Friday, 4 September 2015

“The Divine Comedy” by Dante Alighieri (Inferno: Canto XXV) (in Italian)



Inferno: Canto XXV

Al fine de le sue parole il ladro
  le mani alzo` con amendue le fiche,
  gridando: <<Togli, Dio, ch'a te le squadro!>>.

Da indi in qua mi fuor le serpi amiche,
  perch'una li s'avvolse allora al collo,
  come dicesse 'Non vo' che piu` diche';

e un'altra a le braccia, e rilegollo,
  ribadendo se' stessa si` dinanzi,
  che non potea con esse dare un crollo.

Ahi Pistoia, Pistoia, che' non stanzi
  d'incenerarti si` che piu` non duri,
  poi che 'n mal fare il seme tuo avanzi?

Per tutt'i cerchi de lo 'nferno scuri
  non vidi spirto in Dio tanto superbo,
  non quel che cadde a Tebe giu` da' muri.

El si fuggi` che non parlo` piu` verbo;
  e io vidi un centauro pien di rabbia
  venir chiamando: <<Ov'e`, ov'e` l'acerbo?>>.

Maremma non cred'io che tante n'abbia,
  quante bisce elli avea su per la groppa
  infin ove comincia nostra labbia.

Sovra le spalle, dietro da la coppa,
  con l'ali aperte li giacea un draco;
  e quello affuoca qualunque s'intoppa.

Lo mio maestro disse: <<Questi e` Caco,
  che sotto 'l sasso di monte Aventino
  di sangue fece spesse volte laco.

Non va co' suoi fratei per un cammino,
  per lo furto che frodolente fece
  del grande armento ch'elli ebbe a vicino;

onde cessar le sue opere biece
  sotto la mazza d'Ercule, che forse
  gliene die` cento, e non senti` le diece>>.

Mentre che si` parlava, ed el trascorse
  e tre spiriti venner sotto noi,
  de' quali ne' io ne' 'l duca mio s'accorse,

se non quando gridar: <<Chi siete voi?>>;
  per che nostra novella si ristette,
  e intendemmo pur ad essi poi.

Io non li conoscea; ma ei seguette,
  come suol seguitar per alcun caso,
  che l'un nomar un altro convenette,

dicendo: <<Cianfa dove fia rimaso?>>;
  per ch'io, accio` che 'l duca stesse attento,
  mi puosi 'l dito su dal mento al naso.

Se tu se' or, lettore, a creder lento
  cio` ch'io diro`, non sara` maraviglia,
  che' io che 'l vidi, a pena il mi consento.

Com'io tenea levate in lor le ciglia,
  e un serpente con sei pie` si lancia
  dinanzi a l'uno, e tutto a lui s'appiglia.

Co' pie` di mezzo li avvinse la pancia,
  e con li anterior le braccia prese;
  poi li addento` e l'una e l'altra guancia;

li diretani a le cosce distese,
  e miseli la coda tra 'mbedue,
  e dietro per le ren su` la ritese.

Ellera abbarbicata mai non fue
  ad alber si`, come l'orribil fiera
  per l'altrui membra avviticchio` le sue.

Poi s'appiccar, come di calda cera
  fossero stati, e mischiar lor colore,
  ne' l'un ne' l'altro gia` parea quel ch'era:

come procede innanzi da l'ardore,
  per lo papiro suso, un color bruno
  che non e` nero ancora e 'l bianco more.

Li altri due 'l riguardavano, e ciascuno
  gridava: <<Ome`, Agnel, come ti muti!
  Vedi che gia` non se' ne' due ne' uno>>.

Gia` eran li due capi un divenuti,
  quando n'apparver due figure miste
  in una faccia, ov'eran due perduti.

Fersi le braccia due di quattro liste;
  le cosce con le gambe e 'l ventre e 'l casso
  divenner membra che non fuor mai viste.

Ogne primaio aspetto ivi era casso:
  due e nessun l'imagine perversa
  parea; e tal sen gio con lento passo.

Come 'l ramarro sotto la gran fersa
  dei di` canicular, cangiando sepe,
  folgore par se la via attraversa,

si` pareva, venendo verso l'epe
  de li altri due, un serpentello acceso,
  livido e nero come gran di pepe;

e quella parte onde prima e` preso
  nostro alimento, a l'un di lor trafisse;
  poi cadde giuso innanzi lui disteso.

Lo trafitto 'l miro`, ma nulla disse;
  anzi, co' pie` fermati, sbadigliava
  pur come sonno o febbre l'assalisse.

Elli 'l serpente, e quei lui riguardava;
  l'un per la piaga, e l'altro per la bocca
  fummavan forte, e 'l fummo si scontrava.

