Saturday 19 August 2017

Letter from Edith Stein to Pope Pius XI (translated into English by Mrs. Suzanne Batzdorff, Sr. Josephine Koeppel, and Rev. Dr. John Sullivan)



Holy Father!

As a child of the Jewish people who, by the grace of God, for the past eleven years has also been a child of the Catholic Church, I dare to speak to the Father of Christianity about that which oppresses millions of Germans. For weeks we have seen deeds perpetrated in Germany which mock any sense of justice and humanity, not to mention love of neighbor. For years the leaders of National Socialism have been preaching hatred of the Jews. Now that they have seized the power of government and armed their followers, among them proven criminal elements, this seed of hatred has germinated. The government has only recently admitted that excesses have occurred. To what extent, we cannot tell, because public opinion is being gagged. However, judging by what I have learned from personal relations, it is in no way a matter of singular exceptional cases. Under pressure from reactions abroad, the government has turned to "milder" methods. It has issued the watchword "no Jew shall have even one hair on his head harmed." But through boycott measures - by robbing people of their livelihood, civic honor and fatherland - it drives many to desperation; within the last week, through private reports I was informed of five cases of suicide as a consequence of these hostilities. I am convinced that this is a general condition which will claim many more victims. One may regret that these unhappy people do not have greater inner strength to bear their misfortune. But the responsibility must fall, after all, on those who brought them to this point and it also falls on those who keep silent in the face of such happenings.
            Everything that happened and continues to happen on a daily basis originates with a government that calls itself "Christian." For weeks not only Jews but also thousands of faithful Catholics in Germany, and, I believe, all over the world, have been waiting and hoping for the Church of Christ to raise its voice to put a stop to this abuse of Christ’s name. Is not this idolization of race and governmental power which is being pounded into the public consciousness by the radio open heresy? Isn't the effort to destroy Jewish blood an abuse of the holiest humanity of our Savior, of the most blessed Virgin and the apostles? Is not all this diametrically opposed to the conduct of our Lord and Savior, who, even on the cross, still prayed for his persecutors? And isn't this a black mark on the record of this Holy Year which was intended to be a year of peace and reconciliation?
            We all, who are faithful children of the Church and who see the conditions in Germany with open eyes, fear the worst for the prestige of the Church, if the silence continues any longer. We are convinced that this silence will not be able in the long run to purchase peace with the present German government. For the time being, the fight against Catholicism will be conducted quietly and less brutally than against Jewry, but no less systematically. It won't take long before no Catholic will be able to hold office in Germany unless he dedicates himself unconditionally to the new course of action.
            At the feet of your Holiness, requesting your apostolic blessing,

Dr. Edith Stein, Instructor at the German Institute for Scientific Pedagogy, Münster in Westphalia, Collegium Marianum.

Friday 18 August 2017

"Nem Eu" by Dorival Caymmi (in Portuguese)

Não fazes favor nenhum
Em gostar de alguém
Nem eu, nem eu, nem eu
Quem inventou o amor
Não fui eu
Não fui eu, não fui eu
Não fui eu nem ninguém
O amor acontece na vida
Estavas desprevenida
E por acaso eu também
E como o acaso é importante querida
De nossas vidas a vida
Fez um brinquedo também.


"Nem Eu" sung by Dorival Caymmi.

Thursday 17 August 2017

"Apparecchio alla Morte" by St Alfonso Maria de Liguori (in Italian) – XXVII

CONSIDERAZIONE XXVI - DELLE PENE DELL'INFERNO
«Et ibunt hi in supplicium aeternum» (Matth. 25. 46).

