Saturday, 8 August 2015

“The Divine Comedy” by Dante Alighieri (Inferno: Canto XXIV) (in Italian)



Inferno: Canto XXIV

In quella parte del giovanetto anno
  che 'l sole i crin sotto l'Aquario tempra
  e gia` le notti al mezzo di` sen vanno,

quando la brina in su la terra assempra
  l'imagine di sua sorella bianca,
  ma poco dura a la sua penna tempra,

lo villanello a cui la roba manca,
  si leva, e guarda, e vede la campagna
  biancheggiar tutta; ond'ei si batte l'anca,

ritorna in casa, e qua e la` si lagna,
  come 'l tapin che non sa che si faccia;
  poi riede, e la speranza ringavagna,

veggendo 'l mondo aver cangiata faccia
  in poco d'ora, e prende suo vincastro,
  e fuor le pecorelle a pascer caccia.

Cosi` mi fece sbigottir lo mastro
  quand'io li vidi si` turbar la fronte,
  e cosi` tosto al mal giunse lo 'mpiastro;

che', come noi venimmo al guasto ponte,
  lo duca a me si volse con quel piglio
  dolce ch'io vidi prima a pie` del monte.

Le braccia aperse, dopo alcun consiglio
  eletto seco riguardando prima
  ben la ruina, e diedemi di piglio.

E come quei ch'adopera ed estima,
  che sempre par che 'nnanzi si proveggia,
  cosi`, levando me su` ver la cima

d'un ronchione, avvisava un'altra scheggia
  dicendo: <<Sovra quella poi t'aggrappa;
  ma tenta pria s'e` tal ch'ella ti reggia>>.

Non era via da vestito di cappa,
  che' noi a pena, ei lieve e io sospinto,
  potavam su` montar di chiappa in chiappa.

E se non fosse che da quel precinto
  piu` che da l'altro era la costa corta,
  non so di lui, ma io sarei ben vinto.

Ma perche' Malebolge inver' la porta
  del bassissimo pozzo tutta pende,
  lo sito di ciascuna valle porta

che l'una costa surge e l'altra scende;
  noi pur venimmo al fine in su la punta
  onde l'ultima pietra si scoscende.

La lena m'era del polmon si` munta
  quand'io fui su`, ch'i' non potea piu` oltre,
  anzi m'assisi ne la prima giunta.

<<Omai convien che tu cosi` ti spoltre>>,
  disse 'l maestro; <<che', seggendo in piuma,
  in fama non si vien, ne' sotto coltre;

sanza la qual chi sua vita consuma,
  cotal vestigio in terra di se' lascia,
  qual fummo in aere e in acqua la schiuma.

E pero` leva su`: vinci l'ambascia
  con l'animo che vince ogne battaglia,
  se col suo grave corpo non s'accascia.

Piu` lunga scala convien che si saglia;
  non basta da costoro esser partito.
  Se tu mi 'ntendi, or fa si` che ti vaglia>>.

Leva'mi allor, mostrandomi fornito
  meglio di lena ch'i' non mi sentia;
  e dissi: <<Va, ch'i' son forte e ardito>>.

Su per lo scoglio prendemmo la via,
  ch'era ronchioso, stretto e malagevole,
  ed erto piu` assai che quel di pria.

Parlando andava per non parer fievole;
  onde una voce usci` de l'altro fosso,
  a parole formar disconvenevole.

Non so che disse, ancor che sovra 'l dosso
  fossi de l'arco gia` che varca quivi;
  ma chi parlava ad ire parea mosso.

Io era volto in giu`, ma li occhi vivi
  non poteano ire al fondo per lo scuro;
  per ch'io: <<Maestro, fa che tu arrivi

da l'altro cinghio e dismontiam lo muro;
  che', com'i' odo quinci e non intendo,
  cosi` giu` veggio e neente affiguro>>.

<<Altra risposta>>, disse, <<non ti rendo
  se non lo far; che' la dimanda onesta
  si de' seguir con l'opera tacendo>>.

Noi discendemmo il ponte da la testa
  dove s'aggiugne con l'ottava ripa,
  e poi mi fu la bolgia manifesta:

e vidivi entro terribile stipa
  di serpenti, e di si` diversa mena
  che la memoria il sangue ancor mi scipa.