Taccia Lucano ormai la` dove tocca
  del misero Sabello e di Nasidio,
  e attenda a udir quel ch'or si scocca.

Taccia di Cadmo e d'Aretusa Ovidio;
  che' se quello in serpente e quella in fonte
  converte poetando, io non lo 'nvidio;

che' due nature mai a fronte a fronte
  non trasmuto` si` ch'amendue le forme
  a cambiar lor matera fosser pronte.

Insieme si rispuosero a tai norme,
  che 'l serpente la coda in forca fesse,
  e il feruto ristrinse insieme l'orme.

Le gambe con le cosce seco stesse
  s'appiccar si`, che 'n poco la giuntura
  non facea segno alcun che si paresse.

Togliea la coda fessa la figura
  che si perdeva la`, e la sua pelle
  si facea molle, e quella di la` dura.

Io vidi intrar le braccia per l'ascelle,
  e i due pie` de la fiera, ch'eran corti,
  tanto allungar quanto accorciavan quelle.

Poscia li pie` di retro, insieme attorti,
  diventaron lo membro che l'uom cela,
  e 'l misero del suo n'avea due porti.

Mentre che 'l fummo l'uno e l'altro vela
  di color novo, e genera 'l pel suso
  per l'una parte e da l'altra il dipela,

l'un si levo` e l'altro cadde giuso,
  non torcendo pero` le lucerne empie,
  sotto le quai ciascun cambiava muso.

Quel ch'era dritto, il trasse ver' le tempie,
  e di troppa matera ch'in la` venne
  uscir li orecchi de le gote scempie;

cio` che non corse in dietro e si ritenne
  di quel soverchio, fe' naso a la faccia
  e le labbra ingrosso` quanto convenne.

Quel che giacea, il muso innanzi caccia,
  e li orecchi ritira per la testa
  come face le corna la lumaccia;

e la lingua, ch'avea unita e presta
  prima a parlar, si fende, e la forcuta
  ne l'altro si richiude; e 'l fummo resta.

L'anima ch'era fiera divenuta,
  suffolando si fugge per la valle,
  e l'altro dietro a lui parlando sputa.

Poscia li volse le novelle spalle,
  e disse a l'altro: <<I' vo' che Buoso corra,
  com'ho fatt'io, carpon per questo calle>>.

Cosi` vid'io la settima zavorra
  mutare e trasmutare; e qui mi scusi
  la novita` se fior la penna abborra.

E avvegna che li occhi miei confusi
  fossero alquanto e l'animo smagato,
  non poter quei fuggirsi tanto chiusi,

ch'i' non scorgessi ben Puccio Sciancato;
  ed era quel che sol, di tre compagni
  che venner prima, non era mutato;

l'altr'era quel che tu, Gaville, piagni.

Thursday, 3 September 2015

Wednesday, 2 September 2015

"La Vida es Sueño" by Pedro Calderón de la Barca (Third Act, first part) (in Spanish)



