Tuesday 2 January 2024

Tuesday's Serial: “Convivio” by Dante Alighieri (in Italian) - VIII

 

Capitolo XI.

1. Sì come l'ordine vuole ancora dal principio ritornando, dico che questa donna è quella donna de lo 'ntelletto che Filosofia si chiama. Ma però che naturalmente le lode danno desiderio di conoscere la persona laudata; e conoscere la cosa sia sapere quello che ella è, in sè considerata e per tutte le sue c[au]se, sì come dice lo Filosofo nel principio de la Fisica; e ciò non dimostri lo nome, avvegna che ciò significhi, sì come dice nel quarto de la Metafisica (dove si dice che la diffinizione è quella ragione che 'l nome significa), conviensi qui, prima che più oltre si proceda per le sue laude mostrare, dire che è questo che si chiama Filosofia, cioè quello che questo nome significa. 2. E poi dimostrata essa, più efficacemente si tratterà la presente allegoria. E prima dirò chi questo nome prima diede; poi procederò a la sua significanza.

3. Dico adunque che anticamente in Italia, quasi dal principio de la costituzione di Roma, che fu [sette]cento cinquanta anni [innanzi], poco dal più al meno, che 'l Salvatore venisse, secondo che scrive Paulo Orosio, nel tempo quasi che Numa Pompilio, secondo re de li Romani, vivea uno filosofo nobilissimo, che si chiamò Pittagora. E che ello fosse in quel tempo, pare che ne tocchi alcuna cosa Tito Livio ne la prima parte del suo volume incidentemente. 4. E dinanzi da costui erano chiamati li seguitatori di scienza non filosofi ma sapienti, sì come furono quelli sette savi antichissimi, che la gente ancora nomina per fama: lo primo de li quali ebbe nome Solon, lo secondo Chilon, lo terzo Periandro, lo quarto Cleobulo, lo quinto Lindio, lo sesto Biante, e lo settimo Prieneo. 5. Questo Pittagora, domandato se egli si riputava sapiente, negò a sè questo vocabulo, e disse sè essere non sapiente, ma amatore di sapienza. E quinci nacque poi, ciascuno studioso in sapienza che fosse 'amatore di sapienza' chiamato, cioè 'filosofo'; chè tanto vale in greco 'philos' com'è a dire 'amore' in latino, e quindi dicemo noi: 'philos' quasi amore, e 'soph[os]' quasi sapien[te]. Per che vedere si può che questi due vocabuli fanno questo nome di 'filosofo', che tanto vale a dire quanto 'amatore di sapienza': per che notare si puote che non d'arroganza, ma d'umilitade è vocabulo. 6. Da questo nasce lo vocabulo del suo proprio atto, Filosofia, sì come de lo amico nasce lo vocabulo del suo proprio atto, cioè Amicizia. Onde si può vedere, considerando la significanza del primo e del secondo vocabulo, che Filosofia non è altro che amistanza a sapienza, o vero a sapere; onde in alcuno modo si può dicere catuno filosofo secondo lo naturale amore che in ciascuno genera lo desiderio di sapere.

7. Ma però che l'essenziali passioni sono comuni a tutti, non si ragiona di quelle per vocabulo distinguente alcuno participante quella essenza; onde non diciamo Gianni amico di Martino, intendendo solamente la naturale amistade significare per la quale tutti a tutti semo amici, ma l'amistà sopra la naturale generata, che è propria e distinta in singulari persone. Così non si dice filosofo alcuno per lo comune amore [al sapere]. 8. Ne la 'ntenzione d'Aristotile, ne l'ottavo de l'Etica, quelli si dice amico la cui amistà non è celata a la persona amata e a cui la persona amata è anche amica, sì che la benivolenza sia da ogni parte: e questo conviene essere o per utilitade, o per diletto, o per onestade. E così, acciò che sia filosofo, conviene essere l'amore a la sapienza, che fa l'una de le parti benivolente; conviene essere lo studio e la sollicitudine, che fa l'altra parte anche benivolente: sì che familiaritade e manifestamento di benivolenza nasce tra loro. Per che sanza amore e sanza studio non si può dire filosofo, ma conviene che l'uno e l'altro sia. 9. E sì come l'amistà per diletto fatta, o per utilitade, non è vera amistà ma per accidente, sì come l'Etica ne dimostra, così la filosofia per diletto o per utilitade non è vera filosofia ma per accidente. Onde non si dee dicere vero filosofo alcuno che, per alcuno diletto, con la sapienza in alcuna sua parte sia amico; sì come sono molti che si dilettano in intendere canzoni ed istudiare in quelle, e che si dilettano studiare in Rettorica o in Musica, e l'altre scienze fuggono e abbandonano, che sono tutte membra di sapienza. 10. Nè si dee chiamare vero filosofo colui che è amico di sapienza per utilitade, sì come sono li legisti, [li] medici e quasi tutti li religiosi, che non per sapere studiano ma per acquistare moneta o dignitade; e chi desse loro quello che acquistare intendono, non sovrastarebbero a lo studio. 11. E sì come intra le spezie de l'amistà quella che per utilitade è, meno amistà si può dicere, così questi cotali meno participano del nome del filosofo che alcuna altra gente; per che, sì come l'amistà per onestade fatta è vera e perfetta e perpetua, così la filosofia è vera e perfetta che è generata per onestade solamente, sanza altro rispetto, e per bontade de l'anima amica, che è per diritto appetito e per diritta ragione. 12. Sì ch'om[ai] qui si può dire, come la vera amistà de li uomini intra sè è che ciascuno ami tutto ciascuno, che 'l vero filosofo ciascuna parte de la sua sapienza ama, e la sapienza ciascuna parte del filosofo, in quanto tutto a sè lo riduce, e nullo suo pensiero ad altre cose lascia distendere. Onde essa Sapienza dice ne li Proverbi di Salomone: «Io amo coloro che amano me». 13. E sì come la vera amistade, astratta de l'animo, solo in sè considerata, ha per subietto la conoscenza de l'operazione buona, e per forma l'appetito di quella; così la filosofia, fuori d'anima, in sè considerata, ha per subietto lo 'ntendere, e per forma uno quasi divino amore a lo 'ntelletto. E sì come de la vera amistade è cagione efficiente la vertude, così de la filosofia è cagione efficiente la veritade. 14. E sì come fine de l'amistade vera è la buona dilezione, che procede dal convivere secondo l'umanitade propriamente, cioè secondo ragione, sì come pare sentire Aristotile nel nono de l'Etica; così fine de la Filosofia è quella eccellentissima dilezione che non pate alcuna intermissione o vero difetto, cioè vera felicitade che per contemplazione de la veritade s'acquista. 15. E così si può vedere chi è omai questa mia donna, per tutte le sue cagioni e per la sua ragione, e perchè Filosofia si chiama, e chi è vero filosofo, e chi è per accidente.

16. Ma però che, per alcuno fervore d'animo, talvolta l'uno e l'altro termine de li atti e de le passioni si chiamano e per lo vocabulo de l'atto medesimo e de la passione (sì come fa Virgilio nel secondo de lo Eneidos, che chiama Enea [a Ettore]: «O luce», ch'è atto, e «speranza de' Troiani», che è passione, chè non era esso luce nè speranza, ma era termine onde venia loro la luce del consiglio, ed era termine in che si posava tutta la speranza de la loro salute; e sì come dice Stazio nel quinto del Thebaidos, quando Isifile dice ad Archimoro: «O consolazione de le cose e de la patria perduta, o onore del mio servigio»; sì come cotidianamente dicemo, mostrando l'amico, 'vedi l'amistade mia', e 'l padre dice al figlio 'amor mio'), per lunga consuetudine le scienze ne le quali più ferventemente la Filosofia termina la sua vista, sono chiamate per lo suo nome; sì come la Scienza Naturale, la Morale, e la Metafisica, la quale, perchè più necessariamente in quella termina lo suo viso e con più fervore, [Prima] Filosofia è chiamata. 17. Onde [vedere] si può come secondamente le scienze sono Filosofia appellate.

