Tuesday, 14 November 2023

Tuesday's Serial: “Convivio” by Dante Alighieri (in Italian) - I

 

TRATTATO PRIMO.

Capitolo I.

1. Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere ed è che ciascuna cosa, da providenza di propria natura impinta è inclinabile a la sua propria perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti. 2. Veramente da questa nobilissima perfezione molti sono privati per diverse cagioni, che dentro a l'uomo e di fuori da esso lui rimovono da l'abito di scienza. 3. Dentro da l'uomo possono essere due difetti e impedi[men]ti: l'uno da la parte del corpo, l'altro da la parte de l'anima. Da la parte del corpo è quando le parti sono indebitamente disposte, sì che nulla ricevere può, sì come sono sordi e muti e loro simili. Da la parte de l'anima è quando la malizia vince in essa, sì che si fa seguitatrice di viziose delettazioni, ne le quali riceve tanto inganno che per quelle ogni cosa tiene a vile. 4. Di fuori da l'uomo possono essere similemente due cagioni intese, l'una de le quali è induttrice di necessitade, l'altra di pigrizia. La prima è la cura familiare e civile, la quale convenevolmente a sè tiene de li uomini lo maggior numero, sì che in ozio di speculazione esser non possono. L'altra è lo difetto del luogo dove la persona è nata e nutrita, che tal ora sarà da ogni Studio non solamente privato, ma da gente studiosa lontano.

5. Le due di queste cagioni, cioè la prima da la parte [di dentro e la prima da la parte] di fuori, non sono da vituperare, ma da escusare e di perdono degne; le due altre, avvegna che l'una più, sono degne di biasimo e d'abominazione. 6. Manifestamente adunque può vedere chi bene considera, che pochi rimangono quelli che a l'abito da tutti desiderato possano pervenire, e innumerabili quasi sono li 'mpediti che di questo cibo sempre vivono affamati. 7. Oh beati quelli pochi che seggiono a quella mensa dove lo pane de li angeli si manuca! e miseri quelli che con le pecore hanno comune cibo! 8. Ma però che ciascuno uomo a ciascuno uomo naturalmente è amico, e ciascuno amico si duole del difetto di colui ch'elli ama, coloro che a così alta mensa sono cibati non sanza misericordia sono inver di quelli che in bestiale pastura veggiono erba e ghiande sen gire mangiando. 9. E acciò che misericordia è madre di beneficio, sempre liberalmente coloro che sanno porgono de la loro buona ricchezza a li veri poveri, e sono quasi fonte vivo, de la cui acqua si refrigera la naturale sete che di sopra è nominata. 10. E io adunque, che non seggio a la beata mensa, ma, fuggito de la pastura del vulgo, a' piedi di coloro che seggiono ricolgo di quello che da loro cade, e conosco la misera vita di quelli che dietro m'ho lasciati, per la dolcezza ch'io sento in quello che a poco a poco ricolgo, misericordievolmente mosso, non me dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale a li occhi loro, già è più tempo, ho dimostrata; e in ciò li ho fatti maggiormente vogliosi. 11. Per che ora volendo loro apparecchiare, intendo fare un generale convivio di ciò ch'i' ho loro mostrato, e di quello pane ch'è mestiere a così fatta vivanda, sanza lo quale da loro non potrebbe esser mangiata. 12. E questo [è quello] convivio, di quello pane degno, con tale vivanda qual io intendo indarno [non] essere ministrata. E però ad esso non s'assetti alcuno male de' suoi organi disposto, però che nè denti nè lingua ha nè palato; nè alcuno settatore di vizii, perchè lo stomaco suo è pieno d'omori venenosi contrarii, sì che mai vivanda non terrebbe. 13. Ma vegna qua qualunque è [per cura] familiare o civile ne la umana fame rimaso, e ad una mensa con li altri simili impediti s'assetti; e a li loro piedi si pongano tutti quelli che per pigrizia si sono stati, che non sono degni di più alto sedere: e quelli e questi prendano la mia vivanda col pane, che la far[à] loro e gustare e patire. 14. La vivanda di questo convivio sarà di quattordici maniere ordinata, cioè quattordici canzoni sì d'amor come di vertù materiate, le quali sanza lo presente pane aveano d'alcuna oscuritade ombra, sì che a molti loro bellezza più che loro bontade era in grado. 15. Ma questo pane, cioè la presente disposizione, sarà la luce la quale ogni colore di loro sentenza farà parvente.

16. E se ne la presente opera, la quale è Convivio nominata e vo' che sia, più virilmente si trattasse che ne la Vita Nuova, non intendo però a quella in parte alcuna derogare, ma maggiormente giovare per questa quella; veggendo sì come ragionevolmente quella fervida e passionata, questa temperata e virile esser conviene. 17. Chè altro si conviene e dire e operare ad una etade che ad altra; perchè certi costumi sono idonei e laudabili ad una etade che sono sconci e biasimevoli ad altra, sì come di sotto, nel quarto trattato di questo libro, sarà propria ragione mostrata. E io in quella dinanzi, a l'entrata de la mia gioventute parlai, e in questa dipoi, quella già trapassata. 18. E con ciò sia cosa che la vera intenzione mia fosse altra che quella che di fuori mostrano le canzoni predette, per allegorica esposizione quelle intendo mostrare, appresso la litterale istoria ragionata; sì che l'una ragione e l'altra darà sapore a coloro che a questa cena sono convitati. 19. Li quali priego tutti che se lo convivio non fosse tanto splendido quanto conviene a la sua grida, che non al mio volere ma a la mia facultade imputino ogni difetto; però che la mia voglia di compita e cara liberalitate è qui seguace.

 

Capitolo II.

1. Nel cominciamento di ciascuno bene ordinato convivio sogliono li sergenti prendere lo pane apposito, e quello purgare da ogni macula. Per che io, che ne la presente scrittura tengo luogo di quelli, da due macule mondare intendo primieramente questa esposizione, che per pane si conta nel mio corredo. 2. L'una, è che parlare alcuno di se medesimo pare non licito; l'altra è, che parlare in esponendo troppo a fondo pare non ragionevole: e lo illicito e 'l non ragionevole lo coltello del mio giudicio purga in questa forma. 3. Non si concede per li retorici alcuno di se medesimo sanza necessaria cagione parlare, e da ciò è l'uomo rimosso, perchè parlare d'alcuno non si può che il parladore non lodi o non biasimi quelli di cui elli parla; le quali due cagioni rusticamente stanno, a far [dire] di sè, ne la bocca di ciascuno. 4. E per levare un dubbio che qui surge, dico che peggio sta biasimare che lodare, avvegna che l'uno e l'altro non sia da fare. La ragione è che qualunque cosa è per sè da biasimare, è più laida che quella che è per accidente. 5. Dispregiar se medesimo è per sè biasimevole, però che a l'amico dee l'uomo lo suo difetto contare strettamente, e nullo è più amico che l'uomo a sè; onde ne la camera de' suoi pensieri se medesimo riprender dee e piangere li suoi difetti, e non palese. 6. Ancora: del non potere e del non sapere ben sè menare le più volte non è l'uomo vituperato, ma del non volere è sempre, perchè nel volere e nel non volere nostro si giudica la malizia e la bontade; e però chi biasima se medesimo appruova sè conoscere lo suo difetto, appruova sè non essere buono: per che, per sè, è da lasciare di parlare sè biasimando. 7. Lodare sè è da fuggire sì come male per accidente, in quanto lodare non si può, che quella loda non sia maggiormente vituperio. È loda ne la punta de le parole, è vituperio chi cerca loro nel ventre: chè le parole sono fatte per mostrare quello che non si sa, onde chi loda sè mostra che non creda essere buono tenuto; che non li incontra sanza maliziata conscienza, la quale, sè lodando, discuopre e, discoprendo, si biasima.