Piu` non si vanti Libia con sua rena;
  che' se chelidri, iaculi e faree
  produce, e cencri con anfisibena,

ne' tante pestilenzie ne' si` ree
  mostro` gia` mai con tutta l'Etiopia
  ne' con cio` che di sopra al Mar Rosso ee.

Tra questa cruda e tristissima copia
  correan genti nude e spaventate,
  sanza sperar pertugio o elitropia:

con serpi le man dietro avean legate;
  quelle ficcavan per le ren la coda
  e 'l capo, ed eran dinanzi aggroppate.

Ed ecco a un ch'era da nostra proda,
  s'avvento` un serpente che 'l trafisse
  la` dove 'l collo a le spalle s'annoda.

Ne' O si` tosto mai ne' I si scrisse,
  com'el s'accese e arse, e cener tutto
  convenne che cascando divenisse;

e poi che fu a terra si` distrutto,
  la polver si raccolse per se' stessa,
  e 'n quel medesmo ritorno` di butto.

Cosi` per li gran savi si confessa
  che la fenice more e poi rinasce,
  quando al cinquecentesimo anno appressa;

erba ne' biado in sua vita non pasce,
  ma sol d'incenso lagrime e d'amomo,
  e nardo e mirra son l'ultime fasce.

E qual e` quel che cade, e non sa como,
  per forza di demon ch'a terra il tira,
  o d'altra oppilazion che lega l'omo,

quando si leva, che 'ntorno si mira
  tutto smarrito de la grande angoscia
  ch'elli ha sofferta, e guardando sospira:

tal era il peccator levato poscia.
  Oh potenza di Dio, quant'e` severa,
  che cotai colpi per vendetta croscia!

Lo duca il domando` poi chi ello era;
  per ch'ei rispuose: <<Io piovvi di Toscana,
  poco tempo e`, in questa gola fiera.

Vita bestial mi piacque e non umana,
  si` come a mul ch'i' fui; son Vanni Fucci
  bestia, e Pistoia mi fu degna tana>>.

E io al duca: <<Dilli che non mucci,
  e domanda che colpa qua giu` 'l pinse;
  ch'io 'l vidi uomo di sangue e di crucci>>.

E 'l peccator, che 'ntese, non s'infinse,
  ma drizzo` verso me l'animo e 'l volto,
  e di trista vergogna si dipinse;

poi disse: <<Piu` mi duol che tu m'hai colto
  ne la miseria dove tu mi vedi,
  che quando fui de l'altra vita tolto.

Io non posso negar quel che tu chiedi;
  in giu` son messo tanto perch'io fui
  ladro a la sagrestia d'i belli arredi,

e falsamente gia` fu apposto altrui.
  Ma perche' di tal vista tu non godi,
  se mai sarai di fuor da' luoghi bui,

apri li orecchi al mio annunzio, e odi:
  Pistoia in pria d'i Neri si dimagra;
  poi Fiorenza rinova gente e modi.

Tragge Marte vapor di Val di Magra
  ch'e` di torbidi nuvoli involuto;
  e con tempesta impetuosa e agra

sovra Campo Picen fia combattuto;
  ond'ei repente spezzera` la nebbia,
  si` ch'ogne Bianco ne sara` feruto.

E detto l'ho perche' doler ti debbia!>>.

Friday, 7 August 2015

"La Vida es Sueño" by Pedro Calderón de la Barca (Second Act, final) (in Spanish)



                         [En la torre de SEGISMUNDO]