18. Poi che è veduto come la primaia e vera filosofia è in suo essere - la quale è quella donna di cu' io dico - e come lo suo nobile nome per consuetudine è comunicato a le scienze, procederò oltre con le sue lode.

 

Capitolo XII.

1. Nel primo capitolo di questo trattato è sì compiutamente ragionata la cagione che mosse me a questa canzone, che non è più mestiere di ragionare; chè assai leggermente a questa esposizione ch'è detta ella si può riducere. E però secondo le divisioni fatte la litterale sentenza transcorrerò, per questa volgendo lo senso de la lettera là dove sarà mestiere.

2. Dico: Amor che ne la mente mi ragiona. Per Amore intendo lo studio lo quale io mettea per acquistare l'amore di questa donna: ove si vuole sapere che studio si può qui doppiamente considerare. È uno studio lo quale mena l'uomo a l'abito de l'arte e de la scienza; e un altro studio lo quale ne l'abito acquistato adopera, usando quello. 3. E questo primo è quello ch'io chiamo qui Amore, lo quale ne la mia mente informava continue, nuove e altissime considerazioni di questa donna che di sopra è dimostrata: sì come suole fare lo studio che si mette in acquistare un'amistade, che di quella amistade grandi cose prima considera, desiderando quella. 4. Questo è quello studio e quella affezione che suole procedere ne li uomini la generazione de l'amistade, quando già da una parte è nato amore, e desiderasi e procurasi che sia da l'altra; chè, sì come di sopra si dice, Filosofia è quando l'anima e la sapienza sono fatte amiche, sì che l'una sia tutta amata da l'altra, per lo modo che detto è di sopra. 5. Nè più è mestiere di ragionare per la presente esposizione questo primo verso, che [per] proemio fu ne la litterale ragionato, però che per la prima sua ragione assai di leggiero a questa seconda si può volgere lo 'ntendimento.

6. Onde al secondo verso, lo quale è cominciatore del trattato, è da procedere, là ove io dico: Non vede il sol, che tutto 'l mondo gira. Qui è da sapere che sì come trattando di sensibile cosa per cosa insensibile, si tratta convenevolemente, così di cosa intelligibile per cosa inintelligibile trattare si conviene. E però sì come ne la litterale si parlava cominciando dal sole corporale e sensibile, così ora è da ragionare per lo sole spirituale e intelligibile, che è Iddio. 7. Nullo sensibile in tutto lo mondo è più degno di farsi essemplo di Dio che 'l sole. Lo quale di sensibile luce sè prima e poi tutte le corpora celestiali e le elementali allumina: così Dio prima sè con luce intellettuale allumina, e poi le [creature] celestiali e l'altre intelligibili. 8. Lo sole tutte le cose col suo calore vivifica, e se alcuna ne corrompe, non è de la 'ntenzione de la cagione, ma è accidentale effetto: così Iddio tutte le cose vivifica in bontade, e se alcuna n'è rea, non è de la divina intenzione, ma conviene quello per accidente essere [ne] lo processo de lo inteso effetto. 9. Che se Iddio fece li angeli buoni e li rei, non fece l'uno e l'altro per intenzione, ma solamente li buoni. Seguitò poi fuori d'intenzione la malizia de' rei, ma non sì fuori d'intenzione, che Dio non sapesse dinanzi in sè predire la loro malizia; ma tanta fu l'affezione a producere la creatura spirituale, che la prescienza d'alquanti che a malo fine doveano venire non dovea nè potea Iddio da quella produzione rimuovere. 10. Chè non sarebbe da laudare la Natura se, sappiendo prima che li fiori d'un'arbore in certa parte perdere si dovessero, non producesse in quella fiori, e per li vani abbandonasse la produzione de li fruttiferi. 11. Dico adunque che Iddio, che tutto intende (chè suo 'girare' è suo 'intendere'), non vede tanto gentil cosa quanto elli vede quando mira là dove è questa Filosofia. Chè avvegna che Dio, esso medesimo mirando, veggia insiememente tutto; in quanto la distinzione de le cose è in lui per [lo] modo che lo effetto è ne la cagione, vede quelle distinte. 12. Vede adunque questa nobilissima di tutte assolutamente, in quanto perfettissimamente in sè la vede e in sua essenzia. Chè se a memoria si reduce ciò che detto è di sopra, filosofia è uno amoroso uso di sapienza, lo quale massimamente è in Dio, però che in lui è somma sapienza e sommo amore e sommo atto; che non può essere altrove, se non in quanto da esso procede. 13. È adunque la divina filosofia de la divina essenza, però che in esso non può essere cosa a la sua essenzia aggiunta; ed è nobilissima, però che nobilissima è la essenzia divina; ed è in lui per modo perfetto e vero, quasi per etterno matrimonio. Ne l'altre intelligenze è per modo minore, quasi come druda de la quale nullo amadore prende compiuta gioia, ma nel suo aspetto contentan la loro vaghezza. 14. Per che dire si può che Dio non vede, cioè non intende, cosa alcuna tanto gentile quanto questa: dico cosa alcuna, in quanto l'altre cose vede e distingue, come detto è, veggendosi essere cagione di tutto. Oh nobilissimo ed eccellentissimo cuore che ne la sposa de lo Imperadore del cielo s'intende, e non solamente sposa, ma suora e figlia dilettissima!

 

Capitolo XIII.

1. Veduto come, nel principio de le laude di costei, sottilmente si dice essa essere de la divina sustanza, in quanto primieramente si considera, da procedere e da vedere è come secondamente dico essa essere ne le causate intelligenze. 2. Dico adunque: Ogni Intelletto di là su la mira: dove è da sapere che 'di là su' dico, facendo relazione a Dio che dinanzi è menzionato; e per questo escludo le Intelligenze che sono in essilio de la superna patria, le quali filosofare non possono, però che amore in loro è del tutto spento, e a filosofare, come già detto è, è necessario amore. Per che si vede che le infernali Intelligenze da lo aspetto di questa bellissima sono private. E però che essa è beatitudine de lo 'ntelletto, la sua privazione è amarissima e piena d'ogni tristizia.