8. E ancora la propria loda e lo proprio biasimo è da fuggire per una ragione igualmente, sì come falsa testimonianza fare; però che non è uomo che sia di sè vero e giusto misuratore, tanto la propria caritate ne 'nganna. 9. Onde avviene che ciascuno ha nel suo giudicio le misure del falso mercatante, che compera con l'una e vende con l'altra; e ciascuno con ampia misura cerca lo suo mal fare e con piccola cerca lo bene; sì che 'l numero e la quantità e 'l peso del bene li pare più che se con giusta misura fosse saggiato, e quello del male meno. 10. Per che, parlando di sè con loda o col contrario, o dice falso per rispetto a la cosa di che parla; o dice falso per rispetto a la sua sentenza, c'ha l'una e l'altra falsitate. 11. E però, con ciò sia cosa che lo consentire è uno confessare, villania fa chi loda o chi biasima dinanzi al viso alcuno, perchè nè consentire nè negare puote lo così estimato sanza cadere in colpa di lodarsi o di biasimare: salva qui la via de la debita correzione, che essere non può sanza improperio del fallo che correggere s'intende; e salva la via del debito onorare e magnificare, la quale passar non si può sanza far menzione de l'opere virtuose, o de le dignitadi virtuosamente acquistate.

12. Veramente, al principale intendimento tornando, dico, come è toccato di sopra, per necessarie cagioni lo parlare di sè è conceduto: e intra l'altre necessarie cagioni due sono più manifeste. 13. L'una è quando sanza ragionare di sè grande infamia o pericolo non si può cessare; e allora si concede, per la ragione che de li due sentieri prendere lo men reo è quasi prendere un buono. E questa necessitate mosse Boezio di se medesimo a parlare, acciò che sotto pretesto di consolazione escusasse la perpetuale infamia del suo essilio, mostrando quello essere ingiusto, poi che altro escusatore non si levava. 14. L'altra è quando, per ragionare di sè, grandissima utilitade ne segue altrui per via di dottrina; e questa ragione mosse Agustino ne le sue Confessioni a parlare di sè, chè per lo processo de la sua vita, lo quale fu di [non] buono in buono, e di buono in migliore, e di migliore in ottimo, ne diede essemplo e dottrina, la quale per sì vero testimonio ricevere non si potea. 15. Per che se l'una e l'altra di queste ragioni mi scusa, sufficientemente lo pane del mio formento è purgato de la prima sua macula. Movemi timore d'infamia, e movemi desiderio di dottrina dare la quale altri veramente dare non può. 16. Temo la infamia di tanta passione avere seguita, quanta concepe chi legge le sopra nominate canzoni in me avere segnoreggiata; la quale infamia si cessa, per lo presente di me parlare, interamente, lo quale mostra che non passione ma vertù sia stata la movente cagione. 17. Intendo anche mostrare la vera sentenza di quelle, che per alcuno vedere non si può s'io non la conto, perchè è nascosa sotto figura d'allegoria: e questo non solamente darà diletto buono a udire, ma sottile ammaestramento e a così parlare e a così intendere l'altrui scritture.

 

Capitolo III.

1. Degna di molta riprensione è quella cosa che, ordinata a torre alcuno difetto, per se medesima quello induce; sì come quelli che fosse mandato a partire una rissa e, prima che partisse quella, ne iniziasse un'altra. 2. E però che lo mio pane è purgato da una parte, convienlomi purgare da l'altra, per fuggire questa riprensione, che lo mio scritto, che quasi comento dir si può, è ordinato a levar lo difetto de le canzoni sopra dette, ed esso per sè fia forse in parte alcuna un poco duro. La qual durezza, per fuggir maggiore difetto, non per ignoranza, è qui pensata. 3. Ahi, piaciuto fosse al dispensatore de l'universo che la cagione de la mia scusa mai non fosse stata! chè nè altri contra me avria fallato, nè io sofferto avria pena ingiustamente, pena, dico, d'essilio e di povertate. 4. Poi che fu piacere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno - nel quale nato e nutrito fui in fino al colmo de la vita mia, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto lo cuore di riposare l'animo stancato e terminare lo tempo che m'è dato -, per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. 5. Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade; e sono apparito a li occhi a molti che forsechè per alcuna fama in altra forma m'aveano imaginato, nel conspetto de' quali non solamente mia persona invilio, ma di minor pregio si fece ogni opera, sì già fatta, come quella che fosse a fare. 6. La ragione per che ciò incontra - non pur in me, ma in tutti - brievemente or qui piace toccare: e prima, perchè la stima oltre la veritade si sciampia; e poi, perchè la presenzia oltre la veritade stringe. 7. La fama buona principalmente è generata da la buona operazione ne la mente de l'amico, e da quella è prima partorita; chè la mente del nemico, avvegna che riceva lo seme, non concepe. 8. Quella mente che prima la partorisce, sì per far più ornato lo suo presente, sì per la caritade de l'amico che lo riceve, non si tiene a li termini del vero, ma passa quelli. E quando per ornare ciò che dice li passa, contra conscienza parla; quando inganno di caritade li fa passare, non parla contra essa. 9. La seconda mente che ciò riceve, non solamente a la dilatazione de la prima sta contenta, ma 'l suo riportamento, sì come qu[as]i suo effetto, procura d'adornare; e sì, che per questo fare e per lo 'nganno che riceve de la caritade in lei generata, quella più ampia fa che a lei non viene, e con concordia e con discordia di conscienza come la prima. E questo fa la terza ricevitrice e la quarta, e così in infinito si dilata. 10. E così, volgendo le cagioni sopra dette ne le contrarie, si può vedere la ragione de la infamia, che simigliantemente si fa grande. Per che Virgilio dice nel quarto de lo Eneida che la Fama vive per essere mobile, e acquista grandezza per andare. 11. Apertamente adunque veder può chi vuole che la imagine per sola fama generata sempre è più ampia, quale che essa sia, che non è la cosa imaginata nel vero stato.

 

Capitolo IV.

1. Mostrata ragione innanzi per che la fama dilata lo bene e lo male oltre la vera quantità, resta in questo capitolo a mostrar quelle ragioni che fanno vedere perchè la presenza ristringe per opposito; e mostrate quelle, si verrà lievemente al principale proposito, cioè de la sopra notata scusa.

