiamento addolorato, si lamentò dei tanti e tanto gravi oltraggi a sé fatti dall’ingratitudine degli uomini, con queste parole, che dovrebbero sempre essere colpite nel cuore delle anime buone né mai cancellarsi dalla memoria: « Ecco — disse — quel Cuore che ha tanto amato gli uomini e li ha ricolmati di tutti i benefìci, ma in cambio del suo amore infinito, anziché trovare gratitudine, incontrò invece dimenticanza, indifferenza, oltraggi, e questi arrecatigli talora anche da anime a lui obbligate con il più stretto debito di speciale amore ». E appunto in riparazione di tali colpe Egli, tra molte altre raccomandazioni, fece queste specialmente come a sé graditissime: che i fedeli con tale intento di riparazione si accostassero alla sacra mensa — che si dice appunto « Comunione Riparatrice » — e per un’ora intera praticassero atti e preghiere di riparazione, il che con tutta verità si dice «Ora Santa »: devozioni, queste, che la Chiesa non solo ha approvato, ma ha pure arricchito di copiosi favori spirituali.
                Ma come potrà dirsi che Cristo regni beato nel Cielo se può essere consolato da questi atti di riparazione? « Dà un’anima che ami e comprenderà quello che dico » [33], rispondiamo con le parole di Agostino, che fanno proprio al nostro proposito.
                Ogni anima, infatti, veramente infiammata nell’amore di Dio, se con la considerazione si volge al tempo passato, meditando vede e contempla Gesù sofferente per l’uomo, afflitto, in mezzo ai più gravi dolori, « per noi uomini e per la nostra salute », dalla tristezza, dalle angosce e dagli obbrobri quasi oppresso, anzi « schiacciato dai nostri delitti » [34], e in atto di risanarci con i suoi lividi. Con tanta maggior verità le anime pie meditano queste cose, in quanto i peccati e i delitti degli uomini, in qualsiasi tempo commessi, furono la causa per la quale il Figlio di Dio fosse dato a morte, ed anche al presente cagionerebbero per sé a Cristo la morte, accompagnata dagli stessi dolori e dalle medesime angosce, giacché ogni peccato si considera rinnovare in qualche modo la passione del Signore: « Di nuovo in loro stessi crocifiggono il Figlio di Dio, e lo espongono al ludibrio» [35]. Che se a causa anche dei nostri peccati futuri, ma previsti, l’anima di Gesù divenne triste sino alla morte, non è a dubitare che qualche conforto non abbia anche fin da allora provato per la previsione della nostra riparazione, quando a « lui apparve l’Angelo dal cielo » [36] per consolare il suo cuore oppresso dalla tristezza e dalle angosce.
                E così anche ora in modo mirabile ma vero, noi possiamo e dobbiamo consolare quel Cuore Sacratissimo che viene continuamente ferito dai peccati degli uomini ingrati, giacché — come si legge anche nella sacra liturgia — Cristo stesso si duole, per bocca del salmista, di essere abbandonato dai suoi amici: « Smacco e dolore mi spezzano il cuore; mi aspettavo compassione, ma non ce ne fu, qualche consolatore, e non l’ho trovato » [37].
                Si aggiunga che la passione espiatrice di Cristo si rinnova e in certo qual modo continua nel suo corpo mistico, la Chiesa. Infatti, per servirci nuovamente delle parole di Sant’Agostino [38]: «Cristo patì tutto ciò che doveva patire; né al numero dei patimenti nulla più manca. Dunque i patimenti sono compiuti, ma nel capo; rimanevano tuttora le sofferenze di Cristo da compiersi nel corpo ». Ciò Gesù stesso dichiarò, quando a Saulo, « spirante ancora minacce e stragi contro i discepoli » [39], disse: « Io sono Gesù che tu perseguiti » [40], chiaramente significando che le persecuzioni mosse alla Chiesa, vanno a colpire gravemente lo stesso suo Capo divino. A buon diritto, dunque, Cristo sofferente ancora nel suo corpo mistico desidera averci compagni della sua espiazione; così richiede pure la nostra unione con lui; infatti, essendo noi « il corpo di Cristo e membra congiunte » [41], quanto soffre il capo, tanto devono con esso soffrire anche le membra [42].