PUNTO I
              Due mali fa il peccatore, allorché pecca, lascia Dio sommo bene, e si rivolta alle creature: «Duo enim mala fecit populus meus, me dereliquerunt fontem aquae vivae, et foderunt sibi cisternas; cisternas dissipatas, quae continere non valent aquas» (Ier. 2. 13). Perché dunque il peccatore si volta alle creature con disgusto di Dio, giustamente nell'inferno sarà tormentato dalle stesse creature, dal fuoco e da' demonii, e questa è la pena del senso. Ma perché la sua colpa maggiore, dove consiste il peccato, è il voltare le spalle a Dio, perciò la pena principale che sarà nell'inferno, sarà la pena del danno. Ch'é1 la pena d'aver perduto Dio.
              Consideriamo prima la pena del senso. È di fede che vi è l'inferno. In mezzo alla terra vi è questa prigione riservata al castigo de' ribelli di Dio. Che cosa è questo inferno? è il luogo de' tormenti. «In hunc locum tormentorum», così chiamò l'inferno l'Epulone dannato (Luca 16. 28). Luogo di tormenti, dove tutti i sensi e le potenze del dannato hanno da avere il lor proprio tormento; e quanto più alcuno in un senso avrà offeso Dio, tanto più in quel senso avrà da esser tormentato: «Per quae peccat quis, per haec et torquetur» (Sap. 11. 17). «Quantum in deliciis fuit, tantum date illi tormentum» (Apoc. 18. 7). Sarà tormentata la vista colle tenebre. «Terram tenebrarum, et opertam mortis caligine» (Iob. 10. 21). Che compassione fa il sentire che un pover'uomo sta chiuso in una fossa oscura per mentre vive, per 40-50 anni di vita! L'inferno è una fossa chiusa da tutte le parti dove non entrerà mai raggio di sole o d'altra luce. «Usque in aeternum non videbit lumen» (Psal. 48. 20). Il fuoco che sulla terra illumina, nell'inferno sarà tutt'oscuro. «Vox Domini intercidentis flammam ignis» (Psal. 28. 7). Spiega S. Basilio: Il Signore dividerà dal fuoco la luce, onde tal fuoco farà solamente l'officio di bruciare, ma non d'illuminare; e lo spiega più in breve Alberto Magno: «Dividet a calore splendorem». Lo stesso fumo che uscirà da questo fuoco, componerà quella procella di tenebre, di cui parla S. Giacomo, che accecherà gli occhi de' dannati: «Quibus procella tenebrarum servata est in aeternum» (Iac. 2. 13). Dice S. Tommaso (3. p. q. 97. n. 4), che a' dannati è riservato tanto di luce solamente, quanto basta a più tormentarli. «Quantum sufficit ad videndum illa, quae torquere possunt». Vedranno in quel barlume di luce la bruttezza degli altri reprobi e de' demoni, che prenderanno forme orrende per più spaventarli.
                Sarà tormentato l'odorato. Che pena sarebbe trovarsi chiuso in una stanza con un cadavere fracido? «De cadaveribus eorum ascendit foetor» (Is. 34. 3). Il dannato ha da stare in mezzo a tanti milioni d'altri dannati, vivi alla pena, ma cadaveri per la puzza che mandano. Dice S. Bonaventura che se un corpo d'un dannato fosse cacciato dall'inferno, basterebbe a far morire per la puzza tutti gli uomini. E poi dicono alcuni pazzi: Se vado all'inferno, non sono solo. Miseri! quanti più sono nell'inferno, tanto più penano. «Ibi (dice S. Tommaso) miserorum societas miseriam non minuet, sed augebit» (S. Thom. Suppl. q. 89. a. 1). Più penano (dico) per la puzza, per le grida e per la strettezza; poiché staran nell'inferno l'un sopra l'altro, come pecore ammucchiate in tempo d'inverno: «Sicut oves in inferno positi sunt» (Psal. 48. 15). Anzi più, staran come uve spremute sotto il torchio dell'ira di Dio. «Et ipse calcat torcular vini furoris irae Dei» (Apoc. 19. 15). Dal che ne avverrà poi la pena dell'immobilità. «Fiant immobiles quasi lapis» (Exod. 15. 16). Sicché il dannato siccome caderà nell'inferno nel giorno finale, così avrà da restare senza cambiare più sito e senza poter più muovere né un piede, né una mano, per mentre Dio sarà Dio.
              Sarà tormentato l'udito cogli urli continui e pianti di quei poveri disperati. I demonii faranno continui strepiti. «Sonitus terroris semper in aure eius» (Iob. 15. 21). Che pena è quando si vuol dormire e si sente un infermo che continuamente si lamenta, un cane che abbaia, o un fanciullo che piange? Miseri dannati, che han da sentire di continuo per tutta l'eternità quei rumori e le grida di quei tormentati! Sarà tormentata la gola colla fame; avrà il dannato una fame canina: «Famem patientur ut canes» (Psal. 58. 15). Ma non avrà mai una briciola di pane. Avrà poi una tale sete, che non gli basterebbe tutta l'acqua del mare; ma non ne avrà neppure una stilla: una stilla ne domandava l'Epulone, ma questa non l'ha avuta ancora, e non l'avrà mai, mai.