Descúbrese SEGISMUNDO, como al principio, con pieles y cadena, durmiendo en el suelo; salen CLOTALDO, CLARÍN y los dos criados
CLOTALDO:      Aquí le habéis de dejar
            pues hoy su soberbia acaba
            donde empezó.
CRIADO 1                  Como estaba,
            la cadena vuelvo a atar.
CLARÍN:     No acabes de despertar,
            Segismundo, para verte
            perder, trocada la suerte
            siendo tu gloria fingida,
            una sombra de la vida
            y una llama de la muerte.
CLOTALDO:      A quien sabe discurrir,
            así, es bien que se prevenga
            una estancia, donde tenga
            harto lugar de argüir.
            Éste es el que habéis de asir
            y en ese cuarto encerrar.
CLARÍN:     ¿Por qué a mí?
CLOTALDO:                  Porque ha de estar
            guardado en prisión tan grave,
            Clarín que secretos sabe,
            donde no pueda sonar.
CLARÍN:        ¿Yo, por dicha, solicito
            dar muerte a mi padre?  No.
            ¿Arrojé del balcón yo
            al Icaro de poquito?
            ¿Yo muero ni resucito?
            ¿Yo sueño o duermo?  ¿A qué fin
            me encierran?
CLOTALDO:                 Eres Clarín.
CLARÍN:     Pues ya digo que seré
            corneta, y que callaré,
            que es instrumento ruín.
       Llévanle a CLARÍN.  Sale el rey BASILIO, rebozado
BASILIO:       ¿Clotaldo?
CLOTALDO:                ¡Señor!  ¿Así
            viene vuestra majestad?
BASILIO:    La necia curiosidad
            de ver lo que pasa aquí
            a Segismundo, ¡ay de mí!
            de este modo me ha traído.
CLOTALDO:   Mírale allí, reducido
            a su miserable estado.
BASILIO:    ¡Ay, príncipe desdichado
            y en triste punto nacido!
               Llega a despertarle, ya
            que fuerza y vigor perdió
            con el opio que bebió.
CLOTALDO:   Inquieto, señor, está,
            y hablando.
BASILIO:               ¿Qué soñará
            agora?  Escuchemos, pues.
                             En sueños
SEGISMUNDO: Piadoso príncipe es
            el que castiga tiranos;
            muera Clotaldo a mis manos,
            bese mi padre mis pies.
CLOTALDO:      Con la muerte me amenaza.
BASILIO:    A mí con rigor y afrenta.
CLOTALDO:   Quitarme la vida intenta.
BASILIO:    Rendirme a sus plantas traza.
                           En sueños
SEGISMUNDO: Salga a la anchurosa plaza
            del gran teatro del mundo
            este valor sin segundo;
            porque mi venganza cuadre,
            vean triunfar de su padre
            al príncipe Segismundo.
                               Despierta
               Mas, ¡ay de mí! ¿Dónde estoy?
BASILIO:    Pues a mí no me ha de ver;
            ya sabes lo que has de hacer.
            Desde allí a escucharle voy.
                    Retírase el rey BASILIO
SEGISMUNDO: ¿Soy yo por ventura?  ¿Soy
            el que preso y aherrojado
            llego a verme en tal estado?
            ¿No sois mi sepulcro vos,
            torre?  Sí.  ¡Válgame Dios,
            qué de cosas he soñado!
CLOTALDO:      (A mí me toca llegar,             Aparte
            a hacer la desecha agora).
SEGISMUNDO: ¿Es ya de despertar hora?
CLOTALDO:   Sí, hora es ya de despertar.
            ¿Todo el día te has de estar
            durmiendo?  ¿Desde que yo
            al águila que voló
            con tarda vista seguí
            y te quedaste tú aquí,
            nunca has despertado?
SEGISMUNDO:                        No.
               Ni aun agora he despertado;
            que según, Clotaldo, entiendo,
            todavía estoy durmiendo,
            y no estoy muy engañado;
            porque si ha sido soñado
            lo que vi palpable y cierto,
            lo que veo será incierto;
            y no es mucho que, rendido,
            pues veo estando dormido,
            que sueñe estando despierto.
CLOTALDO:      Lo que soñaste me di.
SEGISMUNDO: Supuesto que sueño fue,
            no diré lo que soñé;
            lo que vi, Clotaldo, sí.
            Yo desperté, y yo me vi,
            --¡qué crueldad tan lisonjera!--
            en un lecho, que pudiera
            con matices y colores
            ser el catre de las flores
            que tejió la primavera.
               Aquí mil nobles, rendidos
            a mis pies nombre me dieron
            de su príncipe, y sirvieron
            galas, joyas y vestidos.
            La calma de mis sentidos
            tú trocaste en alegría,
            diciendo la dicha mía;
            que, aunque estoy de esta manera,
            príncipe en Polonia era.
CLOTALDO:   Buenas albricias tendría.
SEGISMUNDO: No muy buenas; por traidor,
            con pecho atrevido y fuerte
            dos veces te daba muerte.
CLOTALDO:   ¿Para mí tanto rigor?
SEGISMUNDO: De todos era señor,
            y de todos me vengaba;
            sólo a una mujer amaba...
            que fue verdad, creo yo,
            en que todo se acabó,
            y esto sólo no se acaba.
                          Vase el rey BASILIO
CLOTALDO:      (Enternecido se ha ido           Aparte
            el rey de haberle escuchado).
            Como habíamos hablado
            de aquella águila, dormido,
            tu sueño imperios han sido;
            mas en sueños fuera bien
            entonces honrar a quien
            te crïó en tantos empeños,
            Segismundo, que aun en sueños
            no se pierde el hacer bien.
                             Vase CLOTALDO
SEGISMUNDO: Es verdad; pues reprimamos
            esta fiera condición,
            esta furia, esta ambición,
            por si alguna vez soñamos;
            y sí haremos, pues estamos
            en mundo tan singular,
            que el vivir sólo es soñar;
            y la experiencia me enseña
            que el hombre que vive, sueña
            lo que es, hasta despertar.
               Sueña el rey que es rey, y vive
            con este engaño mandando,
            disponiendo y gobernando;
            y este aplauso, que recibe
            prestado, en el viento escribe,
            y en cenizas le convierte
            la muerte, ¡desdicha fuerte!
            ¿Que hay quien intente reinar,
            viendo que ha de despertar
            en el sueño de la muerte!
               Sueña el rico en su riqueza,
            que más cuidados le ofrece;
            sueña el pobre que padece
            su miseria y su pobreza;
            sueña el que a medrar empieza,
            sueña el que afana y pretende,
            sueña el que agravia y ofende,
            y en el mundo, en conclusión,
            todos sueñan lo que son,
            aunque ninguno lo entiende.
               Yo sueño que estoy aquí
            de estas prisiones cargado,
            y soñé que en otro estado
            más lisonjero me vi.
            ¿Qué es la vida?  Un frenesí.
            ¿Qué es la vida?  Una ilusión,
            una sombra, una ficción,
            y el mayor bien es pequeño;
            que toda la vida es sueño,
            y los sueños, sueños son.