                Quanto poi sia urgente, specialmente in questo nostro secolo, la necessità della espiazione o riparazione, non può ignorarlo chiunque con gli occhi e con la mente, come dicemmo prima, consideri questo mondo « tutto sottoposto al maligno » [43]. Infatti, da ogni parte giunge a Noi il grido dei popoli, i cui re o governi veramente si sono sollevati e hanno congiurato insieme contro il Signore e contro la sua Chiesa [44]. Vedemmo in quelle nazioni calpestati i diritti divini ed umani, i templi distrutti dalle fondamenta, i religiosi e le sacre vergini cacciati dalle loro case, imprigionati, affamati, afflitti da obbrobriose sevizie; le schiere dei fanciulli e delle fanciulle strappate dal grembo della Madre Chiesa, spinte a negare e bestemmiare Cristo, e condotte ai peggiori delitti della lussuria; tutto il popolo cristiano minacciato, oppresso, in continuo pericolo di apostasia dalla Fede, o di morte anche la più atroce. Cose tanto dolorose sembrano, con tali sciagure preannunziare fin d’ora e anticipare « il principio dei dolori » che apporterà « l’uomo iniquo che s’innalza su tutto quello che è Dio e religione » [45].
                E non è meno triste lo spettacolo, Venerabili Fratelli, che fra gli stessi fedeli, lavati col battesimo nel sangue dell’Agnello immacolato e arricchiti della grazia, anche si incontrino tanti, di ogni classe, che, ignoranti delle cose divine, avvelenati da false dottrine, vivono una vita viziosa, lontana dalla casa del Padre, senza la luce della vera fede, senza la gioia della speranza nella futura beatitudine, privi del beneficio e del conforto che deriva dall’ardore della carità, sicché davvero si può dire che siano immersi nelle tenebre, e nelle ombre di morte. Inoltre cresce tra i fedeli la noncuranza della disciplina ecclesiastica e dell’avita tradizione da cui è sorretta tutta la vita cristiana, è regolata la società domestica, è difesa la santità del matrimonio; l’educazione dei fanciulli è del tutto trascurata o guastata da troppo effeminate cure, e perfino tolta alla Chiesa la facoltà di educare cristianamente la gioventù; il pudore cristiano lacrimevolmente dimenticato nel modo di vivere e di vestire, delle donne soprattutto; una cupidigia insaziabile dei beni caduchi; un predominio sfrenato degli interessi civili; una ricerca bramosa di favore popolare; un disprezzo della legittima autorità e della parola di Dio, per cui è scossa la fede stessa o messa a grave repentaglio.
                Ma al complesso di tanti mali si aggiungono l’ignavia e l’infingardaggine di coloro che, a somiglianza degli apostoli addormentati e fuggitivi, malfermi nella fede, abbandonano miseramente Cristo, oppresso dai dolori o assalito dai satelliti di Satana, e la perfidia di coloro che, seguendo l’esempio di Giuda traditore, o con sacrilega temerità si accostano alla Comunione o passano al campo nemico. E così corre alla mente, pur senza volerlo, il pensiero che già siano giunti i tempi profetizzati da Nostro Signore: « E poiché abbondò l’iniquità, si raffredderà la carità di molti » [46].
                A tutte queste considerazioni quanti fedeli volgeranno piamente l’animo, accesi d’amore per Cristo sofferente, non potranno non espiare le proprie e le altrui colpe con maggiore impegno, risarcire l’onore di Cristo, promuovere l’eterna salvezza delle anime. E per certo possiamo adattare, in qualche maniera, anche per descrivere questa età nostra, le parole dell’Apostolo: «Dove abbondò il delitto, sovrabbondò la grazia » [47]. Infatti, cresciuta di molto la perversità degli uomini, meravigliosamente va pure aumentando, per favore dello Spirito Santo, il numero dei fedeli dell’uno e dell’altro sesso, che con animo più volonteroso si sforzano di dar soddisfazione al Divin Cuore per tante ingiurie recategli, ed anzi non temono di offrire se stessi a Cristo come vittime. Poiché se qualcuno va con amore fra sé ripensando a quanto sin qui abbiamo ricordato e, per così dire, se lo ha impresso nell’intimo del cuore, dovrà senza dubbio non solo aborrire ogni peccato come sommo male e fuggirlo, ma tutto offrirsi alla volontà di Dio e adoperarsi a risarcire l’onore leso della Divina Maestà con l’assidua preghiera, con l’uso di volontarie penitenze e con la paziente sofferenza di quelle prove che incontrerà; infine: con la vita tutta, condotta secondo questo spirito di riparazione.