Affetti e preghiere
              Ah mio Signore, ecco a' piedi vostri chi ha fatto tanto poco conto della vostra grazia e de' vostri castighi. Povero me, se Voi, Gesù mio, non aveste avuto di me pietà, da quanti anni starei in quella fornace puzzolente, dove già vi stanno ad ardere tanti pari miei! Ah mio Redentore, come pensando a ciò non ardo del vostro amore? come potrò per l'avvenire pensare ad offendervi di nuovo! Ah non sia mai, Gesu-Cristo mio, fatemi prima mille volte morire. Giacché avete cominciato, compite l'opera. Voi mi avete cacciato dal lezzo di tanti miei peccati, e con tanto amore mi avete chiamato ad amarvi; deh fate ora che questo tempo che mi date, io lo spenda tutto per Voi. Quanto desidererebbero i dannati un giorno, un'ora del tempo che a me concedete; ed io che farò? seguirò a spenderlo in cose di vostro disgusto? No, Gesù mio, non lo permettete, per li meriti di quel sangue, che sinora m'ha liberato dall'inferno. V'amo, o sommo bene, e perché v'amo mi pento di avervi offeso; non voglio più offendervi, ma sempre amarvi.
              Regina e Madre mia Maria, pregate Gesù per me, ed ottenetemi il dono della perseveranza e del suo santo amore.