3. Poi quando dico: E quella gente che qui s'innamora, discendo a mostrare come ne l'umana intelligenza essa secondariamente ancora vegna; de la quale filosofia umana seguito poi per lo trattato, essa commendando. Dico adunque che la gente che s'innamora 'qui', cioè in questa vita, la sente nel suo pensiero, non sempre, ma quando Amore fa de la sua pace sentire. Dove sono da vedere tre cose che in questo testo sono toccate. 4. La prima si è quando si dice: la gente che qui s'innamora, per che pare farsi distinzione ne l'umana generazione. E di necessitate far si conviene, chè, secondo che manifestamente appare, e nel seguente trattato per intenzione si ragionerà, grandissima parte de li uomini vivono più secondo lo senso che secondo ragione; e quelli che secondo lo senso vivono di questa innamorare è impossibile, però che di lei avere non possono alcuna apprensione. 5. La seconda si è quando dice: Quando Amor fa sentire, dove si par fare distinzione di tempo. La qual cosa anco [far si conviene, chè,] avvegna che le intelligenze separate questa donna mirino continuamente, la umana intelligenza ciò fare non può; però che l'umana natura - fuori de la speculazione, de la quale s'appaga lo 'ntelletto e la ragione - abbisogna di molte cose a suo sustentamento: per che la nostra sapienza è talvolta abituale solamente, e non attuale, che non incontra ciò ne l'altre intelligenze, che solo di natura intellettiva sono perfette. 6. Onde quando l'anima nostra non hae atto di speculazione, non si può dire veramente che sia in filosofia, se non in quanto ha l'abito di quella e la potenza di poter lei svegliare; e però tal volta è con quella gente che qui s'innamora, e tal volta no. 7. La terza è quando dice l'ora che quella gente è con essa, cioè quando Amore de la sua pace fa sentire; che non vuole altro dire se non quando l'uomo è in ispeculazione attuale, però che de la pace di questa donna non fa lo studio [sentire] se non ne l'atto de la speculazione. E così si vede come questa è donna primamente di Dio e secondariamente de l'altre intelligenze separate, per continuo sguardare; e appresso de l'umana intelligenza per riguardare discontinuato. 8. Veramente, sempre è l'uomo che ha costei per donna da chiamare filosofo, non ostante che tuttavia non sia ne l'ultimo atto di filosofia, però che da l'abito maggiormente è altri da denominare. Onde dicemo alcuno virtuoso, non solamente virtute operando, ma l'abito de la virtù avendo; e dicemo l'uomo facundo eziandio non parlando, per l'abito de la facundia, cioè del bene parlare. E di questa filosofia in quanto da l'umana intelligenza è participata, saranno omai le seguenti commendazioni, a mostrare come grande parte del suo bene a l'umana natura è conceduto.

9. Dico dunque appresso: 'Suo essere piace tanto a chi liele dà' (dal quale, sì come da fonte primo, si diriva), 'che [in lei la sua virtute infonde] sempre, oltra la capacitade de la nostra natura', la quale fa bella e virtuosa. Onde, avvegna che a l'abito di quella per alquanti si vegna, non vi si viene sì per alcuno, che propriamente abito dire si possa; però che 'l primo studio, cioè quello per lo quale l'abito si genera, non puote quella perfettamente acquistare. 10. E qui si vede s'umil è sua loda; che, perfetta e imperfetta, nome di perfezione non perde. E per questa sua dismisuranza si dice che l'anima de la filosofia lo manifesta in quel ch'ella conduce, cioè che Iddio mette sempre in lei del suo lume. Dove si vuole a memoria reducere che di sopra è detto che amore è forma di Filosofia, e però qui si chiama anima di lei. 11. Lo quale amore manifesto è nel viso de la Sapienza, ne lo quale esso conduce mirabili bellezze, cioè contentamento in ciascuna condizione di tempo e dispregiamento di quelle cose che li altri fanno loro signori. Per che avviene che li altri miseri che ciò mirano, ripensando lo loro difetto, dopo lo desiderio de la perfezione caggiono in fatica di sospiri; e questo è quello che dice: Che li occhi di color dov'ella luce Ne mandan messi al cor pien di desiri, Che prendon aire e diventan sospiri.

 

Capitolo XIV.

1. Sì come ne la litterale esposizione dopo le generali laude a le speziali si discende, prima da la parte de l'anima, poi da la parte del corpo, così ora intende lo testo, dopo le generali commendazioni, a speziali discendere. Sì come detto è di sopra, Filosofia per subietto materiale qui ha la sapienza, e per forma ha amore, e per composto de l'uno e de l'altro l'uso di speculazione. 2. Onde in questo verso che seguentemente comincia: In lei discende la virtù divina, io intendo commendare l'amore, che è parte de la filosofia. Ove è da sapere che discender la virtude d'una cosa in altra non è altro che ridurre quella in sua similitudine; sì come ne li agenti naturali vedemo manifestamente che, discendendo la loro virtù ne le pazienti cose, recano quelle a loro similitudine tanto quanto possibili sono a venire. 3. Onde vedemo lo sole che, discendendo lo raggio suo qua giù, reduce le cose a sua similitudine di lume, quanto esse per loro disposizione possono da la [sua] virtude lume ricevere. Così dico che Dio questo amore a sua similitudine reduce, quanto esso è possibile a lui assimigliarsi. E ponsi la qualitade de la reduzione, dicendo: Sì come face in angelo che 'l vede. 4. Ove ancora è da sapere che lo primo agente, cioè Dio, pinge la sua virtù in cose per modo di diritto raggio, e in cose per modo di splendore reverberato; onde ne le Intelligenze raggia la divina luce sanza mezzo, ne l'altre si ripercuote da queste Intelligenze prima illuminate. 5. Ma però che qui è fatta menzione di luce e di splendore, a perfetto intendimento mostrerò differenza di questi vocabuli, secondo che Avicenna sente. Dico che l'usanza de' filosofi è di chiamare 'luce' lo lume, in quanto esso è nel suo fontale principio; di chiamare 'raggio', in quanto esso è per lo mezzo, dal principio al primo corpo dove si termina; di chiamare 'splendore', in quanto esso è in altra parte alluminata ripercosso. 6. Dico adunque che la divina virtù sanza mezzo questo amore tragge a sua similitudine. E ciò si può fare manifesto massimamente in ciò, che sì come lo divino amore è tutto etterno, così conviene che sia etterno lo suo obietto di necessitate, sì che etterne cose siano quelle che esso ama; e così face a questo amore amare; chè la sapienza, ne la quale questo amore fere, etterna è. 7. Ond'è scritto di lei: «Dal principio dinanzi da li secoli creata sono, e nel secolo che dee venire non verrò meno»; e ne li Proverbi di Salomone essa Sapienza dice: «Etternalmente ordinata sono»; e nel principio di Giovanni, ne l'Evangelio, si può la sua etternitade apertamente notare. E quinci nasce che là dovunque questo amore splende, tutti li altri amori si fanno oscuri e quasi spenti, imperò che lo suo obietto etterno improporzionalmente li altri obietti vince e soperchia. 8. Per che li filosofi eccellentissimi ne li loro atti apertamente lo ne dimostraro, per li quali sapemo essi tutte l'altre cose, fuori che la sapienza, avere messe a non calere. Onde Democrito, de la propria persona non curando, nè barba nè capelli nè unghie si togliea; Platone, de li beni temporali non curando, la reale dignitade mise a non calere, che figlio di re fue; Aristotile, d'altro amico non curando, contra lo suo migliore amico, fuori di quella, combatteo, sì come contra lo nomato Platone. E perchè di questi parliamo, quando troviamo li altri che per questi pensieri la loro vita disprezzaro, sì come Zeno, Socrate, Seneca, e molti altri? 9. E però è manifesto che la divina virtù, a guisa [che in] angelo, in questo amore ne li uomini discende. E per dare esperienza di ciò, grida sussequentemente lo testo: E qual donna gentil questo non crede, Vada con lei e miri. Per donna gentile s'intende la nobile anima d'ingegno e libera ne la sua propia potestate, che è la ragione. 10. Onde l'altre anime dire non si possono donne, ma ancille, però che non per loro sono ma per altrui; e lo Filosofo dice, nel secondo de la Metafisica, che quella cosa è libera che per sua cagione è, non per altrui.