                Così nacquero anche molte famiglie religiose di uomini e donne che, giorno e notte, con ambito servizio, si propongono di far in qualche modo le veci dell’Angelo confortatore di Gesù nell’orto; così pure le pie associazioni, approvate dalla Santa Sede e arricchite di indulgenze, che con opportuni esercizi di pietà e di virtù si prefiggono lo scopo della riparazione; così, per non parlare di altre pie pratiche, l’uso frequente di solenni ammende, da parte non solo dei singoli fedeli, ma delle parrocchie, delle diocesi, delle città.
                Pertanto, Venerabili Fratelli, come la pratica della consacrazione, cominciata da umili inizi, e poi largamente diffusasi, ebbe con la Nostra conferma lo splendore e la corona desiderata, così grandemente bramiamo che questa ammenda riparatrice, già da tempo santamente introdotta e propagata, abbia il più fermo suggello dalla Nostra autorità apostolica, e ne diventi universale e più solenne la pratica in mezzo al popolo cristiano. Perciò stabiliamo e ordiniamo che tutti gli anni nella festa del Sacratissimo Cuore di Gesù — la quale in questa occasione abbiamo voluto che si elevasse al grado di doppio di prima classe con l’ottava — in tutte le chiese del mondo si faccia con la stessa formula, secondo l’esemplare unito a questa Enciclica, una solenne ammenda al nostro amantissimo Redentore, per riparare con essa le nostre colpe e risarcire i violati diritti di Cristo Sommo Re e Signore amantissimo.
                Da questa pratica, poi santamente rinnovata ed estesa a tutta la Chiesa, non è da dubitare, Venerabili Fratelli, che molti e segnalati beni Ci ripromettiamo, tanto per i singoli individui, quanto per la società religiosa, domestica e civile; avendo lo stesso Redentore nostro promesso a Margherita Maria « che avrebbe arricchito con l’abbondanza delle sue grazie coloro che avessero reso al Cuor Suo questo onore ». I peccatori certamente « volgendo lo sguardo a Colui che trafissero » [48], commossi al pianto di tutta la Chiesa, detestando le ingiurie recate al Sommo Re, « rientreranno in se stessi » [49] perché non avvenga che ostinandosi nei peccati alla vista di Colui che piagarono « venire sulle nubi del cielo » [50], piangano sé troppo tardi e inutilmente sopra di lui [51]. I giusti poi, diventeranno più giusti e più santi [52] e si consacreranno con rinnovato ardore al servizio del loro Re, che vedono tanto disprezzato e combattuto e così gravemente ingiuriato, soprattutto si accrescerà in essi lo zelo per la salvezza delle anime, al sentire quel gemito della Vittima Divina « A che pro il mio sangue? » [53] e riflettendo insieme al gaudio di questo Sacratissimo Cuore « per un peccatore che torna a penitenza » [54]. E questo innanzi tutto Noi principalmente speriamo e intensamente desideriamo che la giustizia di Dio, la quale per dieci giusti avrebbe perdonato a Sodoma, molto più voglia usare misericordia a tutta l’umana famiglia, al supplicarla e placarla che faranno i fedeli tutti, insieme con Cristo Mediatore e Capo. Sia propizia ai Nostri voti e a queste Nostre disposizioni la benignissima Madre di Dio, la quale, avendoci dato Gesù Riparatore, avendolo nutrito e presso la croce offerto vittima per noi, per la mirabile unione che ebbe con Lui e per grazia singolarissima, divenne anche lei, come piamente è detta, Riparatrice. Confidando nella sua intercessione presso Gesù, che essendo l’unico «Mediatore tra Dio e gli uomini » [55], volle associarsi la Madre Sua come avvocata dei peccatori, dispensiera e mediatrice di grazia, impartiamo di cuore, auspice dei divini favori e testimone della paterna Nostra benevolenza, a Voi, Venerabili Fratelli, e a tutto il gregge affidato alle vostre cure, l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, l’8 maggio 1928, anno settimo del Nostro Pontificato.