2. Dico adunque che per tre cagioni la presenza fa la persona di meno valore ch'ella non è: l'una de le quali è puerizia, non dico d'etate ma d'animo; la seconda è invidia, - e queste sono ne lo giudicatore -; la terza è l'umana impuritade, e questa è ne lo giudicato. 3. La prima si può brievemente così ragionare. La maggiore parte de li uomini vivono secondo senso e non secondo ragione, a guisa di pargoli; e questi cotali non conoscono le cose se non semplicemente di fuori, e la loro bontade, la quale a debito fine è ordinata, non veggiono, per ciò che hanno chiusi li occhi de la ragione, li quali passano a veder quello. Onde tosto veggiono tutto ciò che ponno, e giudicano secondo la loro veduta. 4. E però che alcuna oppinione fanno ne l'altrui fama per udita, da la quale ne la presenza si discorda lo imperfetto giudicio che non secondo ragione ma secondo senso giudica solamente, quasi menzogna reputano ciò che prima udito hanno, e dispregiano la persona prima pregiata. 5. Onde appo costoro, che sono, ohmè, quasi tutti, la presenza ristringe l'una e l'altra qualitade. Questi cotali tosto sono vaghi e tosto sono sazii, spesso sono lieti e spesso tristi di brievi dilettazioni e tristizie, tosto amici e tosto nemici; ogni cosa fanno come pargoli, sanza uso di ragione. 6. La seconda si vede per queste ragioni: che paritade ne li viziosi è cagione d'invidia, e invidia è cagione di mal giudicio, però che non lascia la ragione argomentare per la cosa invidiata, e la potenza giudicativa è allora quel giudice che ode pur l'una parte. 7. Onde quando questi cotali veggiono la persona famosa, incontanente sono invidi, però che veggiono a s[è] pari membra e pari potenza, e temono, per la eccellenza di quel cotale, meno esser pregiati. 8. E questi non solamente passionati mal giudicano, ma, diffamando, fanno a li altri mal giudicare; per che appo costoro la presenza ristringe lo bene e lo male in ciascuno appresentato: e dico lo male, perchè molti, dilettandosi ne le male operazioni, hanno invidia a' mali operatori. 9. La terza si è l'umana impuritade, la quale si prende da la parte di colui ch'è giudicato, e non è sanza familiaritade e conversazione alcuna. Ad evidenza di questa, è da sapere che l'uomo è da più parti maculato, e, come dice Agustino, nullo è sanza macula. 10. Quando è l'uomo maculato d'una passione, a la quale tal volta non può resistere; quando è maculato d'alcuno disconcio membro; e quando è maculato d'alcuno colpo di fortuna; e quando è maculato d'infamia di parenti o d'alcuno suo prossimo: le quali cose la fama non porta seco ma la presenza, e discuoprele per sua conversazione. 11. E queste macule alcuna ombra gittano sopra la chiarezza de la bontade, sì che la fanno parere men chiara e men valente. E questo è quello per che ciascuno profeta è meno onorato ne la sua patria; questo è quello per che l'uomo buono dee la sua presenza dare a pochi e la familiaritade dare a meno, acciò che 'l nome suo sia ricevuto, ma non spregiato. 12. E questa terza cagione può essere così nel male come nel bene, se le cose de la sua ragione si volgano ciascuna in suo contrario. Per che manifestamente si vede che per impuritade, sanza la quale non è alcuno, la presenza ristringe lo bene e lo male in ciascuno più che 'l vero non vuole.

13. Onde con ciò sia cosa che, come detto è di sopra, io mi sia quasi a tutti li Italici appresentato, per che fatto mi sono più vile forse che 'l vero non vuole non solamente a quelli a li quali mia fama era già corsa, ma eziandio a li altri, onde le mie cose sanza dubbio meco sono alleviate; conviemmi che con più alto stilo dea, ne la presente opera, un poco di gravezza, per la quale paia di maggiore autoritade. E questa scusa basti a la fortezza del mio comento.

 

Capitolo V.

1. Poi che purgato è questo pane da le macule accidentali, rimane ad escusare lui da una sustanziale, cioè da l'essere vulgare e non latino; che per similitudine dire si può di biado e non di frumento. 2. E da ciò brievemente lo scusano tre ragioni, che mossero me ad eleggere innanzi questo che l'altro: l'una si muove da cautela di disconvenevole ordinazione; l'altra da prontezza di liberalitade; la terza da lo naturale amore a propria loquela. 3. E queste cose per sue ragioni, a sodisfacimento di ciò che riprendere si potesse per la notata ragione, intendo per ordine ragionare in questa forma.

4. Quella cosa che più adorna e commenda l'umana operazione, e che più dirittamente a buon fine la mena, sì è l'abito di quelle disposizioni che sono ordinate a lo inteso fine; sì com'è ordinata al fine de la cavalleria franchezza d'animo e fortezza di corpo. 5. E così colui che è ordinato a l'altrui servigio dee avere quelle disposizioni che sono a quello fine ordinate, sì come subiezione, conoscenza e obedienza, sanza le quali è ciascuno disordinato a ben servire; perchè, s'elli non è subietto in ciascuna condizione, sempre con fatica e con gravezza procede nel suo servigio e rade volte quello continua; e se elli non è [conoscente del bisogno del suo signore e a lui non è] obediente, non serve mai se non a suo senno e a suo volere, che è più servigio d'amico che di servo. 6. Dunque, a fuggire questa disordinazione, conviene questo comento, che è fatto invece di servo a le 'nfrascritte canzoni, esser subietto a quelle in ciascuna sua [condi]zione, ed essere conoscente del bisogno del suo signore e a lui obediente. 7. Le quali disposizioni tutte li mancavano, se latino e non volgare fosse stato, poi che le canzoni sono volgari. Chè, primamente, non era subietto ma sovrano, e per nobilità e per vertù e per bellezza. Per nobilità, perchè lo latino è perpetuo e non corruttibile, e lo volgare è non stabile e corruttibile. 8. Onde vedemo ne le scritture antiche de le comedie e tragedie latine, che non si possono transmutare, quello medesimo che oggi avemo; che non avviene del volgare, lo quale a piacimento artificiato si transmuta. 9. Onde vedemo ne le cittadi d'Italia, se bene volemo agguardare, da cinquanta anni in qua molti vocabuli essere spenti e nati e variati; onde se 'l picciol tempo così transmuta, molto più transmuta lo maggiore. Sì ch'io dico, che se coloro che partiron d'esta vita già sono mille anni tornassero a le loro cittadi, crederebbero la loro cittade essere occupata da gente strana, per la lingua da loro discordante. 10. Di questo si parlerà altrove più compiutamente in uno libello ch'io intendo di fare, Dio concedente, di Volgare Eloquenza.

11. Ancora, non era subietto ma sovrano per vertù. Ciascuna cosa è virtuosa in sua natura che fa quello a che ella è ordinata; e quanto meglio lo fa tanto è più virtuosa. Onde dicemo uomo virtuoso che vive in vita contemplativa o attiva, a le quali è ordinato naturalmente; dicemo del cavallo virtuoso che corre forte e molto, a la qual cosa è ordinato; dicemo una spada virtuosa che ben taglia le dure cose, a che essa è ordinata. 12. Così lo sermone, lo quale è ordinato a manifestare lo concetto umano, è virtuoso quando quello fa, e più virtuoso quello che più lo fa; onde, con ciò sia cosa che lo latino molte cose manifesta concepute ne la mente che lo volgare far non può, sì come sanno quelli che hanno l'uno e l'altro sermone, più è la vertù sua che quella del volgare.

13. Ancora, non era subietto ma sovrano per bellezza. Quella cosa dice l'uomo essere bella cui le parti debitamente si rispondono, per che de la loro armonia resulta piacimento. Onde pare l'uomo essere bello, quando le sue membra debitamente si rispondono; e dicemo bello lo canto, quando le voci di quello, secondo debito de l'arte, sono intra sè rispondenti. 14. Dunque quello sermone è più bello ne lo quale più debitamente si rispondono [le parole; e più debitamente si rispondono] in latino che in volgare, però che lo volgare seguita uso, e lo latino arte: onde concedesi esser più bello, più virtuoso e più nobile. 15. Per che si conchiude lo principale intendimento, cioè che non sarebbe stato subietto a le canzoni, ma sovrano.

 

Capitolo VI.

1. Mostrato come lo presente comento non sarebbe stato subietto a le canzoni volgari se fosse stato latino, resta a mostrare come non sarebbe stato conoscente, nè obediente a quelle; e poi sarà conchiuso come per cessare disconvenevoli disordinazioni fu mestiere volgarmente parlare. 2. Dico che 'l latino non sarebbe stato servo conoscente al signore volgare per cotal ragione. La conoscenza del servo si richiede massimamente a due cose perfettamente conoscere. 3. L'una si è la natura del signore: onde sono signori di sì asinina natura che comandano lo contrario di quello che vogliono, e altri che sanza dire vogliono essere intesi, e altri che non vogliono che 'l servo si muova a fare quello ch'è mestiere se nol comandano. 4. E perchè queste variazioni sono ne li uomini non intendo al presente mostrare, che troppo multiplicherebbe la digressione; se non in tanto, che dico in genere che cotali sono quasi bestie, a li quali la ragione fa poco prode. Onde, se 'l servo non conosce la natura del suo signore, manifesto è che perfettamente servire nol può. 5. L'altra cosa è, che si conviene conoscere al servo, li amici del suo signore, chè altrimenti non li potrebbe onorare nè servire, e così non servirebbe perfettamente lo suo signore; con ciò sia cosa che li amici siano quasi parti d'un tutto, però che 'l tutto loro è uno volere e uno non volere.