11. Dice: Vada con lei e miri li atti sui, cioè accompagnisi di questo amore, e guardi a quello che dentro da lui troverà. E in parte ne tocca, dicendo: Quivi dov'ella parla, si dichina, cioè, dove la filosofia è in atto, si dichina un celestial pensiero, nel quale si ragiona questa essere più che umana operazione: e dice 'del cielo' a dare a intendere che non solamente essa, ma li pensieri amici di quella sono astratti da le basse e terrene cose. 12. Poi sussequentemente dice com'ell'avvalora e accende amore dovunque ella si mostra, con la suavitade de li atti, chè sono tutti li suoi sembianti onesti, dolci e sanza soverchio alcuno. E sussequentemente, a maggiore persuasione de la sua compagnia fare, dice: Gentile è in donna ciò che in lei si trova, E bello è tanto quanto lei simiglia. 13. Ancora soggiugne: E puossi dir che 'l suo aspetto giova: dove è da sapere che lo sguardo di questa donna fu a noi così largamente ordinato, non pur per la faccia che ella ne dimostra vedere, ma per le cose che ne tiene celate desiderare ed acquistare. 14. Onde, sì come per lei molto di quello si vede per ragione, e per consequente essere per ragione, che sanza lei pare maraviglia, così per lei si crede [ch']ogni miracolo in più alto intelletto puote avere ragione, e per consequente può essere. Onde la nostra buona fede ha sua origine; da la quale viene la speranza, de lo proveduto desiderare; e per quella nasce l'operazione de la caritade. 15. Per le quali tre virtudi si sale a filosofare a quelle Atene celestiali, dove gli Stoici e Peripatetici e Epicurii, per la l[uc]e de la veritade etterna, in uno volere concordevolmente concorrono.

 

Capitolo XV.

1. Ne lo precedente capitolo questa gloriosa donna è commendata secondo l'una de le sue parti componenti, cioè amore. Ora in questo, ne lo quale io intendo esponere quel verso che comincia: Cose appariscon ne lo suo aspetto, si conviene trattare commendando l'altra parte sua, cioè sapienza. 2. Dice adunque lo testo 'che ne la faccia di costei appariscono cose che mostrano de' piaceri di Paradiso'; e distingue lo loco dove ciò appare, cioè ne li occhi e ne lo riso. E qui si conviene sapere che li occhi de la Sapienza sono le sue demonstrazioni, con le quali si vede la veritade certissimamente; e lo suo riso sono le sue persuasioni, ne le quali si dimostra la luce interiore de la Sapienza sotto alcuno velamento: e in queste due cose si sente quel piacere altissimo di beatitudine, lo quale è massimo bene in Paradiso. 3. Questo piacere in altra cosa di qua giù essere non può, se non nel guardare in questi occhi e in questo riso. E la ragione è questa: che, con ciò sia cosa che ciascuna cosa naturalmente disia la sua perfezione, sanza quella essere non può [l'uomo] contento, che è essere beato; chè quantunque l'altre cose avesse, sanza questa rimarrebbe in lui desiderio; lo quale essere non può con la beatitudine, acciò che la beatitudine sia perfetta cosa e lo desiderio sia cosa defettiva; chè nullo desidera quello che ha, ma quello che non ha, che è manifesto difetto. 4. E in questo sguardo solamente l'umana perfezione s'acquista, cioè la perfezione de la ragione, de la quale, sì come di principalissima parte, tutta la nostra essenza depende; e tutte l'altre nostre operazioni - sentire, nutrire, e tutto - sono per quella sola, e questa è per sè, e non per altri; sì che, perfetta sia questa, perfetta è quella, tanto cioè che l'uomo, in quanto ello è uomo, vede terminato ogni desiderio, e così è beato. 5. E però si dice nel libro di Sapienza: «Chi gitta via la sapienza e la dottrina, è infelice»: che è privazione de l'essere felice. Per l'abito de la sapienza seguita che s'acquista e[ssere] felice - [che] è essere contento - secondo la sentenza del Filosofo. Dunque si vede come ne l'aspetto di costei de le cose di Paradiso appaiono. E però si legge nel libro allegato di Sapienza, di lei parlando: «Essa è candore de la etterna luce e specchio sanza macula de la maestà di Dio».

6. Poi, quando si dice: Elle soverchian lo nostro intelletto, escuso me di ciò, che poco parlar posso di quelle, per la loro soperchianza. Dov'è da sapere che in alcuno modo queste cose nostro intelletto abbagliano, in quanto certe cose [si] affermano essere che lo intelletto nostro guardare non può, cioè Dio e la etternitate e la prima materia; che certissimamente si veggiono, e con tutta fede si credono essere, e per quello che sono intendere noi non potemo; [e nullo] se non cose negando si può appressare a la sua conoscenza, e non altrimenti. 7. Veramente può qui alcuno forte dubitare come ciò sia, che la sapienza possa fare l'uomo beato, non potendo a lui perfettamente certe cose mostrare; con ciò sia cosa che 'l naturale desiderio sia a l'uomo di sapere, e sanza compiere lo desiderio beato essere non possa. 8. A ciò si può chiaramente rispondere che lo desiderio naturale in ciascuna cosa è misurato secondo la possibilitade de la cosa desiderante: altrimenti andrebbe in contrario di se medesimo, che impossibile è; e la Natura l'avrebbe fatto indarno, che è anche impossibile. 9. In contrario andrebbe: chè, desiderando la sua perfezione, desiderrebbe la sua imperfezione; imperò che desiderrebbe sè sempre desiderare e non compiere mai suo desiderio (e in questo errore cade l'avaro maladetto, e non s'accorge che desidera sè sempre desiderare, andando dietro al numero impossibile a giungere). Avrebbelo anco la Natura fatto indarno, però che non sarebbe ad alcuno fine ordinato. E però l'umano desiderio è misurato in questa vita a quella scienza che qui avere si può, e quello punto non passa se non per errore, lo quale è di fuori di naturale intenzione. 10. E così è misurato ne la natura angelica, e terminato in quanto [a] quella sapienza che la natura di ciascuno può apprendere. E questa è la ragione per che li Santi non hanno tra loro invidia, però che ciascuno aggiugne lo fine del suo desiderio, lo quale desiderio è con la bontà de la natura misurato. Onde, con ciò sia cosa che conoscere di Dio e di certe altre cose quello esse sono non sia possibile a la nostra natura, quello da noi naturalmente non è desiderato di sapere. E per questo è la dubitazione soluta.

11. Poi quando dice: Sua bieltà piove fiammelle di foco, discende ad un altro piacere di Paradiso, cioè de la felicitade secondaria a questa prima, la quale de la sua biltade procede. Dove è da sapere che la moralitade è bellezza de la filosofia; chè così come la bellezza del corpo resulta da le membra in quanto sono debitamente ordinate, così la bellezza de la sapienza, che è corpo di Filosofia come detto è, resulta da l'ordine de le virtudi morali, che fanno quella piacere sensibilmente. 12. E però dico che sua biltà, cioè moralitade, piove fiammelle di foco, cioè appetito diritto, che s'ingenera nel piacere de la morale dottrina: lo quale appetito ne diparte eziandio da li vizii naturali, non che da li altri. E quinci nasce quella felicitade, la quale diffinisce Aristotile nel primo de l'Etica, dicendo che è operazione secondo vertù in vita perfetta. 13. E quando dice: Però qual donna sente sua bieltate, procede in loda di costei, gridando a la gente che la seguiti dicendo loro lo suo beneficio, cioè che per seguitare lei diviene ciascuno buono. Però dice: qual donna, cioè quale anima, sente sua biltate biasimare per non parere quale parere si conviene, miri in questo essemplo.