FIN DEL SEGUNDO ACTO

Thursday, 6 August 2015

"The Ass in the Lion's Skin" by Aesop (translated into English)



An Ass once found a Lion's skin which the hunters had left outin the sun to dry.  He put it on and went towards his native village. All fled at his approach, both men and animals, and he was a proud Ass that day.  In his delight he lifted up his voice and brayed, but then every one knew him, and his owner came up and gave him a sound cudgelling for the fright he had caused.  And shortly afterwards a Fox came up to him and said: "Ah, I knew you by your voice."

Fine clothes may disguise, but

silly words will disclose a fool.

Wednesday, 5 August 2015

Sonnet by Alphonsus de Guimaraens (in Portuguese)

Negro navio que se fez ao largo,
Velas pandas ao vento do nordeste,
Volta de novo este pesar amargo
Que foi todo consolo que me deste.

Pisando espinhos, no letal letargo
De quem segue por uma noite agreste,
Sou o cruzado que vai sobre o mar largo
Morrer de mágua, e fome, e guerra, e peste.

Não mais jasmins neste horto do meu peito.
Ouve-me tu, que ainda és uma criança;
É um sepulcro de vivos todo leito.

Tudo espero de ti, alma querida;
Mas não sabes, Senhora, que a esperança
É o maior desespero desta vida!

Tuesday, 4 August 2015

"Double Villanelle" by Oscar Wilde (in English)

I.
O goat-foot God of Arcady!
This modern world is grey and old,
And what remains to us of thee?

No more the shepherd lads in glee
Throw apples at thy wattled fold,
O goat-foot God of Arcady!

Nor through the laurels can one see
Thy soft brown limbs, thy beard of gold
And what remains to us of thee?

And dull and dead our Thames would be,
For here the winds are chill and cold,
O goat-loot God of Arcady!

Then keep the tomb of Helice,
Thine olive-woods, thy vine-clad wold,
And what remains to us of thee?

Though many an unsung elegy
Sleeps in the reeds our rivers hold,
O goat-foot God of Arcady!
Ah, what remains to us of thee?


II.
Ah, leave the hills of Arcady,
Thy satyrs and their wanton play,
This modern world hath need of thee.

No nymph or Faun indeed have we,
For Faun and nymph are old and grey,
Ah, leave the hills of Arcady!

This is the land where liberty
Lit grave-browed Milton on his way,
This modern world hath need of thee!

A land of ancient chivalry
Where gentle Sidney saw the day,
Ah, leave the hills of Arcady!

This fierce sea-lion of the sea,
This England lacks some stronger lay,
This modern world hath need of thee!

Then blow some trumpet loud and free,
And give thine oaten pipe away,
Ah, leave the hills of Arcady!
This modern world hath need of thee!