PIUS PP. XI

ATTO DI RIPARAZIONE AL SACRATISSIMO CUORE DI GESÙ
                Gesù dolcissimo, il cui immenso amore per gli uomini viene con tanta ingratitudine ripagato di oblìo, di trascuratezza, di disprezzo, ecco che noi prostrati dinanzi ai tuoi altari intendiamo riparare con particolari attestazioni di onore una così indegna freddezza e le ingiurie con le quali da ogni parte viene ferito dagli uomini l’amantissimo tuo Cuore.
                Ricordando però che noi pure altre volte ci macchiammo di tanta indegnità e provandone vivissimo dolore, imploriamo anzitutto per noi la tua misericordia, pronti a riparare con volontaria espiazione, non solo i peccati commessi da noi, ma anche quelli di coloro che errando lontano dalla via della salute, o ricusano di seguire Te come pastore e guida ostinandosi nella loro infedeltà, o calpestando le promesse del Battesimo hanno scosso il soavissimo giogo della tua legge.
                E mentre intendiamo espiare tutto il cumulo di sì deplorevoli delitti, ci proponiamo di ripararli ciascuno in particolare: l’immodestia e le brutture della vita e dell’abbigliamento, le tante insidie tese dalla corruttela alle anime innocenti, la profanazione dei giorni festivi, le ingiurie esecrande scagliate contro Te e i tuoi Santi, gli insulti lanciati contro il tuo Vicario e l’ordine sacerdotale, le negligenze e gli orribili sacrilegi ond’è profanato lo stesso Sacramento dell’amore divino, e infine le colpe pubbliche delle nazioni che osteggiano i diritti e il magistero della Chiesa da Te fondata.
                Oh! potessimo noi lavare col nostro sangue questi affronti! Intanto, come riparazione dell’onore divino conculcato, noi Ti presentiamo — accompagnandola con le espiazioni della Vergine Tua Madre, di tutti i Santi e delle anime pie — quella soddisfazione che Tu stesso un giorno offristi sulla croce al Padre e che ogni giorno rinnovi sugli altari: promettendo con tutto il cuore di voler riparare, per quanto sarà in noi e con l’aiuto della tua grazia, i peccati commessi da noi e dagli altri e l’indifferenza verso sì grande amore con la fermezza della fede, l’innocenza della vita, l’osservanza perfetta della legge evangelica specialmente della carità, e d’impedire inoltre con tutte le nostre forze le ingiurie contro di Te, e di attrarre quanti più potremo al tuo sèguito. Accogli, Te ne preghiamo, o benignissimo Gesù, per intercessione della Beata Vergine Maria Riparatrice, questo volontario ossequio di riparazione, e conservaci fedelissimi nella tua ubbidienza e nel tuo servizio fino alla morte col gran dono della perseveranza, mercé il quale possiamo tutti un giorno pervenire a quella patria, dove Tu col Padre e con lo Spirito Santo vivi e regni, Dio, per tutti i secoli dei secoli. Così sia.