14. Ove è da sapere che li costumi sono beltà de l'anima, cioè le vertudi massimamente, le quali tal volta per vanitadi o per superbia si fanno men belle e men gradite, sì come ne l'ultimo trattato vedere si potrà. E però dico che, a fuggire questo, si guardi in costei, cioè colà dov'ella è essemplo d'umiltà; cioè in quella parte di sè che morale filosofia si chiama. E soggiungo che, mirando costei - dico la sapienza - in questa parte, ogni viziato tornerà diritto e buono; e però dico: Questa è colei ch'umilia ogni perverso, cioè volge dolcemente chi fuori di debito ordine è piegato. 15. Ultimamente, in massima laude di sapienza, dico lei essere di tutto madre [e di moto] qualunque principio, dicendo che con lei Iddio cominciò lo mondo e spezialmente lo movimento del cielo, lo quale tutte le cose genera e dal quale ogni movimento è principiato e mosso, dicendo: Costei pensò chi mosse l'universo. Ciò è a dire che nel divino pensiero, ch'è esso intelletto, essa era quando lo mondo fece; onde seguita che ella lo facesse. 16. E però disse Salomone in quello de' Proverbi in persona de la Sapienza: «Quando Iddio apparecchiava li cieli, io era presente; quando con certa legge e con certo giro vallava li abissi, quando suso fermava [l'etera] e suspendeva le fonti de l'acque, quando circuiva lo suo termine al mare e poneva legge a l'acque che non passassero li suoi confini, quando elli appendeva li fondamenti de la terra, con lui e io era, disponente tutte le cose, e dilettavami per ciascuno die».

17. O peggio che morti che l'amistà di costei fuggite, aprite li occhi vostri e mirate: che, innanzi che voi foste, ella fu amatrice di voi, acconciando e ordinando lo vostro processo; e, poi che fatti foste, per voi dirizzare, in vostra similitudine venne a voi. 18. E se tutti al suo conspetto venire non potete, onorate lei ne' suoi amici e seguite li comandamenti loro, sì come [quelli] che nunziano la volontà di questa etternale imperadrice - non chiudete li orecchi a Salomone che ciò vi dice, dicendo che la 'via de' giusti è quasi luce splendiente, che procede e cresce infino al die de la beatitudine' -; andando loro dietro, mirando le loro operazioni, che essere debbono a voi luce nel cammino di questa brevissima vita.

19. E qui si può terminare la vera sentenza de la presente canzone. Veramente l'ultimo verso, che per tornata è posto, per la litterale esposizione assai leggermente qua si può ridurre, salvo in tanto quanto dice che io [s]ì chiamai questa donna fera e disdegnosa. Dove è da sapere che dal principio essa filosofia pareva a me, quanto da la parte del suo corpo, cioè sapienza, fiera, chè non mi ridea, in quanto le sue persuasioni ancora non intendea; e disdegnosa, chè non mi volgea l'occhio, cioè ch'io non potea vedere le sue dimostrazioni: e di tutto questo lo difetto era dal mio lato. 20. E per questo, e per quello che ne la sentenza litterale è dato, è manifesta l'allegoria de la tornata; sì che tempo è, per più oltre procedere, di porre fine a questo trattato.

Saturday 30 December 2023

Good Reading: "Mensagem de Natal" by Olavo de Carvalho (in Portuguese)

Só existe um motivo para celebrar o Natal, mas esse motivo é tão amplamente ignorado que as festas natalinas devem ser consideradas uma superstição em sentido estrito, a repetição ritualizada de uma conduta habitual que já não tem significado nenhum e na qual, portanto, cada um está livre para projetar as fantasias bobas que bem entenda.

Jesus Cristo, encarnação do Verbo Divino, ou inteligência de Deus, veio ao mundo para oferecer-se como vítima sacrificial única e definitiva, encerrando um ciclo histórico que durava desde as origens da humanidade e que era regido essencialmente pela Lei do Sacrifício (v. Ananda Coomaraswamy, A Lei do Sacrifício, e René Girard, O Bode Expiatório).

A Lei do Sacrifício é inerente à estrutura da existência cósmica. Só Deus tem a plenitude do ser, e o que quer que exista sem ser Deus tem uma existência precária, fundada num débito ontológico insanável, que na escala da alma humana se manifesta como culpa.

A Lei do Sacrifício não pode ser suspensa e jamais o foi.

O que Nosso Senhor Jesus Cristo fez foi cumpri-la toda de uma vez, instituindo em lugar do Sacrifício a Eucaristia, que é a recordação do ato sacrificial definitivo. A recordação passa então a ter o valor de uma repetição sem necessidade de novas vítimas.

Antes as vítimas se somavam: 1 + 1 + 1 + 1…

Agora a vítima única se multiplica por si mesma no ato da Eucaristia: 1 x 1 x 1 x 1…

Façam as contas e compreenderão por que o Natal deve ser celebrado.

O problema é que o fim de um ciclo histórico não traz necessariamente, para as gerações seguintes, a consciência da mutação ocorrida.

Essa consciência deve ser reconquistada e retransmitida de geração em geração, e na sociedade moderna essa transmissão cessou já faz algum tempo. Pouquíssimas pessoas têm uma consciência clara do que ganharam com o Natal. A maioria, mesmo quando recebe presentes, não sabe que eles apenas simbolizam um ganho muito maior que já foi obtido 2003 anos atrás.

Esse ganho pode ser explicado em poucas palavras:

Todo homem, pelo simples fato de existir, é atormentado pela culpa e vive num constante discurso interior de acusação e defesa, que produz medo, ódio, inveja, ciúme, busca obsessiva de aprovação. Esses sentimentos tornam o homem vulnerável às palavras más, às acusações e insinuações que lhe chegam de seus semelhantes, da cultura ambiente ou de seu próprio interior. O conjunto dessas acusações e insinuações é o espírito demoníaco, que em razão da culpa mesma tem poder incalculável sobre o ser humano. Em busca de proteção contra esse poder, o homem se submete aos maus e aos intrigantes, isto é, aos representantes do próprio espírito demoníaco, acreditando que aqueles que podem feri-lo devem também poder ajudá-lo. Com isso ele se torna a vítima sacrificial, o bode expiatório num grotesco ritual simulado.

Cristo adverte-nos que esse sacrifício é inútil, desnecessário e pecaminoso. Não existe no mundo um poder ou autoridade habilitado a exigir vítimas. Deus Pai só exigiu uma, e Ele mesmo a forneceu. Quem quer que, depois disso, se sinta culpado, não deve se oferecer como vítima sacrificial perante altar nenhum. Deve apenas recordar-se do sacrifício de Cristo e alegrar-se. Isso é tudo.

Muitas pessoas até sabem que as coisas são assim, mas entendem isso somente do ponto de vista religioso formal, sem tirar desse conhecimento as conseqüências práticas de ordem psicológica, que são portentosas:

Aquele que se ofereceu para ser sacrificado em nosso lugar não é um cobrador de dívidas nem um acusador, mas um salvador. Ele nada pede, apenas oferece. E em troca aceita uma palavrinha, um sorriso, uma intenção inexpressa, qualquer coisa, pois não é irritadiço nem orgulhoso: é manso e humilde.

Se, sabendo disso, você ainda é vulnerável aos olhares acusadores e às palavras venenosas, se ainda sente ante os intrigantes e os maldosos um pouco de temor reverencial e tenta aplacá-los com mostras de submissão para que eles não o exponham à vergonha ou não o castiguem de algum outro modo, é porque ainda não compreendeu o sentido do Natal.

Esse sentido é simples e direto: os maus e intrigantes não têm mais nenhuma autoridade sobre você. Não baixe a cabeça perante eles, não consinta que suas fraquezas sejam exploradas pela malícia do mundo.

Jesus Cristo já pagou a sua dívida.

É por isso que comemoramos o Natal.

25 de dezembro de 2003.