6. Nè lo comento latino avrebbe avuta la conoscenza di queste cose, che l'ha 'l volgare medesimo. Che lo latino non sia conoscente del volgare e de' suoi amici, così si pruova. Quelli che conosce alcuna cosa in genere, non conosce quella perfettamente: sì come, se conosce da lungi uno animale, non conosce quello perfettamente, perchè non sa se s'è cane o lupo o becco. 7. Lo latino conosce lo volgare in genere, ma non distinto: che se esso lo conoscesse distinto, tutti li volgari conoscerebbe, perchè non è ragione che l'uno più che l'altro conoscesse; e così in qualunque uomo fosse tutto l'abito del latino, sarebbe l'abito di conoscenza distinto de lo volgare. 8. Ma questo non è; chè uno abituato di latino non distingue, s'elli è d'Italia, lo volgare [inghilese] da lo tedesco; nè lo tedesco, lo volgare italico dal provenzale. Onde è manifesto che lo latino non è conoscente de lo volgare. 9. Ancora, non è conoscente de' suoi amici, però ch'è impossibile conoscere li amici, non conoscendo lo principale; onde, se non conosce lo latino lo volgare, come provato è di sopra, impossibile è a lui conoscere li suoi amici. 10. Ancora, sanza conversazione o familiaritade impossibile è a conoscere li uomini: e lo latino non ha conversazione con tanti in alcuna lingua con quanti ha lo volgare di quella, al quale tutti sono amici; e per consequente non può conoscere li amici del volgare. 11. E non è contradizione ciò che dire si potrebbe, che lo latino pur conversa con alquanti amici de lo volgare: chè però non è familiare di tutti, e così non è conoscente de li amici perfettamente; però che si richiede perfetta conoscenza, e non difettiva.

 

Capitolo VII.

1. Provato che lo comento latino non sarebbe stato servo conoscente, dirò come non sarebbe stato obediente. 2. Obediente è quelli che ha la buona disposizione che si chiama obedienza. La vera obedienza conviene avere tre cose, sanza le quali essere non può: vuole essere dolce, e non amara; e comandata interamente, e non spontanea; e con misura, e non dismisurata. 3. Le quali tre cose era impossibile ad avere lo latino comento, e però era impossibile ad essere obediente. Che a lo latino fosse stato impossibile, come detto è, si manifesta per cotale ragione. 4. Ciascuna cosa che da perverso ordine procede è laboriosa, e per consequente è amara e non dolce, sì come dormire lo die e vegghiare la notte, e andare indietro e non innanzi. Comandare lo subietto a lo sovrano procede da ordine perverso - chè ordine diritto è lo sovrano a lo subietto comandare -, e così è amaro, e non dolce. E però che a l'amaro comandamento è impossibile dolcemente obedire, impossibile è, quando lo subietto comanda, la obedienza del sovrano essere dolce. 5. Dunque se lo latino è sovrano del volgare, come di sopra per più ragioni è mostrato, e le canzoni, che sono in persona di comandatore, sono volgari, impossibile è sua [obedienza] esser dolce.

6. Ancora: allora è la obedienza interamente comandata e da nulla parte spontanea, quando quello che fa chi fa obediendo non averebbe fatto sanza comandamento, per suo volere, nè tutto nè in parte. 7. E però se a me fosse comandato di portare due guarnacche in dosso, e sanza comandamento io mi portasse l'una, dico che la mia obedienza non è interamente comandata, ma in parte spontanea. E cotale sarebbe stata quella del comento latino; e per consequente non sarebbe stata obedienza comandata interamente. 8. Che fosse stata cotale, appare per questo: che lo latino sanza lo comandamento di questo signore averebbe esposite molte parti de la sua sentenza - ed espone, chi cerca bene le scritture latinamente scritte - che non lo fa lo volgare in parte alcuna.

9. Ancora: è l'obedienza con misura, e non dismisurata, quando al termine del comandamento va, e non più oltre; sì come la natura particulare è obediente a la universale, quando fa trentadue denti a l'uomo, e non più nè meno, e quando fa cinque dita ne la mano, e non più nè meno; e l'uomo è obediente a la giustizia [quando fa pagar lo debito de la pena, e non più nè meno che la giustizia] comanda, al peccatore. 10. Nè questo averebbe fatto lo latino, ma peccato averebbe non pur nel difetto, e non pur nel soperchio, ma in ciascuno; e così non sarebbe stata la sua obedienza misurata, ma dismisurata, e per consequente non sarebbe stato obediente. 11. Che non fosse stato lo latino empitore del comandamento del suo signore, e che ne fosse stato soperchiatore, leggermente si può mostrare. Questo signore, cioè queste canzoni, a le quali questo comento è per servo ordinato, comandano e vogliono essere esposte a tutti coloro a li quali puote venire sì lo loro intelletto, che quando parlano elle siano intese; e nessuno dubita, che s'elle comandassero a voce, che questo non fosse lo loro comandamento. 12. E lo latino non l'averebbe esposte se non a' litterati, chè li altri non l'averebbero inteso. Onde con ciò sia cosa che molti più siano quelli che desiderano intendere quelle non litterati che litterati, seguitasi che non averebbe pieno lo suo comandamento come 'l volgare, che da li litterati e non litterati è inteso. 13. Anche, lo latino l'averebbe esposte a gente d'altra lingua, sì come a Tedeschi e Inghilesi e altri, e qui averebbe passato lo loro comandamento; chè contra loro volere, largo parlando dico, sarebbe essere esposta la loro sentenza colà dov'elle non la potessero con la loro bellezza portare. 14. E però sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può de la sua loquela in altra transmutare sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia. 15. E questa è la cagione per che Omero non si mutò di greco in latino come l'altre scritture che avemo da loro. E questa è la cagione per che li versi del Salterio sono sanza dolcezza di musica e d'armonia; chè essi furono transmutati d'ebreo in greco e di greco in latino, e ne la prima transmutazione tutta quella dolcezza venne meno. 16. E così è conchiuso ciò che si promise nel principio del capitolo dinanzi a questo immediate.

 

Capitolo VIII.

1. Quando è mostrato per le sufficienti ragioni come, per cessare disconvenevoli disordinamenti, converrebbe, [a le] nominate canzoni aprire e mostrare, comento volgare e non latino, mostrare intendo come ancora pronta liberalitate mi fece questo eleggere e l'altro lasciare. 2. Puotesi adunque la pronta liberalitate in tre cose notare, le quali seguitano questo volgare, e lo latino non averebbero seguitato. La prima è dare a molti; la seconda è dare utili cose; la terza è, sanza essere domandato lo dono, dare quello. 3. Chè dare a uno e giovare a uno è bene; ma dare a molti e giovare a molti è pronto bene, in quanto prende simiglianza da li benefici di Dio, che è universalissimo benefattore. 4. E ancora, dare a molti è impossibile sanza dare a uno, acciò che uno in molti sia inchiuso; ma dare a uno si può bene, sanza dare a molti. Però chi giova a molti fa l'uno bene e l'altro; chi giova a uno, fa pur un bene: onde vedemo li ponitori de le leggi massimamente pur a li più comuni beni tenere confissi li occhi, quelle componendo. 5. Ancora, dare cose non utili al prenditore pure è bene, in quanto colui che dà mostra almeno sè essere amico; ma non è perfetto bene, e così non è pronto: come quando uno cavaliere donasse ad uno medico uno scudo, e quando uno medico donasse a uno cavaliere scritti li Aphorismi d'Ipocràs, ovvero li Tegni di Galieno. Per che li savi dicono che la faccia del dono dee essere simigliante a quella del ricevitore, cioè a dire che si convegna con lui, e che sia utile: e in quello è detta pronta liberalitade di colui che così dicerne donando. 6. Ma però che li morali ragionamenti sogliono dare desiderio di vedere l'origine loro, brievemente in questo capitolo intendo mostrare quattro ragioni per che di necessitade lo dono, acciò che in quello sia pronta liberalitade, conviene essere utile a chi riceve.