[1] Matth., XXVIII, 20.
[2] Sap., VIII, 1.
[3] Is., LIX, 1.
[4] Coloss., II, 3.
[5] Gen., II, 14.
[6] Luc., XIX, 14.
[7] I Cor., XV, 25.
[8] Eph., I, 10.
[9] II, II, q. 81, a. 8. c.
[10] Eph., II, 3.
[11] Hebr., X, 5-7.
[12]Is., V, 3; IV, 5.
[13] I Petr., II, 24.
[14] Coloss., II, 14.
[15] I Petr., II, 24.
[16] Cf. Coloss., II, 13.
[17] Cf. Coloss., I, 24.
[18] Conc. Trid., sess. XXII, c. 2.
[19] Rom., XII, 1.
[20] Ep. 63,n. 381.
[21] II Cor., IV, 10.
[22] Cf. Rom.,VI, 4-5.
[23] Cf. Gal., V, 24.
[24] II Petr., I, 4.
[25] II Cor., IV, 10.
[26] Hebr., V, 1.
[27] Malach., I, 11.
[28] I Petr., II, 9.
[29] Cf. Hebr.,V, 2.
[30] Hebr., V, 1.
[31] Eph., IV, 15-16.
[32] Ioan., XVII, 23.
[33] In Ioannis evangelium, tract. XXVI, 4.
[34] Is. LIII, 5.
[35] Hebr., VI, 6.
[36] Luc., XXII, 43.
[37] Ps., LXVIII, 21.
[38] In Ps. 86.
[39] Act., IX, 1.
[40] Act., IX, 5.
[41] I Cor., XII, 27.
[42] Cf. I Cor., XII, 26.
[43] I Ioann., V, 19.
[44] Cf. Ps., II, 2.
[45] II Thessal., II, 4.
[46] Matth., XXIV, 12.
[47] Rom., V, 20.
[48] Ioann., XIX, 37.
[49] Is., XLVI, 8.
[50] Matth., XXVI, 64.
[51] Cf. Apoc., I, 7.
[52] Cf. Apoc., II, 11.
[53] Ps. 19, 10.
[54] Luc., XV, 4.
[55] I Tim., II, 5.

Friday, 13 April 2018

Friday's Sung Word: "Coração" by Synval Silva (in Portuguese)

Coração, Governador
Da embarcação do amor,
Coração, Meu companheiro
Na alegria e na dor.
A felicidade procurada corre,
E a esperança é sempre a última que morre.

Coração que não descansa noite e dia,
Sempre aguardando uma alegria,
Esperando no mar desta vida,
Embarcação à procura,
um porto feliz de salvação.



 You can listen "Coração" sung by Carmen Miranda here.

 You can listen "Coração" sung by Synval Silva here.

 You can listen "Coração" sung by Ney Matogrosso here.