Friday 29 December 2023

Friday's Sund Word_ "A Última Estrofe" by Cândido das Neves (in Portuguese)

A noite estava assim enluarada, quando a voz
Já bem cansada
Eu ouvi de um trovador
Nos versos que vibravam de harmonia, ele em
Lágrimas dizia
Da saudade de um amor

Falava de um beijo apaixonado, de um amor
Desesperado, que tão cedo teve fim
E, desses gritos e tormentos, eu guardei no pensamento
Uma estrofe que era assim:

Lua, vinha perto a madrugada, quando, em ânsias, minha amada
Nos meus braços desmaiou.
E o beijo do pecado
teu véu estrelejado
A luzir glorificou
Lua, hoje eu vivo sem carinho, ao relento  tão sozinho,
Na esperança mais atroz,
De que cantando em noite linda
Esta ingrata, volte ainda, escutando a minha voz

A estrofe derradeira merencórea revelava toda a história
De um amor que se perdeueu. E a lua que rondava a natureza,
Solidária com a tristeza
Entre as nuvens se escondeu.

Cantor que assim falas à lua, minha história é igual à tua
Meu amor também fugiu. disse eu em ais convulsos
E ele então entre soluços toda a estrofe repetiu...

 

You can listen "A Última Estrofe" sung by Paulo Tapajós here.

Thursday 28 December 2023

Thursday's Serial: “The Dark Other” by Stanley G. Weinbaum - VIII

21 - A Question of Synapses

Pat almost ran the few blocks to her home. She hastened along in a near panic, regardless of the glances of pedestrians she chanced to pass. With the disappearance of the immediate urge, the composure for which she had struggled had deserted her, and she felt shaken, terrified, and weak. Her arm ached miserably, and her wrenched shoulder pained at each movement. It was not until she attained her own door-step that she paused, panting and quivering, to consider the events of the evening.

"I can't stand any more of this!" she muttered wretchedly to herself. "I'll just have to give up, I guess; I can't pit myself another time against—that thing."

She leaned wearily against the railing of the porch, rubbing her injured arm.

"Dr. Carl was right," she thought. "Nick was right; it's dangerous. There was a moment there at the end when he—or it—almost had me. I'm frightened," she admitted. "Lord only knows what might have happened had I been a little weaker. If the Lord does know," she added.

She found her latch-key and entered the house. Only a dim light burned in the hall; her mother, of course, was at the Club, and the maid and Magda were far away in their chambers on the third floor. She tossed her wrap on a chair, switched on a brighter light, and examined the painful spot on her arm, a red mark already beginning to turn a nasty blue, with two tiny specks of drying blood. She shuddered, and trudged wearily up the stairs to her room.

The empty silence of the house oppressed her. She wanted human companionship—safe, trustworthy, friendly company, anyone to distract her thoughts from the eerie, disturbing direction they were taking. She was still in somewhat of a panic, and suppressed with difficulty a desire to peep fearfully under the bed.

"Coward!" she chided herself. "You knew what to expect."

Suddenly the recollection of her parting words recurred to her. She had told Nick—if Nick had indeed heard—to come to the house, to come at once, tonight, if he could. A tremor of apprehension ran through her. Suppose he came; suppose he came as her own Nick, and she admitted him, and then—or suppose that other came, and managed by some trick to enter, or suppose that unholy fascination of his prevailed on her—she shivered, and brushed her hand distractedly across her eyes.

"I can't stand it!" she moaned. "I'll have to give up, even if it means never seeing Nick again. I'll have to!" She shook her head miserably as if to deny the picture that had risen in her mind of herself and that horror alone in the house.

"I won't stay here!" she decided. She peeped out of the west windows at the Doctor's residence, and felt a surge of relief at the sight of his iron-gray hair framed in the library window below. He was reading; she could see the book on his knees. There was her refuge; she ran hastily down the stairs and out of the door.

With an apprehensive glance along the street she crossed to his door and rang the bell. She waited nervously for his coming, and, with a sudden impulse, pulled her vanity-case from her bag and dabbed a film of powder over the mark on her arm. Then his ponderous footsteps sounded and the door opened.

"Hello," he said genially. "These late evening visits of yours are becoming quite customary—and see if I care!"

"May I come in a while?" asked Pat meekly.

"Have I ever turned you away?" He followed her into the library, pushed a chair forward for her, and dropped quickly into his own with an air of having snatched it from her just in time.

"I didn't want your old arm-chair," she remarked, occupying the other.

"And what's the trouble tonight?" he queried.

"I—well, I was just nervous. I didn't want to stay in the house alone."

"You?" His tone was skeptical. "You were nervous? That hardly sounds reasonable, coming from an independent little spit-fire like you."

"I was, though. I was scared."

"And of what—or whom?"

"Of haunts and devils."

"Oh." He nodded. "I see you've had results from your letter-writing."

"Well, sort of."

"I'm used to your circumlocutions, Pat. Suppose you come directly to the point for once. What happened?"

"Why, I wrote Nick to get in touch with me, and I got a reply. He said to meet him in the park at a place we knew. This evening."

"And you did, of course."

"Yes, but before that, this afternoon, he called up and told me not to, but I insisted and we did."

"Told you not to, eh? And was his warning justified?"

"Yes. Oh, yes! When I came to the place, it was—the other."

"So! Well, he could hardly manhandle you in a public park."

Pat thought of her wrenched shoulder and bruised arm. She shuddered.

"He's horrible!" she said. "Inhuman! He kept referring to Saturday night, and he threatened that if I moved or made a disturbance he'd let Nick suffer the consequences. So I kept still while he insulted me."

"You nit-wit!" There was more than a trace of anger in the Doctor's voice. "I want to see that pup of yours! We'll soon find out what this thing is—a mania or simply lack of a good licking!"

"What it is?" echoed Pat. "Oh—it told me! Dr. Carl, what's a synopsis?"

"A synopsis! You know perfectly well."

"I mean applied to physiology or psychology or something. It—he told me he was a question of synopsis."

"This devil of yours said that?"

"Yes."

"Hum!" The Doctor's voice was musing. He frowned perplexedly, then looked up abruptly. "Was it—did he by any chance say synapses? Not synopsis—synapses?"

"That's it!" exclaimed the girl. "He said he was a question of synapses. Does that explain him? Do you know what he is?"

"Doesn't explain a damn thing!" snapped Horker. "A synapse is a juncture, or the meeting of two nerves. It's why you can develop automatic motions and habits, like playing piano, or dancing. When you form a habit, the synapses of the nerves involved are sort of worn thin, so the nerves themselves are, in a sense, short-circuited. You go through motions without the need of your brain intervening, which is all a habit amounts to. Understand?"

"Not very well," confessed Pat.

"Humph! It doesn't matter anyway. I can't see that it helps to analyze your devil."

"I don't care if it's never analyzed," said Pat with a return of despondency. "Dr. Carl, I can't face that evil thing again. I can't do it, not even if it means never seeing Nick!"

"Sensible," said the Doctor approvingly. "I'd like to have a chance at him, but not enough to keep you in this state of jitters. Although," he added, "a lot of this mystery is the product of your own harum-scarum mind. You can be sure of that, Honey."

"You would say so," responded the girl wearily. "You've never seen that—change. If it's my imagination, then I'm the one that needs your treatments, not Nick."

"It isn't all imagination, most likely," said Horker defensively. "I know these introverted types with their hysterias, megalomanias, and defense mechanisms! They've paraded through my office there for a good many years, Pat; they've provided the lion's share of my practice. But this young psychopathic of yours seems to have it bad—abnormally so, and that's why I'm so interested, apart from helping you, of course."

"I don't care," said Pat apathetically, repressing a desire to rub her injured arm. "I'm through. I'm scared out of the affair. Another week like this last one and I would be one of your patients."

"Best drop it, then," said Horker, eyeing her seriously. "Nothing's worth upsetting yourself like this, Pat."

"Nick's worth it," she murmured. "He's worth it—only I just haven't the strength. I haven't the courage. I can't do it!"