7. Primamente, però che la vertù dee essere lieta, e non trista in alcuna sua operazione; onde, se 'l dono non è lieto nel dare e nel ricevere, non è in esso perfetta vertù, non è pronta. Questa letizia non può dare altro che utilitade, che rimane nel datore per lo dare, e che viene nel ricevitore per ricevere. 8. Nel datore adunque dee essere la providenza in far sì che de la sua parte rimagna l'utilitade de l'onestate, ch'è sopra ogni utilitade, e far sì che a lo ricevitore vada l'utilitade de l'uso de la cosa donata; e così sarà l'uno e l'altro lieto, e per consequente sarà più pronta la liberalitade. 9. Secondamente, però che la vertù dee muovere le cose sempre al migliore. Chè così come sarebbe biasimevole operazione fare una zappa d'una bella spada o fare un bel nappo d'una bella chitarra, così è biasimevole muover la cosa d'un luogo dove sia utile e portarla in parte dove sia meno utile. 10. E però che biasimevole è invano adoperare, biasimevole è non solamente a porre la cosa in parte dove sia meno utile, ma eziandio in parte ove sia igualmente utile. 11. Onde, acciò che sia laudabile lo mutare de le cose, conviene sempre essere [al] migliore, per ciò che dee massimamente essere laudabile: e questo non [si] può fare nel dono se 'l dono per transmutazione non viene più caro; nè più caro può venire, se esso non è più utile ad usare al ricevitore che al datore. Per che si conchiude che 'l dono conviene essere utile a chi lo riceve, acciò che sia in esso pronta liberalitade. 12. Terziamente, però che la operazione de la vertù per sè dee essere acquistatrice d'amici; con ciò sia cosa che la nostra vita di quello abbisogni, e lo fine de la vertù sia la nostra vita essere contenta. Onde acciò che 'l dono faccia lo ricevitore amico, conviene a lui essere utile, però che l'utilitade sigilla la memoria de la imagine del dono, l[a] quale è nutrimento de l'amistade; e tanto più forte, quanto essa è migliore. 13. Onde suole dire Martino: 'Non caderà de la mia mente lo dono che mi fece Giovanni'. Per che, acciò che nel dono sia la sua vertù, la quale è liberalitade, e che essa sia pronta, conviene essere utile a chi riceve. 14. Ultimamente, però che la vertù dee avere atto libero e non sforzato. Atto libero è quando una persona va volentieri ad alcuna parte, che si mostra nel tener volto lo viso in quella; atto sforzato è quando contra voglia si va, che si mostra in non guardare ne la parte dove si va. 15. E allora sì guarda lo dono a quella parte, quando si dirizza al bisogno de lo ricevente. E però che dirizzarsi ad esso non si può se non sia utile, conviene, acciò che sia con atto libero la vertù, essere [utile] lo dono a la parte ov'elli vae, ch'è lo ricevitore; e per consequente conviene essere ne lo dono l'utilità de lo ricevitore, acciò che quinci sia pronta liberalitade.

16. La terza cosa, ne la quale si può notare la pronta liberalitade, si è dare non domandato: acciò che 'l domandato è da una parte non vertù ma mercatantia, però che lo ricevitore compera, tutto che 'l datore non venda. Per che dice Seneca che «nulla cosa più cara si compera che quella dove i prieghi si spendono». 17. Onde acciò che nel dono sia pronta liberalitade e che essa si possa in esso notare, allora, s[e] conviene esser netto d'ogni atto di mercatantia, conviene esser lo dono non domandato. 18. Perchè sì caro costa quello che si priega, non intendo qui ragionare, perchè sufficientemente si ragionerà ne l'ultimo trattato di questo libro.

Saturday, 11 November 2023

Good Reading: "The Farmer and the Fox" by Aesop (translated into English)

          A farmer, who bore a grudge against a Fox for robbing his poultry yard, caught him at last, and being determined to take an ample revenge, tied some rope well soaked in oil to his tail, and set it on fire. The Fox by a strange fatality rushed to the fields of the Farmer who had captured him.  It was the time of the wheat harvest; but the Farmer reaped nothing that year and returned home grieving sorely. 

Friday, 10 November 2023

Friday's Sung Word: "Você Vai Se Quiser" by Noel Rosa (in Portuguese)

Você vai se quiser
Você vai se quiser
Pois a mulher
Não se deve obrigar a trabalhar
Mas não vá dizer depois
Que você não tem vestido,
Que o jantar não dá pra dois

Todo cargo masculino
Desde o grande ao pequenino
Hoje em dia é pra mulher
E por causa dos palhaços
Ela esquece que tem braços
Nem cozinhar ela quer

Os direitos são iguais
Mas até nos tribunais
A mulher faz o que quer
Cada qual que cave o seu
Pois o homem já nasceu
Dando a costela à mulher.

 


You can listen "Você Vai Se Quiser" sung by Noel Rosa, Marília Baptista, and Benedito Lacerda e Seu Regional here.

Thursday, 9 November 2023

Thursday's Serial: “The Dark Other” by Stanley G. Weinbaum - I

 

1 - PURE HORROR

"That isn't what I mean," said Nicholas Devine, turning his eyes on his companion. "I mean pure horror in the sense of horror detached from experience, apart from reality. Not just a formless fear, which implies either fear of something that might happen, or fear of unknown dangers. Do you see what I mean?"

"Of course," said Pat, letting her eyes wander over the black expanse of night-dark Lake Michigan. "Certainly I see what you mean but I don't quite understand how you'd do it. It sounds—well, difficult."

She gazed at his lean profile, clear-cut against the distant light. He had turned, staring thoughtfully over the lake, idly fingering the levers on the steering wheel before him. The girl wondered a little at her feeling of contentment; she, Patricia Lane, satisfied to spend an evening in nothing more exciting than conversation! And they must have parked here a full two hours now. There was something about Nick—she didn't understand exactly what; sensitivity, charm, personality. Those were meaningless cliches, handles to hold the unexplainable nuances of character.

"It is difficult," resumed Nick. "Baudelaire tried it, Poe tried it. And in painting, Hogarth, Goya, Dore. Poe came closest, I think; he caught the essence of horror in an occasional poem or story. Don't you think so?"

"I don't know," said Pat. "I've forgotten most of my Poe."

"Remember that story of his—'The Black Cat'?"

"Dimly. The man murdered his wife."

"Yes. That isn't the part I mean. I mean the cat itself—the second cat. You know a cat, used rightly, can be a symbol of horror."

"Indeed yes!" The girl shuddered. "I don't like the treacherous beasts!"

"And this cat of Poe's," continued Nick, warming to his subject. "Just think of it—in the first place, it's black; element of horror. Then, it's gigantic, unnaturally, abnormally large. And then it's not all black—that would be inartistically perfect—but has a formless white mark on its breast, a mark that little by little assumes a fantastic form—do you remember what?"