PUNTO II
              La pena poi che più tormenta il senso del dannato, è il fuoco del l'inferno, che tormenta il tatto. «Vindicta carnis impii ignis, et vermis» (Eccli. 7. 19). Che perciò il Signore nel giudizio ne fa special menzione: «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum» (Matth. 41). Anche in questa terra la pena del fuoco è la maggior di tutte; ma vi è tanta differenza dal fuoco nostro a quello dell'inferno, che dice S. Agostino che 'l nostro sembra dipinto. «In eius comparatione noster hic ignis depictus est». E S. Vincenzo Ferreri dice che a confronto il nostro è freddo. La ragione è, perché il fuoco nostro è creato per nostro utile, ma il fuoco dell'inferno è creato da Dio a posta per tormentare. «Longe alius (dice Tertulliano) est ignis, qui usui humano, alius qui Dei iustitiae deservit». Lo sdegno di Dio accende questo fuoco vendicatore. «Ignis succensus est in furore meo» (Ier. 15. 14). Quindi da Isaia il fuoco dell'inferno è chiamato spirito d'ardore: «Si abluerit Dominus sordes... in spiritu ardoris» (Is. 4). Il dannato sarà mandato non al fuoco, ma nel fuoco: «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum». Sicché il misero sarà circondato dal fuoco, come un legno dentro una fornace. Si troverà il dannato con un abisso di fuoco da sotto, un abisso di sopra, e un abisso d'intorno. Se tocca, se vede, se respira; non tocca, non vede, né respira altro che fuoco. Starà nel fuoco come il pesce nell'acqua. Ma questo fuoco non solamente starà d'intorno al dannato, ma entrerà anche dentro le sue viscere a tormentarlo. Il suo corpo diventerà tutto di fuoco, sicché bruceranno le viscere dentro del ventre, il cuore dentro del petto, le cervella dentro il capo, il sangue dentro le vene, anche le midolla dentro l'ossa: ogni dannato diventerà in se stesso una fornace di fuoco. «Pone eos ut clibanum ignis» (Ps. 20. 10). Taluni non possono soffrire di camminare per una via battuta dal sole, di stare in una stanza chiusa con una braciera, non soffrire una scintilla, che svola da una candela; e poi non temono quel fuoco, che divora, come dice Isaia: «Quis poterit habitare de vobis cum igne devorante?» (Is. 33. 14). Siccome una fiera divora un capretto, così il fuoco dell'inferno divora il dannato; lo divora, ma senza farlo mai morire. Siegui pazzo, dice S. Pier Damiani (parlando al disonesto), siegui a contentare la tua carne, che verrà un giorno in cui le tue disonestà diventeranno tutte pece nelle tue viscere, che farà più grande e più tormentosa la fiamma che ti brucerà nell'inferno: «Venit dies, imo nox, quando libido tua vertetur in picem, qua se nutriat perpetuus ignis in tuis visceribus» (S. P. Dam. Epist. 6). Aggiunge S. Girolamo (Epist. ad Pam.) che questo fuoco porterà seco tutti i tormenti e dolori che si patiscono in questa terra; dolori di fianco e di testa, di viscere, di nervi: «In uno igne omnia supplicia sentiunt in inferno peccatores». In questo fuoco vi sarà anche la pena del freddo. «Ad nimium calorem transeat ab aquis nivium» (Iob. 24. 19). Ma sempre bisogna intendere che tutte le pene di questa terra sono un'ombra, come dice il Grisostomo, a paragone delle pene dell'inferno: «Pone ignem, pone ferrum, quid, nisi umbra ad illa tormenta?»
              Le potenze anche avranno il lor proprio tormento. Il dannato sarà tormentato nella memoria, col ricordarsi del tempo che ha avuto in questa vita per salvarsi, e l'ha speso per dannarsi; e delle grazie che ha ricevute da Dio, e non se ne ha voluto servire. Nell'intelletto, col pensare al gran bene che ha perduto, paradiso e Dio; e che a questa perdita non vi è più rimedio. Nella volontà, in vedere che gli sarà negata sempre ogni cosa che domanda. «Desiderium peccatorum peribit» (Ps. 111. 10). Il misero non avrà mai niente di quel che desidera, ed avrà sempre tutto quello che abborrisce, che saranno le sue pene eterne. Vorrebbe uscir da' tormenti, e trovar pace, ma sarà sempre tormentato, e non avrà mai pace.

Affetti e preghiere
              Ah Gesù mio, il vostro sangue e la vostra morte sono la speranza mia. Voi siete morto, per liberare me dalla morte eterna. Ah Signore, e chi più ha partecipato de' meriti della vostra passione, che io miserabile, il quale tante volte mi ho meritato l'inferno? Deh non mi fate vivere più ingrato a tante grazie che mi avete fatte. Voi m'avete liberato dal fuoco dell'inferno, perché non volete ch'io arda in quel fuoco di tormento, ma arda del dolce fuoco dell'amor vostro. Aiutatemi dunque, acciocché io possa compiacere il vostro desiderio. Se ora stessi nell'inferno, non vi potrei più amare; ma giacché posso amarvi, io vi voglio amare. V'amo bontà infinita, v'amo mio Redentore, che tanto mi avete amato. Come ho potuto vivere tanto tempo scordato di Voi! Vi ringrazio che Voi non vi siete scordato di me. Se di me vi foste scordato, o starei al presente nell'inferno, o non avrei dolore de' miei peccati. Questo dolore che mi sento nel cuore di avervi offeso, questo desiderio che provo di amarvi assai, son doni della vostra grazia, che ancora mi assiste. Ve ne ringrazio, Gesù mio. Spero per l'avvenire di dare a Voi la vita che mi resta. Rinunzio a tutto. Voglio solo pensare a servirvi e darvi gusto. Ricordatemi sempre l'inferno che mi ho meritato, e le grazie che mi avete fatte; e non permettete ch'io abbia un'altra volta a voltarvi le spalle, ed a condannarmi da me stesso a questa fossa di tormenti.
              O Madre di Dio, pregate per me peccatore. La vostra intercessione m'ha liberato dall'inferno, con questa ancora liberatemi, o Madre mia, dal peccato, che solo può condannarmi di nuovo all'inferno.