"Never mind, Honey," the Doctor muttered, regarding her with an expression of concern. "You're probably well out of the mess. I know damn well you haven't told me everything about this affair—notably, how you acquired that ugly mark on your arm that's so carefully powdered over. So, all in all, I guess you're well out of it."

"I suppose I am." Her voice was still weary. Suddenly the glare of headlights drew her attention to the window; a car was stopping before her home. "There's Mother," she said. "I'll go on back now, Dr. Carl, and thanks for entertaining a lonesome and depressed lady."

She rose with a casual glance through the window, then halted in frozen astonishment and a trace of terror.

"Oh!" she gasped. The car was the modest coupe of Nicholas Devine.

She peered through the window; the Doctor rose and stared over her shoulder. "I told him to come," she whispered. "I told him to come when he was able. He heard me, he or—the other."

A figure alighted from the vehicle. Even in the dusk she could perceive the exhaustion, the weariness in its movements. She pressed her face to the pane, surveying the form with fascinated intentness. It turned, supporting itself against the car and gazing steadily at her own door. With the movement the radiance of a street-light illuminated its features.

"It's Nick!" she cried with such eagerness that the Doctor was startled. "It's my Nick!"

 

22 - Doctor and Devil

Pat rushed to the door, out upon the porch, and down to the street. Dr. Horker followed her to the entrance and stood watching her as she darted toward the dejected figure beside the car.

"Nick!" she cried. "I'm here, Honey. You heard me, didn't you?"

She flung herself into his arms; he held her eagerly, pressing a hasty, tender kiss on her lips.

"You heard me!" she murmured.

"Yes." His voice was husky, strained. "What is it, Pat? Tell me quickly—God knows how much time we have!"

"It's Dr. Carl. He'll help us, Nick."

"Help us! No one can help us, dear. No one!"

"He'll try. It can't do any harm, Honey. Come in with me. Now!"

"It's useless, I tell you!"

"But come," she pleaded. "Come anyway!"

"Pat, I tell you this battle has to be fought out by me alone. I'm the only one who can do anything at all and," he lowered his voice, "Pat, I'm losing!"

"Nick!"

"That's why I came tonight. I was too cowardly to make our last meeting—Monday evening in the park—a definite farewell. I wanted to, but I weakened. So tonight, Pat, it's a final good-bye, and you thank Heaven for it!"

"Oh, Nick dear!"

"It was touch and go whether I came at all tonight. It was a struggle, Pat; he is as strong as I am now. Or stronger."

The girl gazed searchingly into his worn, weary face. He looked miserably ill, she thought; he seemed as exhausted as one who had been engaged in a physical battle.

"Nick," she said insistently, "I don't care what you say, you're coming in with me. Only for a little while."

She tugged at his hand, dragging him reluctantly after her. He followed her to the porch where the open door still framed the great figure of the Doctor.

"You know Dr. Carl," she said.

"Come inside," growled Horker. Pat noticed the gruffness of his voice, his lack of any cordiality, but she said nothing as she pulled her reluctant companion through the door and into the library.

The Doctor drew up another chair, and Pat, more accustomed to his devices, observed that he placed it in such position that the lamp cast a stream of radiance on Nick's face. She sank into her own chair and waited silently for developments.

"Well," said Horker, turning his shrewd old eyes on Nick's countenance, "let's get down to cases. Pat's told me what she knows; we can take that much for granted. Is there anything more you might want to tell?"

"No, sir," responded the youth wearily. "I've told Pat all I know."

"Humph! Maybe I can ask some leading questions, then. Will you answer them?"

"Of course, any that I can."

"All right. Now," the Doctor's voice took on a cool professional edge, "you've had these—uh—attacks as long as you can remember. Is that right?"

"Yes."

"But they've been more severe of late?"

"Much worse, sir!"

"Since when?"

"Since—about as long as I've known Pat. Four or five weeks."

"M—m," droned the Doctor. "You've no idea of the cause for this increase in the malignancy of the attacks?"

"No sir," said Nick, after a barely perceptible hesitation.

"You don't think the cause could be in any way connected with, let us say, the emotional disturbances attending your acquaintance with Pat here?"

"No, sir," said the youth flatly.

"All right," said Horker. "Let that angle go for the present. Are there any after effects from these spells?"

"Yes. There's always a splitting headache." He closed his eyes. "I have one of them now."

"Localized?"

"Sir?"

"Is the pain in any particular region? Forehead, temples, eyes, or so forth?"

"No. Just a nasty headache."

"But no other after-effects?"

"I can't think of any others. Except, perhaps, a feeling of exhaustion after I've gone through what I've just finished." He closed his eyes as if to shut out the recollection.

"Well," mused the Doctor, "we'll forget the physical symptoms. What happens to your individuality, your own consciousness, while you're suffering an attack?"

"Nothing happens to it," said Nick with a suppressed shudder. "I watch and hear, but what he does is beyond my control. It's terrifying—horrible!" he burst out suddenly.

"Doubtless," responded Horker smoothly. "What about the other? Does that one stand by while you're in the saddle?"

"I don't know," muttered Nick dully. "Of course he does!" he added abruptly. "I can feel his presence at all times—even now. He's always lurking, waiting to spring forth, as soon as I relax!"

"Humph!" ejaculated the Doctor. "How do you manage to sleep?"

"By waiting for exhaustion," said Nick wearily. "By waiting until I can stay awake no longer."

"And can you bring this other personality into dominance? Can you change controls, so to speak, at will?"

"Why—yes," the youth answered, hesitating as if puzzled. "Yes, I suppose I could."

"Let's see you, then."

"But—" Horror was in his voice.

"No, Dr. Carl!" Pat interjected in fright. "I won't let him!"

"I thought you declared yourself out of this," said Horker with a shrewd glance at the girl.

"Then I'm back in it! I won't let him do what you want—anyway, not that!"

"Pat," said the Doctor with an air of patience, "you want me to treat this affliction, don't you? Isn't that what both of you want?"

The girl murmured a scarcely audible assent.

"Very well, then," he proceeded. "Do you expect me to treat the thing blindly—in the dark? Do you think I can guess at the cause without observing the effect?"

"No," said Pat faintly.

"So! Now then," he turned to Nick, "Let's see this transformation."

"Must I?" asked the youth reluctantly.

"If you want my help."

"All right," he agreed with another tremor. He sat passively staring at the Doctor; a moment passed. Horker heard Pat's nervous breathing; other than that, the room was in silence. Nicholas Devine closed his eyes, brushed his hand across his forehead. A moment more and he opened them to gaze perplexedly at the Doctor.

"He won't!" he muttered in astonishment. "He won't do it!"

"Humph!" snapped Horker, ignoring Pat's murmur of relief. "Finicky devil, isn't he? Likes to pick company he can bully!"

"I don't understand it!" Nick's face was blank. "He's been tormenting me until just now!" He looked at the Doctor. "You don't think I'm lying about it, do you, Dr. Horker?"

"Not consciously," replied the other coolly. "If I thought you were responsible for a few of the indignities perpetrated on Pat here, I'd waste no time in questions, young man. I'd be relieving myself of certain violent impulses instead."

"I couldn't harm Pat!"

"You gave a passable imitation of it, then! However, that's beside the point; as I say, I don't hold you responsible for aberrations which I believe are beyond your control. The main thing is a diagnosis."

"Do you know what it is?" cut in Pat eagerly.

"Not yet—at least, not for certain. There's only one real method available; these questions will get us nowhere. We'll have to psychoanalyze you, young man."

"I don't care what you do, if you can offer any hope!" he declared vehemently. "Let's get it over!"

"Not as easy as all that!" rumbled Horker. "It takes time; and besides, it can't be successful with the subject in a hectic mood such as yours." He glanced at his watch. "Moreover, it's after midnight."