ACTO TERCERO
 [En la torre]
Sale CLARÍN
CLARÍN:        En una encantada torre,
            por lo que sé, vivo preso.
            ¿Qué me harán por lo que ignoro
            si por lo que sé me han muerto?
            ¡Que un hombre con tanta hambre
            viniese a morir viviendo!
            Lástima tengo de mí.
            Todos dirán:  "bien lo creo;"
            y bien se puede creer,
            pues para mí este silencio
            no conforma con el nombre
            Clarín, y callar no puedo.
            Quien me hace compañía
            aquí, si a decirlo acierto,
            son arañas y ratones.
            ¡Miren qué dulces jilgueros!
            De los sueños de esta noche
            la triste cabeza tengo
            llena de mil chirimías,
            de trompetas y embelecos,
            de procesiones, de cruces,
            de disciplinantes; y éstos
            unos suben, otros bajan,
            otros se desmayan, viendo
            la sangre que llevan otros;
            mas yo, la verdad diciendo,
            de no comer me desmayo;
            que en esta prisión me veo,
            donde ya todos los días
            en el filósofo leo
            Nicomedes, y las noches
            en el concilio Niceno.
            Si llaman santo al callar,
            como en calendario nuevo
            San Secreto es para mí,
            pues le ayuno y no le huelgo;
            aunque está bien merecido
            el castigo que padezco,
            pues callé, siendo crïado,
            que es el mayor sacrilegio.
                  Ruido de cajas y gente, y dicen dentro
SOLDADO 1º:         Ésta es la torre en que está.
            Echad la puerta en el suelo;
            entrad todos.
CLARÍN:                   ¡Vive Dios!
            Que a mí me buscan, es cierto,
            pues que dicen que aquí estoy.
            ¿Qué me querrán?
                    Salen los soldados que pudieren
SOLDADO 1º:              Entrad dentro.
SOLDADO 2º:    Aquí está.
CLARÍN:              No está.
TODOS:                     Señor...
CLARÍN:     (¿Si vienen borrachos éstos?) Aparte
SOLDADO 2º: Tú nuestro príncipe eres.
            Ni admitimos ni queremos
            sino al señor natural,
            y no príncipe extranjero.
            A todos nos da los pies.
TODOS:      ¡Viva el gran príncipe nuestro!
CLARÍN:     (¡Vive Dios, que va de veras!    
           Si es costumbre en este reino
            prender uno cada día
            y hacerle príncipe, y luego
            volverle a la torre?  Sí,
            pues cada día lo veo;
            fuerza es hacer mi papel). Aparte
TODOS:      Danos tus plantas.
CLARÍN:                       No puedo,
            porque las he menester
            para mí, y fuera defecto
            ser príncipe desplantado.
SOLDADO º:     Todos a tu padre mismo
            le dijimos que a ti solo
            por príncipe conocemos,
            no al de Moscovia.
CLARÍN:                  ¿A mi padre
            le perdisteis el respeto?
            Sois unos tales por cuales.
SOLDADO 1º:    Fue lealtad de nuestros pechos.
CLARÍN:     Si fue lealtad, yo os perdono.
SOLDADO 2º:    Sal a restaurar tu imperio.
            ¡Viva Segismundo!
TODOS:                   ¡Viva!
CLARÍN:     (¿Segismundo dicen?  ¡Bueno! ) Aparte
          ( Segismundo llaman todos los príncipes contrahechos).
                            Sale SEGISMUNDO
SEGISMUNDO: ¿Quién nombra aquí a Segismundo?
CLARÍN:     (¡Mas que soy príncipe huero!)  Aparte
SOLDADO 2': (Quién es Segismundo?
SEGISMUNDO:                     Yo.
SOLDADO 2º:    ¿Pues, cómo, atrevido y necio,
            tú te hacías Segismundo?
CLARÍN:     ¿Yo Segismundo?  Eso niego,
            que vosotros fuisteis quien
            me segismundeasteis, luego
            vuestra ha sido solamente
            necedad y atrevimiento.
SOLDADO 1º:    Gran príncipe Segismundo
            --que las señas que traemos
            tuyas son, aunque por fe
            te aclamamos señor nuestro--,
            tu padre, el gran rey Basilio,
            temeroso que los cielos
            cumplan un hado, que dice
            que ha de verse a tus pies puesto,
            vencido de ti, pretende
            quitarte acción y derecho
            y dársela a Astolfo, duque
            de Moscovia.  Para esto
            juntó su corte, y el vulgo,
            penetrando ya, y sabiendo
            que tiene rey natural,
            no quiere que un extranjero
            venga a mandarle.  Y así,
            haciendo noble desprecio
            de la inclemencia del hado,
            te ha buscado donde preso
            vives, para que valido
            de sus armas, y saliendo
            de esta torre a restaurar
            tu imperial corona y cetro,
            se la quites a un tirano.
            Sal, pues; que en ese desierto,
            ejército numeroso
            de bandidos y plebeyos
            te aclama.  La libertad
            te espera.  Oye sus acentos.
DENTRO:     ¡Viva Segismundo, viva!
SEGISMUNDO: ¿Otra vez?  ¿Qué es esto cielos?
            ¿Queréis que sueñe grandezas
            que ha de deshacer el tiempo?
            ¿Otra vez queréis que vea
            entre sombras y bosquejos
            la majestad y la pompa
            desvanecida del viento?
            ¿Otra vez queréis que toque
            el desengaño os el riesgo
            a que el humano poder
            nace humilde y vive atento?
            Pues no ha de ser, no ha de ser.
            Miradme otra vez sujeto
            a mi fortuna; y pues sé
            que toda esta vida es sueño,
            idos, sombras, que fingís
            hoy a mis sentidos muertos
            cuerpo y voz, siendo verdad
            que ni tenéis voz ni cuerpo;
            que no quiero majestades
            fingidas, pompas no quiero,
            fantásticas ilusiones
            que al soplo menos ligero
            del aura han de deshacerse,
            bien como el florido almendro,
            que por madrugar sus flores,
            sin aviso y sin consejo,
            al primero soplo se apagan,
            marchitando y desluciendo
            de sus rosados capillos
            belleza, luz y ornamento.
            Ya os conozco, ya os conozco,
            y sé que os pasa lo mismo
            con cualquiera que se duerme;
            para mí no hay fingimientos;
            que, desengañado ya,
            sé bien que la vida es sueño.
SOLDADO 2º:    Si piensas que te engañamos,
            vuelve a ese monte soberbio
            los ojos, para que veas
            la gente que aguarda en ellos
            para obedecerte.
SEGISMUNDO:                  Ya
            otra vez vi aquesto mesmo
            tan clara y distintamente
            como agora lo estoy viendo,
            y fue sueño.
SOLDADO 2º:                   Cosas grandes
            siempre, gran señor, trujeron
            anuncios; y esto sería,
            si lo soñaste primero.
SEGISMUNDO: Dices bien.  Anuncio fue
            y caso que fuese cierto,
            pues la vida es tan corta,
            soñemos, alma, soñemos
            otra vez; pero ha de ser
            con atención y consejo
            de que hemos de despertar
            de este gusto al mejor tiempo;
            que llevándolo sabido,
            será el desengaño menos;
            que es hacer burla del daño
            adelantarle el consejo.
            Y con esta prevención,
            de que cuando fuese cierto,
            es todo el poder prestado
            y ha de volverse a su dueño,
            atrevámonos a todo.
            Vasallos, yo os agradezco
            la lealtad; en mí lleváis
            quien os libre, osado y diestro,
            de extranjera esclavitud.
            Tocad al arma, que presto
            veréis mi inmenso valor.
            Contra mi padre pretendo
            tomar armas, y sacar
            verdaderos a los cielos.
            Presto he de verle a mis plantas...
            (Mas si antes de esto despierto,    Aparte
            (no ser  bien no decirlo,
            supuesto que no he de hacerlo?)
TODOS:      ¡Viva Segismundo, viva!
                             Sale CLOTALDO
CLOTALDO:   ¿Qué alboroto es éste, cielos?
SEGISMUNDO: Clotaldo.
CLOTALDO:             Señor...  (En mí   
            su rigor prueba). Aparte
CLARÍN:                  (Yo apuesto          
            que le despeña del monte). Aparte
                              Vase CLARÍN
CLOTALDO:   A tus reales plantas llego,
            ya sé que a morir.
SEGISMUNDO:              Levanta,
            levanta, padre, del suelo;
            que tú has de ser norte y guía
            de quien fíe mis aciertos;
            que ya sé que mi crïanza
            a tu mucha lealtad debo.
            Dame los brazos.
CLOTALDO:                ¿Qué dices?
SEGISMUNDO: Que estoy soñando, y que quiero
            obrar bien, pues no se pierde
            obrar bien, aun entre sueños.
CLOTALDO:   Pues, señor, si el obrar bien
            es ya tu blasón, es cierto
            que no te ofenda el que yo
            hoy solicite lo mesmo.
            ¡A tu padre has de hacer guerra!
            Yo aconsejarte no puedo
            contra mi rey, ni valerte.
            A tus plantas estoy puesto;
            dame la muerte.
SEGISMUNDO:              ¡Villano,
            traidor, ingrato!  (Mas, ¡cielos!, 
            reportarme me conviene,
            que aún no sé si estoy despierto).  Aparte
            Clotaldo, vuestro valor
            os envidio y agradezco.
            Idos a servir al rey
            que en el campo nos veremos.
            Vosotros, tocad al arma.
CLOTALDO:   Mil veces tus plantas beso.
SEGISMUNDO: A reinar, Fortuna, vamos;
            no me despiertes, si duermo,
            y si es verdad, no me duermas.
            Mas, sea verdad o sueño,
            obrar bien es lo que importa.
            Si fuere verdad, por serlo;
            si no, por ganar amigos
            para cuando despertemos.
                         Vanse y tocan al arma