Thursday, 12 April 2018

Thursday's Serial: "Edward II" by Christopher Marlowe (in English) - IV


King Edward. How fast they run to banish him I love!
   They would not stir, were it to do me good.
   Why should a king be subject to a priest?
   Proud Rome, that hatchest such imperial grooms,
   With these thy superstitious taper-lights,
   Wherewith thy antichristian churches blaze,
   I'll fire thy crazed buildings, and enforce
   The papal towers to kiss the lowly ground,
   With slaughter'd priests make Tiber's channel swell,
   And banks rais'd higher with their sepulchres!
   As for the peers, that back the clergy thus,
   If I be king, not one of them shall live.
Re-enter GAVESTON.
Gaveston. My lord, I hear it whisper'd everywhere,
   That I am banish'd and must fly the land.
King Edward. 'Tis true, sweet Gaveston: O were it false!
   The legate of the Pope will have it so,
   And thou must hence, or I shall be depos'd.
   But I will reign to be reveng'd of them;
   And therefore, sweet friend, take it patiently.
   Live where thou wilt, I'll send thee gold enough;
   And long thou shalt not stay; or, if thou dost,
   I'll come to thee; my love shall ne'er decline.
Gaveston. Is all my hope turn'd to this hell of grief?
King Edward. Rend not my heart with thy too-piercing words:
   Thou from this land, I from myself am banish'd.
Gaveston. To go from hence grieves not poor Gaveston;
   But to forsake you, in whose gracious looks
   The blessedness of Gaveston remains;
   For nowhere else seeks he felicity.
King Edward. And only this torments my wretched soul,
   That, whether I will or no, thou must depart.
   Be governor of Ireland in my stead,
   And there abide till fortune call thee home.
   Here, take my picture, and let me wear thine:
                                               [They exchange pictures.
   O, might I keep thee here, as I do this,
   Happy were I! but now most miserable.
Gaveston. 'Tis something to be pitied of a king.
King Edward. Thou shalt not hence; I'll hide thee, Gaveston.
Gaveston. I shall be found, and then 'twill grieve me more.
King Edward. Kind words and mutual talk makes our grief greater:
   Therefore, with dumb embracement, let us part,
   Stay, Gaveston; I cannot leave thee thus.
Gaveston. For every look, my love drops down a tear:
   Seeing I must go, do not renew my sorrow.
King Edward. The time is little that thou hast to stay,
   And, therefore, give me leave to look my fill.
   But, come, sweet friend; I'll bear thee on thy way.
Gaveston. The peers will frown.
King Edward. I pass not for their anger. Come, let's go:
   O, that we might as well return as go!
Enter QUEEN ISABELLA.
Queen Isabella. Whither goes my lord?
King Edward. Fawn not on me, French strumpet; get thee gone!
Queen Isabella. On whom but on my husband should I fawn?
Gaveston. On Mortimer; with whom, ungentle queen,—
   I judge no more—judge you the rest, my lord.
Queen Isabella. In saying this, thou wrong'st me, Gaveston:
   Is't not enough that thou corrupt'st my lord,
   And art a bawd to his affections,
   But thou must call mine honour thus in question?
Gaveston. I mean not so; your grace must pardon me.
King Edward. Thou art too familiar with that Mortimer,
   And by thy means is Gaveston exil'd:
   But I would wish thee reconcile the lords,
   Or thou shalt ne'er be reconcil'd to me.
Queen Isabella. Your highness knows, it lies not in my power.
King Edward. Away, then! touch me not.—Come, Gaveston.
Queen Isabella. Villain, 'tis thou that robb'st me of my lord.
Gaveston. Madam, 'tis you that rob me of my lord.
King Edward. Speak not unto her: let her droop and pine.
Queen Isabella. Wherein, my lord, have I deserv'd these words?
   Witness the tears that Isabella sheds,
   Witness this heart, that, sighing for thee, breaks,
   How dear my lord is to poor Isabel!
King Edward. And witness heaven how dear thou art to me:
   There weep; for, till my Gaveston be repeal'd,
   Assure thyself thou com'st not in my sight.
                                      [Exeunt King Edward and Gaveston.
Queen Isabella. O miserable and distressed queen!
   Would, when I left sweet France, and was embarked,
   That charming Circe, walking on the waves,
   Had chang'd my shape! or at the marriage-day
   The cup of Hymen had been full of poison!
   Or with those arms, that twin'd about my neck,
   I had been stifled, and not liv'd to see
   The king my lord thus to abandon me!
   Like frantic Juno, will I fill the earth
   With ghastly murmur of my sighs and cries;
   For never doted Jove on Ganymede
   So much as he on cursed Gaveston:
   But that will more exasperate his wrath;
   I must entreat him, I must speak him fair,
   And be a means to call home Gaveston:
   And yet he'll ever dote on Gaveston;
   And so am I for ever miserable.
              Re-enter Lancaster, Warwick, Pembroke, the elder Mortimer, and the younger Mortimer.
Lancaster. Look, where the sister of the king of France
   Sits wringing of her hands and beats her breast!
Warwick. The king, I fear, hath ill-treated her.
Pembroke. Hard is the heart that injures such a saint.
Young Mortimer. I know 'tis 'long of Gaveston she weeps.
Elder Mortimer. Why, he is gone.
Young Mortimer. Madam, how fares your grace?
Queen Isabella. Ah, Mortimer, now breaks the king's hate forth,
   And he confesseth that he loves me not!
Young Mortimer. Cry quittance, madam, then, and love not him.