"No."

"The form of a gallows!"

"Oh!" said the girl. "Ugh!"

"And then—climax of genius—the eyes! Blind in one eye, the other a baleful yellow orb! Do you feel it? A black cat, an enormous black cat marked with a gallows, and lacking one eye, to make the other even more terrible! Literary tricks, of course, but they work, and that's genius! Isn't it?"

"Genius! Yes, if you call it that. The perverse genius of the Devil!"

"That's what I want to write—what I will write some day." He watched the play of lights on the restless surface of the waters. "Pure horror, the epitome of the horrible. It could be written, but it hasn't been yet; not even by Poe."

"That little analysis of yours was bad enough, Nick! Why should you want to improve on his treatment of the theme?"

"Because I like to write, and because I'm interested in the horrible. Two good reasons."

"Two excuses, you mean. Of course, even if you'd succeed, you couldn't force anyone to read it."

"If I succeed, there'd be no need to force people. Success would mean that the thing would be great literature, and even today, in these times, there are still people to read that. And besides—" He paused.

"Besides what?"

"Everybody's interested in the horrible. Even you are, whether or not you deny it."

"I certainly do deny it!"

"But you are, Pat. It's natural to be."

"It isn't!"

"Then what is?"

"Interest in people, and life, and gay times, and pretty things, and—and one's self and one's own feelings. And the feelings of the people one loves."

"Yes. It comes to exactly the point I've been stressing. People are sordid, life is hopeless, gay times are stupid, beauty is sensual, one's own feelings are selfish. And love is carnal. That's the array of horrors that holds your interest!"

The girl laughed in exasperation. "Nick, you could out-argue your name-sake, the Devil himself! Do you really believe that indictment of the normal viewpoint?"

"I do—often!"

"Now?"

"Now," he said, turning his gaze on Pat, "I have no feeling of it at all. Now, right now, I don't believe it."

"Why not?" she queried, smiling ingenuously at him.

"You, obviously."

"Gracious! I had no idea my logic was as convincing as that."

"Your logic isn't. The rest of you is."

"That sounds like a compliment," observed Pat. "If it is," she continued in a bantering tone, "it's the only one I can recall obtaining from you."

"That's because I seldom call attention to the obvious."

"And that's another," laughed the girl. "I'll have to mark this date in red on my calendar. It's entirely unique in our—let's see—nearly a month's acquaintance."

"Is it really so short a time? I know you so well that it must have taken years. Every detail!" He closed his eyes. "Hair like black silk, and oddly dark blue eyes—if I were writing a poem at the moment, I'd call them violet. Tiny lips, the sort the Elizabethan called bee-stung. Straight nose, and a figure that is a sort of vest-pocket copy of Diana. Right?" He opened his eyes.

"Nice, but exaggerated. And even if you were correct, that isn't Pat Lane, the real Pat Lane. A camera could do better on a tenth of a second's acquaintance!"

"Check!" He closed his eyes again. "Personality, piquant. Character, loyal, naturally happy, intelligent, but not serious. An intellectual butterfly; a dilettante. Poised, cool, self-possessed, yet inherently affectionate. A being untouched by reality, as yet, living in Chicago and in a make-believe world at the same time." He paused, "How old are you, Pat?"

"Twenty-two. Why?"

"I wondered how long one could manage to stay in the world of make-believe. I'm twenty-six, and I'm long exiled."

"I don't think you know what you mean by a make-believe world. I'm sure I don't."

"Of course you don't. You can't know and still remain there. It's like being happy; once you realize it, it's no longer perfect."

"Then don't explain!"

"Wouldn't make any difference if I did, Pat. It's a queer world, like the Sardoodledom of Sardou and the afternoon-tea school of playwrights. All stage-settings and pretense, but it looks real while you're watching, especially if you're one of the characters."

The girl laughed. "You're a deliciously solemn sort, Nick. How would you like to hear my analysis of you?"

"I wouldn't!"

"You inflicted yours on me, and I'm entitled to revenge. And so—you're intelligent, lazy, dreamy, and with a fine perception of artistic values. You're very alert to impressions of the senses—I mean you're sensuous without being sensual. You're delightfully serious without being somber, except sometimes. Sometimes I feel a hint, just a thrilling hint, in your character, of something dangerously darker—"

"Don't!" said Nick sharply.

Pat shot him a quick glance. "And you're frightened to death of falling in love," she concluded imperturbably.

"Oh! Do you think so?"

"I do."

"Then you're wrong! I can't be afraid of it, since I've known for the better part of a month that I've been in love."

"With me," said the girl.

"Yes, with you!"

"Well!" said Pat. "It never before took me a month to extract that admission from a man. Is twenty-two getting old?"

"You're a tantalizing imp!"

"And so?" She pursed her lips, assuming an air of disappointment. "What am I to do about it—scream for help? You haven't given me anything to scream about."

The kiss, Pat admitted to herself, was quite satisfactory. She yielded herself to the pleasure of it; it was decidedly the best kiss she had, in her somewhat limited experience, encountered. She pushed herself away finally, with a little gasp, gazing bright-eyed at her companion. He was staring down at her with serious eyes; there was a tense twist to his mouth, and a curiously unexpected attitude of unhappiness.

"Nick!" she murmured. "Was it as bad as all that?"

"Bad! Pat, does it mean you—care for me? A little, anyway?"

"A little," she admitted. "Maybe more. Is that what makes you look so forlorn?"

He drew her closer to him. "How could I look forlorn, Honey, when something like this has happened to me? That was just my way of looking happy."

She nestled as closely as the steering wheel permitted, drawing his arm about her shoulders. "I hope you mean that, Nick."

"Then you mean it? You really do?"

"I really do."

"I'm glad," he said huskily. The girl thought she detected a strange dubious note in his voice. She glanced at his face; his eyes were gazing into the dim remoteness of the night horizon.

"Nick," she said, "why were you so—well, so reluctant about admitting this? You must have known I—like you. I showed you that deliberately in so many ways."

"I—I wasn't quite sure."

"You were! That isn't it, Nick. I had to practically browbeat you into confessing you cared for me. Why?"

He stepped on the starter; the motor ground into sudden life. The car backed into the road, turning toward Chicago, that glared like a false dawn in the southern sky.

"I hope you never find out," he said.

 

2 - SCIENCE OF MIND

"She's out," said Pat as the massive form of Dr. Carl Horker loomed in the doorway. "Your treatments must be successful; Mother's out playing bridge."

The Doctor gave his deep, rumbling chuckle. "So much the better, Pat. I don't feel professional anyway." He moved into the living room, depositing his bulk on a groaning davenport. "And how's yourself?"

"Too well to be a patient of yours," retorted the girl. "Psychiatry! The new religion! Just between friends, it's all applesauce, isn't it?"

"If I weren't trying to act in place of your father, I'd resent that, young lady," said the Doctor placidly. "Psychiatry is a definite science, and a pretty important one. Applied psychology, the science of the human mind."

"If said mind exists," added the girl, swinging her slim legs over the arm of a chair.

"Correct," agreed the Doctor. "In my practice I find occasional evidence that it does. Or did; your generation seems to have found substitutes."

"Which appears to work just as well!" laughed Pat. "All our troubles are more or less inherited from your generation."

"Touche!" admitted Dr. Horker. "But my generation also bequeathed you some solid values which you don't know how to use."

"They've been weighed and found wanting," said Pat airily. "We're busy replacing them with our own values."

"Which are certainly no better."

"Maybe not, Doc, but at least they're ours."

"Yours and Tom Paine's. I can't see that you young moderns have brought any new ideas to the social scheme."

"New or not, we're the first ones to give 'em a try-out. Your crowd took it out in talk."