Tuesday, 1 September 2015

Untitled Poem by José Thiesen (in Portuguese)

Mantenho-te sempre
Adiante de mim,
Radiante, como quando te vi primeiro,
Cálice de rubro amor
Onde se afoga meu
Silente canto dum afeto que não te fala.

Pária sou dos teus afetos,
Asco te causa meu toque,
Última dor de minha vida.
Longe de ti, fora de ti,
Onde estou é a sombra dum mundo.

Amanhã vou seguir triste
Num mundo de só tristeza e crises sombras
Sem ti, tenho que buscar a luz nas trevas.
E aí estás tu, feliz com teu amor.
Lacuna que dói, és um gáudio mortal, insuportável,
Mas que me força a olhar para longe, pra fora de mim,
Onde me encontro.

"The Ass, the Cock, and the Lion" by Aesop (translated into English)



       An Ass and a Cock were in a straw-yard together when a Lion, desperate from hunger, approached the spot. He was about to spring upon the Ass, when the Cock (to the sound of whose voice the Lion, it is said, has a singular aversion) crowed loudly, and the Lion fled away as fast as he could. The Ass, observing his trepidation at the mere crowing of a Cock summoned courage to attack him, and galloped after him for that purpose. He had run no long distance, when the Lion, turning about, seized him and tore him to pieces.

         False confidence often leads into danger.