Queen Isabella. No, rather will I die a thousand deaths:
   And yet I love in vain; he'll ne'er love me.
Lancaster. Fear ye not, madam; now his minion's gone,
   His wanton humour will be quickly left.
Queen Isabella. O, never, Lancaster! I am enjoin'd,
   To sue unto you all for his repeal:
   This wills my lord, and this must I perform,
   Or else be banish'd from his highness' presence.
Lancaster. For his repeal, madam! he comes not back,
   Unless the sea cast up his shipwreck'd body.
Warwick. And to behold so sweet a sight as that,
   There's none here but would run his horse to death.
Young Mortimer. But, madam, would you have us call him home?
Queen Isabella. Ay, Mortimer, for, till he be restor'd,
   The angry king hath banish'd me the court;
   And, therefore, as thou lov'st and tender'st me,
   Be thou my advocate unto these peers.
Young Mortimer. What, would you have me plead for Gaveston?
Elder Mortimer. Plead for him that will, I am resolv'd.
Lancaster. And so am I, my lord: dissuade the queen.
Queen Isabella. O, Lancaster, let him dissuade the king!
   For 'tis against my will he should return.
Warwick. Then speak not for him; let the peasant go.
Queen Isabella. 'Tis for myself I speak, and not for him.
Pembroke. No speaking will prevail; and therefore cease.
Young Mortimer. Fair queen, forbear to angle for the fish
   Which, being caught, strikes him that takes it dead;
   I mean that vile torpedo, Gaveston,
   That now, I hope, floats on the Irish seas.
Queen Isabella. Sweet Mortimer, sit down by me a while,
   And I will tell thee reasons of such weight
   As thou wilt soon subscribe to his repeal.
Young Mortimer. It is impossible: but speak your mind.
Queen Isabella. Then, thus;—but none shall hear it but ourselves.
                                               [Talks to Young Mortimer. apart.
Lancaster. My lords, albeit the queen win Mortimer,
   Will you be resolute and hold with me?
Elder Mortimer. Not I, against my nephew.
Pembroke. Fear not; the queen's words cannot alter him.
Warwick. No? do but mark how earnestly she pleads!
Lancaster. And see how coldly his looks make denial!
Warwick. She smiles: now, for my life, his mind is chang'd!
Lancaster. I'll rather lose his friendship, I, than grant.
Young Mortimer. Well, of necessity it must be so.—
   My lords, that I abhor base Gaveston
   I hope your honours make no question.
   And therefore, though I plead for his repeal,
   'Tis not for his sake, but to our avail;
   Nay, for the realm's behoof, and for the king's.
Lancaster. Fie, Mortimer, dishonour not thyself!
   Can this be true, 'twas good to banish him?
   And is this true, to call him home again?
   Such reasons make white black, and dark night day.
Young Mortimer. My Lord of Lancaster, mark the respect.
Lancaster. In no respect can contraries be true.
Queen Isabella. Yet, good my lord, hear what he can allege.
Warwick. All that he speaks is nothing; we are resolv'd.
Young Mortimer. Do you not wish that Gaveston were dead?
Pembroke. I would he were!
Young Mortimer. Why, then, my lord, give me but leave to speak.
Elder Mortimer. But, nephew, do not play the sophister.
Young Mortimer. This which I urge is of a burning zeal
   To mend the king and do our country good.
   Know you not Gaveston hath store of gold,
   Which may in Ireland purchase him such friends
   As he will front the mightiest of us all?
   And whereas he shall live and be belov'd,
   'Tis hard for us to work his overthrow.
Warwick. Mark you but that, my lord of Lancaster.
Young Mortimer. But, were he here, detested as he is,
   How easily might some base slave be suborn'd
   To greet his lordship with a poniard,
   And none so much as blame the murderer,
   But rather praise him for that brave attempt,
   And in the chronicle enrol his name
   For purging of the realm of such a plague!
Pembroke. He saith true.
Lancaster. Ay, but how chance this was not done before?
Young Mortimer. Because, my lords, it was not thought upon.
   Nay, more, when he shall know it lies in us
   To banish him, and then to call him home,
   'Twill make him vail the top flag of his pride,
   And fear to offend the meanest nobleman.
Elder Mortimer. But how if he do not, nephew?
Young Mortimer. Then may we with some colour rise in arms;
   For, howsoever we have borne it out,
   'Tis treason to be up against the king;
   So shall we have the people of our side,
   Which, for his father's sake, lean to the king,
   But cannot brook a night-grown mushroom,
   Such a one as my Lord of Cornwall is,
   Should bear us down of the nobility:
   And, when the commons and the nobles join,
   'Tis not the king can buckler Gaveston;
   We'll pull him from the strongest hold he hath.
   My lords, if to perform this I be slack,
   Think me as base a groom as Gaveston.
Lancaster. On that condition Lancaster will grant.
Warwick. And so will Pembroke and I.
Elder Mortimer. And I.
Young Mortimer. In this I count me highly gratified,
   And Mortimer will rest at your command.
Queen Isabella. And when this favour Isabel forgets,
   Then let her live abandon'd and forlorn.—
   But see, in happy time, my lord the king,
   Having brought the Earl of Cornwall on his way,
   Is new return'd. This news will glad him much:
   Yet not so much as me; I love him more
   Than he can Gaveston: would he lov'd me
   But half so much! then were I treble-blest.
Re-enter King Edward, mourning.