"That's an insult," observed the Doctor cheerfully. "If I weren't acting in loco parentis—"

"I know! You'd give me a few licks in the spot popularly supposed to do the most good! Well, that's part of a parent's privilege, isn't it?"

"You've grown beyond the spanking age, my dear. Physically, if not mentally—though I don't say the process would hurt me as much as you. I'd doubtless enjoy it."

"Then you might try sending me to bed without my dinner," the girl laughed.

"That's a doctor's prerogative, Pat. I've even done that to your Mother."

"In other words, you're a complete flop as a parent. All the responsibilities, and none of the privileges."

"That expresses it."

"Well, you elected yourself, Doc. It's not my fault you happened to live next door."

"No. It's my misfortune."

"And I notice," remarked Pat wickedly, "that you're not too thoroughly in loco to neglect sending Mother a bill for services rendered!"

"My dear girl, that's part of the treatment!"

"So? And how?"

"I furnish a bill just steep enough to keep your mother from indulging too frequently in medical services. Without that little practical check on her inclinations, she'd be a confirmed neurotic. One of those sweet, resigned, professional invalids, you know."

"Then why not send her a bill tall enough to cure her altogether?"

"She might change to psychoanalysis or New Thought," chuckled the Doctor. "Besides, your father wanted me to look after her, and besides that, I like having the run of the house."

"Well, I'm sure I don't mind," observed Pat. "We've a dog and a canary bird, too."

"You're in fine fettle this afternoon!" laughed her companion. "Must've been a successful date last night."

"It was." Her eyes turned suddenly dreamy.

"You're in love again, Pat!" he accused.

"Again? Why the 'again'?"

"Well, there was Billy, and that Paul—"

"Oh, those!" Her tone was contemptuous. "Merely passing fancies, Doc. Just whims, dreams of the moment—in other words, puppy love."

"And this? I suppose this is different—a grand passion?"

"I don't know," she said, frowning abruptly. "He's nice, but—odd. Attractive as—well, as the devil."

"Odd? How?"

"Oh, he's one of those minds you think we moderns lack."

"Intellectual, eh? New variety for you; out of the usual run of your dancing collegiates. I've often suspected that you picked your swains by the length and lowness of their cars."

"Maybe I did. That was one of the chief differences between them."

"How'd you meet this mental paragon?"

"Billy Fields dragged him around to one of those literary evenings he affects—where they read Oscar Wilde and Eugene O'Neil aloud. Bill met him at the library."

"And he out-shone all the local lights, I perceive."

"He surely did!" retorted Pat. "And he hardly said a word the whole evening."

"He wouldn't have to, if they're all like Billy! What's this prodigy's specialty?"

"He writes. I think—laugh if you want to!—I think perhaps he's a genius."

"Well," said Doctor Horker, "even that's possible. It's been known to occur, but rarely, to my knowledge, in your generation."

"Oh, we're just dimmed by the glare of brilliance from yours." She swung her legs to the floor, facing the Doctor. "Do you psychiatrists actually know anything about love?" she queried.

"We're supposed to."

"What is it, then?"

"Just a device of Nature's for perpetuating the species. Some organisms manage without it, and do pretty well."

"Yes. I've heard references to the poor fish!"

"Then they're inaccurate; fish have primitive symptoms of eroticism. But below the vertebrates, notably in the amoeba, I don't recall any amorous habits."

"Then your definition doesn't explain a thing, does it?"

"Not to one of the victims, perhaps."

"Anyway," said Pat decisively, "I've heard of the old biological urge before your kind analysis. It doesn't begin to explain why one should be attracted to this person and repelled by that one. Does it?"

"No, but Freud does. The famous Oedipus Complex."

"That's the love of son for mother, or daughter for father, isn't it? And I don't see how that clears up anything; for example, I can just barely remember my father."

"That's plenty. It could be some little trait in these swains of yours, some unimportant mannerism that recalls that memory. Or there's that portrait of him in the hall—the one under the mellow red light. It might happen that you'd see one of these chaps under a similar light in some attitude that brings the picture to mind—or a hundred other possibilities."

"Doesn't sound entirely convincing," objected Pat with a thoughtful frown.

"Well, submit to the proper treatments, and I'll tell you exactly what caused each and every one of your little passing fancies. You can't expect me to hit it first guess."

"Thanks, no! That's one of these courses where you tell the doctor all your secrets, and I prefer to keep what few I have."

"Good judgment, Pat. By the way, you said this chap was odd. Does that mean merely that he writes? I've known perfectly normal people who wrote."

"No," she said, "it isn't that. It's—he's so sweet and gentle and manageable most of the time, but sometimes he has such a thrilling spark of mastery that it almost scares me. It's puzzling but fascinating, if you grasp my import."

"Huh! He's probably a naturally selfish fellow who's putting on a good show of gentleness for your benefit. Those flashes of tyranny are probably his real character in moment of forgetfulness."

"You doctors can explain anything, can't you?"

"That's our business. It's what we're paid for."

"Well, you're wrong this time. I know Nick well enough to know if he's acting. His personality is just what I said—gentle, sensitive, and yet—It's perplexing, and that's a good part of his charm."

"Then it's not such a serious case you've got," mocked the doctor. "When you're cool enough to analyze your own feelings, and dissect the elements of the chap's attraction, you're not in any danger."

"Danger! I can look out for myself, thanks. That's one thing we mindless moderns learn young, and don't let me catch you puttering around in my romances! In loco parentis or just plain loco, you'll get the licking instead of me!"

"Believe me, Pat, if I wanted to experiment with affairs of the heart, I'd not pick a spit-fire like you as the subject."

"Well, Doctor Carl, you're warned!"

"This Nick," observed the Doctor, "must be quite a fellow to get the princess of the North Side so het up. What's the rest of his cognomen?"

"Nicholas Devine. Romantic, isn't it?"

"Devine," muttered Horker. "I don't know any Devines. Who are his people?"

"Hasn't any."

"How does he live? By his writing?"

"Don't know. I gathered that he lives on some income left by his parents. What's the difference, anyway?"

"None. None at all." The other wrinkled his brows thoughtfully. "There was a colleague of mine, a Dr. Devine; died a good many years ago. Reputation wasn't anything to brag about; was a little off balance mentally."

"Well, Nick isn't!" snapped Pat with some asperity.

"I'd like to meet him."

"He's coming over tonight."

"So'm I. I want to see your mother." He rose ponderously. "If she's not playing bridge again!"

"Well, look him over," retorted Pat. "And I think your knowledge of love is a decided flop. I think you're woefully ignorant on the subject."

"Why's that?"

"If you'd known anything about it, you could have married mother some time during the last seventeen years. Lord knows you've tried, and all you've attained is the state of in loco parentis instead of parens."

 

3 - PSYCHIATRICS OF GENIUS

"How do you charge—by the hour?" asked Pat, as Doctor Horker returned from the hall. The sound of her mother's departing footsteps pattered on the porch.

"Of course, Young One; like a plumber."

"Then your rates per minute must be colossal! The only time you ever see Mother is a moment or so between bridge games."

"I add on the time I waste with you, my dear. Such as now, waiting to look over that odd swain of yours. Didn't you say he'd be over this evening?"

"Yes, but it's not worth your rates to have him psychoanalyzed. I can do as well myself."

"All right, Pat. I'll give you a sample analysis free," chuckled the Doctor, distributing his bulk comfortably on the davenport.

"I don't like free trials," she retorted. "I sent for a beauty-culture book once, on free trial. I was twelve years only, and returned it in seven days, but I'm still getting sales letters in the mails. I must be on every sucker list in the country."

"So that's the secret of your charm."

"What is?"

"You must have read the book, I mean. If you remember the title, I might try it myself. Think it'd help?"