He turned to Nicholas Devine. "We'll make it Saturday evening," he said. "Meanwhile, young man, you're not to see Pat. Not at all—understand? You can see her here when you come."

"That's infinitely more than I'd planned for myself," said the youth in a low voice. "I'd abandoned the hope of seeing her."

He rose and moved toward the door, and the others followed. At the entrance he paused; he leaned down to plant a brief, tender kiss on the girl's lips, and moved wordlessly out of the door. Pat watched him enter his car, and followed the vehicle with her eyes until it disappeared. Then she turned to Horker.

"Do you really know anything about it?" she queried. "Have you any theory at all?"

"He's not lying," said the Doctor thoughtfully. "I watched him closely; he believes he's telling the truth."

"He is. I know what I saw!"

"He hasn't the signs of praecox or depressive," mused the Doctor. "It's puzzling; it's one of those functional aberrations, or a fixed delusion of some kind. We'll find out just what it is."

"It's the devil," declared Pat positively. "I don't care what sort of scientific tag you give it—that's what it is. You doctors can hide a lot of ignorance under a long name."

Horker paid no attention to her remarks. "We'll see what the psychoanalysis brings out," he said. "I shouldn't be surprised if the whole thing were the result of a defense mechanism erected by a timid child in an effort to evade responsibility. That's what it sounds like."

"It's a devil!" reiterated Pat.

"Well," said the Doctor, "if it is, it has one thing in common with every spook or devil I ever heard of."

"What's that?"

"It refuses to appear under any conditions where one has a chance to examine it. It's like one of these temperamental mediums trying to perform under a spot-light."

 

23 - Werewolf

Pat awoke in rather better spirits. Somehow, the actual entrance of Dr. Horker into the case gave her a feeling of security, and her natural optimistic nature rode the pendulum back from despair to hope. Even the painful black-and-blue mark on her arm, as she examined it ruefully, failed to shake her buoyant mood.

Her mood held most of the day; it was only at evening that a recurrence of doubt assailed her. She sat in the dim living room waiting the arrival of her mother's guests, and wondered whether, after all, the predicament was as easily solvable as she had assumed. She watched the play of lights and shadows across the ceiling, patterns cast through the windows by moving headlights in the street, and wondered anew whether her faith in Dr. Carl's abilities was justified. Science! She had the faith of her generation in its omnipotence, but here in the dusk, the outworn superstitions of childhood became appalling realities, and some of Magda's stories, forgotten now for years, rose out of their graves and went squeaking and maundering like sheeted ghosts in a ghastly parade across the universe of her mind. The meaningless taunts she habitually flung at Dr. Carl's science became suddenly pregnant with truth; his patient, hard-learned science seemed in fact no more than the frenzies of a witch-doctor dancing in the heart of a Rhodesian swamp.

What was it worth—this array of medical facts—if it failed to cure? Was medicine falling into the state of Chinese science—a vast collection of good rules for which the reasons were either unknown or long forgotten? She sighed; it was with a feeling of profound relief that she heard the voices of the Brocks outside; she played miserable bridge the whole evening, but it was less of an affliction than the solitude of her own thoughts.

Saturday morning, cloudy and threatening though it was, found the pendulum once more at the other end of the arc. She found herself, if not buoyantly cheerful, at least no longer prey to the inchoate doubts and fears of the preceding evening. She couldn't even recall their nature; they had been apart from the cool, day-time logic that preached a common-sense reliance on accepted practices. They had been, she concluded, no more than childish nightmares induced by darkness and the play of shadows.

She dressed and ate a late breakfast; her mother was already en route to the Club for her bridge-luncheon. Thereafter, she wandered into the kitchen for the company of Magda, whom she found with massive arms immersed in dish water. Pat perched on her particular stool beside the kitchen table and watched her at her work.

"Magda," she said finally.

"I'm listening, Miss Pat."

"Do you remember a story you told me a long time ago? Oh, years and years ago, about a man in your town who could change into something—some fierce animal. A wolf, or something like that."

"Oh, him!" said Magda, knitting her heavy brows. "You mean the werewolf."

"That's it! The werewolf. I remember it now—how frightened I was after I went to bed. I wasn't more than eight years old, was I?"

"I couldn't remember. It was years ago, though, for sure."

"What was the story?" queried Pat. "Do you remember that?"

"Why, it was the time the sheep were being missed," said the woman, punctuating her words with the clatter of dishes on the drainboard. "Then there was a child gone, and another, and then tales of this great wolf about the country. I didn't see him; us little ones stayed under roof by darkness after that."

"That wasn't all of it," said Pat. "You told me more than that."

"Well," continued Magda, "there was my uncle, who was best hand with a rifle in the village. He and others went after the creature, and my uncle, he came back telling how he'd seen it plain against the sky, and how he'd fired at it. He couldn't miss, he was that close, but the wolf gave him a look and ran away."

"And then what?"

"Then the Priest came, and he said it wasn't a natural wolf. He melted up a silver coin and cast a bullet, and he gave it to my uncle, he being the best shot in the village. And the next night he went out once more."

"Did he get it?" asked Pat. "I don't remember."

"He did. He came upon it by the pasture, and he aimed his gun. The creature looked straight at him with its evil red eyes, and he shot it. When he came to it, there wasn't a wolf at all, but this man—his name I forget—with a hole in his head. And then the Priest, he said he was a werewolf, and only a silver bullet could kill him. But my uncle, he said those evil red eyes kept staring at him for many nights."

"Evil red eyes!" said Pat suddenly. "Magda," she asked in a faint voice, "could he change any time he wanted to?"

"Only by night, the Priest said. By sunrise he had to be back."

"Only by night!" mused the girl. Another idea was forming in her active little mind, another conception, disturbing, impossible to phrase. "Is that worse than being possessed by a devil, Magda?"

"Sure it's worse! The Priest, he could cast out the devil, but I never heard no cure for being a werewolf."

Pat said nothing further, but slid from her high perch to the floor and went soberly out of the kitchen. The fears of last night had come to life again, and now the over-cast skies outside seemed a fitting symbol to her mood. She stared thoughtfully out of the living room windows, and the sudden splash of raindrops against the pane lent a final touch to the whole desolate ensemble.

"I'm just a superstitious little idiot!" she told herself. "I laugh at Mother because she always likes to play North and South, and here I'm letting myself worry over superstitions that were discarded before there was any such thing as a game called contract bridge."

But her arguments failed to carry conviction. The memory of the terrible eyes of that other had clicked too aptly to Magda's phrase. She couldn't subdue the picture that haunted her, and she couldn't cast off the apprehensiveness of her mood. She recalled gloomily that Dr. Horker was at the Club—wouldn't be home before evening, else she'd have gladly availed herself of his solid, matter-of-fact company.

She thought of Nick's appointment with the Doctor for that evening. Suppose his psychoanalysis brought to light some such horror as these fears of hers—that would forever destroy any possibility of happiness for her and Nick. Even though the Doctor refused to recognize it, called it by some polysyllabic scientific name, the thing would be there to sever them.

She wandered restlessly into the hall. The morning mail, unexamined, lay in its brazen receptacle, she moved over, fingering it idly. Abruptly she paused in astonishment—a letter in familiar script had flashed at her. She pulled it out; it was! It was a letter from Nicholas Devine!

She tore it open nervously, wondering whether he had reverted to his original refusal of Dr. Horker's aid, whether he was unable to come, whether that had happened. But only a single unfolded sheet slipped from the envelope, inscribed with a few brief lines of poetry.

 

"The grief that is too faint for tears,

And scarcely breathes of pain,

May linger on a hundred years

Ere it creep forth again.

But I, who love you now too well

To suffer your disdain,

Must try tonight that love to quell—

And try in vain!"