"Dr. Carl," laughed the girl, "you don't need a book on beauty culture—you need one on bridge! It's that atrocious game you play that's bothering Mother."

"Indeed? I shouldn't be surprised if you were right; I've suspected that."

"Save your surprise for when I'm wrong, Doc. You'll suffer much less from shock."

"Confident little brat! You're apt to get that knocked out of you some day, though I hope you never do."

"I can take it," grinned Pat.

"No doubt you can, but you're an adept at handing it out. Where's this chap of yours?"

"He'll be along. No one's ever stood me up on a date yet."

"I can understand that, you imp! Is that the famous Nick?" he queried as a car purred to a stop beyond the windows.

"No one else!" said the girl, glancing out. "The Big Thrill in person."

She darted to the door. Horker turned casually to watch her as she opened it, surveying Nicholas Devine with professional nonchalance. He entered, tall, slender, with his thin sensitive features sharply outlined in the light of the hall. He cast a quick glance toward the Doctor; the latter noted the curious amber-green eyes of the lad, set wide in the lean face, deep, speculative, the eyes of a dreamer.

"Evening, Nick," Pat was bubbling. The newcomer gave her a hasty smile, with another glance at the Doctor. "Don't mind Dr. Carl," she continued. "Aren't you going to kiss me? It irks the medico, and I never miss a chance."

Nicholas flushed in embarrassment; he gestured hesitantly, then placed a hasty peck of a kiss on the girl's forehead. He reddened again at the Doctor's rumble of "Young imp of Satan!"

"Not very good," said Pat reflectively, obviously enjoying the situation. "I've known you to do better." She pulled him toward the arch of the living room. "Come meet Dr. Horker. Dr. Carl, this is the aforesaid Nicholas Devine."

"Dr. Horker," repeated the lad, smiling diffidently. "You're the psychiatrist and brain specialist, aren't you, Sir?"

"So my patients believe," rumbled the massive Doctor, rising at the introduction, and grasping the youth's hand. "And you're the genius Patricia has been raving about. I'm glad to have the chance of looking you over."

Nick gave the girl a harassed glance, shifting uncomfortably, and patently at a loss for a reply. She grinned mischievously.

"Sit down, both of you," she suggested helpfully. She seized his hat from the reluctant hands of Nick, sailing it carelessly to a chair.

"So!" boomed the Doctor, lowering his great bulk again to the davenport. He eyed the youth sitting nervously before him. "Devine, did you say?"

"Yes, sir."

"I knew a Devine once. Colleague of mine."

"A doctor? My father was a doctor."

"Dr. Stuart Devine?"

"Yes, sir." He paused. "Did you say you knew him, Dr. Horker?"

"Slightly," rumbled the other. "Only slightly."

"I don't remember him at all, of course, I was very young when he—and my mother too—died."

"You must have been. Patricia claims you write."

"I try."

"What sort of material?"

"Why—any sort. Prose or poetry; what I feel like writing."

"Whatever inspires you, I suppose?"

"Yes, sir." The lad flushed again.

"Ever have anything published?"

"Yes, sir. In Nation's Poetry."

"Never heard of it."

"It has a large circulation," said Nick apologetically.

"Humph! Well, that's something. Whom do you like?"

"Whom do I like?" The youth's tone was puzzled.

"What authors—writers?"

"Oh." He cast another uncomfortable glance at Pat. "Why—I like Baudelaire, and Poe, and Swinburne, and Villon, and—"

"Decadents, all of them!" sniffed the Doctor. "What prose writers?"

"Well—" He hesitated—"Poe again, and Stern, and Rabelais—"

"Rabelais!" Horker's voice boomed. "Well! Your taste can't be as bad as I thought, then. There's one we agree on, anyway. And I notice you name no moderns, which is another good point."

"I haven't read many moderns, sir."

"That's in your favor."

"Cut it!" put in Pat with assumed sharpness. "You've taken enough whacks at my generation for one day."

"I'm glad to find one of your generation who agrees with me," chuckled the Doctor. "At least to the extent of not reading its works."

"I'll teach him," grinned Pat. "I'll have him writing vess libre, and maybe even dadaism, in a week."

"Maybe it won't be much loss," grunted Horker. "I haven't seen any of his work yet."

"We'll bring some around sooner or later. We will, won't we, Nick?"

"Of course, if you want to. But—"

"He's going to say something modest," interrupted the girl. "He's in the retiring mood now, but he's apt to change any moment, and snap your surly head off."

"Humph! I'd like to see it."

"So'd I," retorted Pat. "You've had it coming all day; maybe I'll do it myself."

"You have, my dear, innumerable times. But I'm like the Hydra, except that I grow only one head to replace the one you snap off." He turned again to Nicholas. "Do you work?"

"Yes, sir. At my writing."

"I mean how do you live?"

"Why," said the youth, reddening again in embarrassment, "my parents—"

"Listen!" said Pat. "That's enough of Dr. Carl's cross examination. You'd think he was a Victorian father who had just been approached for his daughter's hand. We haven't whispered any news of an engagement to you, have we, Doc?"

"No, but I'm acting—"

"Sure. In loco parentis. We know that."

"You're incorrigible, Pat! I wash my hands of you. Run along, if you're going out."

"You'll be telling me never to darken my own door again in the next breath!" She stretched forth a diminutive foot at the extremity of a superlatively attractive ankle, caught Nick's hat on her toe, and kicked it expertly to his lap. "Come on, Nick. There's a moon."

"There is not!" objected the Doctor huffily. "It rises at four, as you ought to know. You didn't see it last night, did you?"

"I didn't notice," said the girl. "Come on, Nick, and we'll watch it rise tonight. We'll check up on the Doctor's astronomy, or is it chronology?"

"You do and I'll know it! I can hear you come home, you imp!"

"Nice neighbor," observed Pat airily, as she stepped to the door. "I'll bet you peek out of the window, too."

She ignored the Doctor's irritated rumble as she passed into the hall, where Nick, after a diffident murmur of farewell to Horker, followed. She caught up a light cape, which he draped about her shoulders.

"Nick," she said, "suppose you run out to the car and wait. I think I've stepped too hard on Dr. Carl's corns, and I want to give him a little cheering up. Will you?"

"Of course, Pat."

She darted back into the living room, perching on the arm of the davenport beside the Doctor.

"Well?" she said, running her hand through his grizzled hair. "What's the verdict?"

"Seems like a nice kid," grumbled Horker reluctantly. "Nice enough, but introverted, repressed, and I shouldn't be surprised to find him anti-social. Doesn't adjust easily to his environment; takes refuge in a dream world of his own."

"That's what he accuses me of doing," grinned Pat. "That all you've got against him?"

"That's all, but where's that streak of mastery you mentioned? You lead him around on a leash!"

"It didn't show up tonight. That's the thrill—the unexpectedness of it."

"Bah! You must've dreamed it. There's no more aggressiveness in that lad than in KoKo, your canary."

"Don't you believe it, Dr. Carl! The trouble is that he's a genius, and that's where your psychology falls flat."

"Genius," said the Doctor oracularly, "is a sublimation of qualities—"

"I'll tell you tomorrow how sublime the qualities are," called Pat as she skipped out of the door.

Wednesday, 8 November 2023

Good reading: " The Farmer and the Cranes" by Aesop (translated into English)

                   Some cranes made their feeding grounds on some plowlands newly sown with wheat.  For a long time the Farmer, brandishing an empty sling, chased them away by the terror he inspired; but when the birds found that the sling was only swung in the air, they ceased to take any notice of it and would not move. The Farmer, on seeing this, charged his sling with stones, and killed a great number. The remaining birds at once forsook his fields, crying to each other, "It is time for us to be off to Liliput:  for this man is no longer content to scare us, but begins to show us in earnest what he can do." 

If words suffice not, blows must follow.