PUNTO III
              Ma tutte queste pene son niente a rispetto della pena del danno. Non fanno l'inferno le tenebre, la puzza, le grida e 'l fuoco; la pena che fa l'inferno è la pena di aver perduto Dio. Dice S. Brunone: «Addantur tormenta tormentis, ac Deo non priventur» (Serm. de Iud. fin.). E S. Gio. Grisostomo: «Si mille dixeris gehennas, nihil par dices illius doloris» (Hom. 49. ad Pop.). Ed aggiunge S. Agostino che se i dannati godessero la vista di Dio, «nullam poenam sentirent, et infernus ipse verteretur in paradisum» (S. Aug. to. 9. de Tripl. hab.). Per intendere qualche cosa di questa pena, si consideri che se taluno perde (per esempio) una gemma, che valea 100 scudi, sente gran pena, ma se valea 200 sente doppia pena: se 400 più pena. In somma quanto cresce il valore della cosa perduta, tanto cresce la pena. Il dannato qual bene ha perduto? un bene infinito, ch'è Dio; onde dice S. Tommaso che sente una pena in certo modo infinita: «Poena damnati est infinita, quia est amissio boni infiniti» (D. Th. 1. 2. q. 87. a. 4).
              Questa pena ora solo si teme da' santi. «Haec amantibus, non contemnentibus poena est», dice S. Agostino. S. Ignazio di Loiola dicea: Signore, ogni pena sopporto, ma questa no, di star privo di Voi. Ma questa pena niente si apprende da' peccatori, che si contentano di vivere i mesi e gli anni senza Dio, perché i miseri vivono fra le tenebre. In morte non però han da conoscere il gran bene che perdono. L'anima in uscire da questa vita, come dice S. Antonino, subito intende ch'ella è creata per Dio: «Separata autem anima a corpore intelligit Deum summum bonum et ad illud esse creatam». Onde subito si slancia per andare ad abbracciarsi col suo sommo bene; ma stando in peccato, sarà da Dio discacciata. Se un cane vede la lepre, ed uno lo tiene con una catena, che forza fa il cane per romper la catena ed andare a pigliar la preda? L'anima in separarsi dal corpo, naturalmente è tirata a Dio, ma il peccato la divide da Dio, e la manda lontana all'inferno. «Iniquitates vestrae diviserunt inter vos, et Deum vestrum» (Is. 59. 2). Tutto l'inferno dunque consiste in quella prima parola della condanna: «Discedite a me, maledicti». Andate, dirà Gesu-Cristo, non voglio che vediate più la mia faccia. «Si mille quis ponat gehennas, nihil tale dicturus est, quale est exosum esse Christo» (Chrysost. hom. 24. in Matth.). Allorché Davide condannò Assalonne a non comparirgli più davanti, fu tale questa pena ad Assalonne che rispose: Dite a mio padre, che o mi permetta di vedere la sua faccia o mi dia la morte (2. Reg. 14. 24). Filippo II ad un grande che vide stare irriverente in chiesa, gli disse: Non mi comparite più davanti. Fu tanta la pena di quel grande, che giunto alla casa se ne morì di dolore. Che sarà, quando Dio in morte intimerà al reprobo: Va via che io non voglio vederti più. «Abscondam faciem ab eo, et invenient eum omnia mala» (Deut. 31. 17). Voi (dirà Gesù a' dannati nel giorno finale) non siete più miei, io non sono più vostro. «Voca nomen eius, non populus meus, quia vos non populus meus, et ego non ero vester» (Osea 1. 9).
              Che pena è ad un figlio, a cui gli muore il padre, o ad una moglie quando le muore lo sposo, il dire: Padre mio, sposo mio, non t'ho da vedere più. Ah se ora udissimo un'anima dannata che piange, e le chiedessimo: Anima, perché piangi tanto? Questo solo ella risponderebbe: Piango, perché ho perduto Dio, e non l'ho da vedere più. Almeno potesse la misera nell'inferno amare il suo Dio, e rassegnarsi alla sua volontà. Ma no; se potesse ciò fare, l'inferno non sarebbe inferno; l'infelice non può rassegnarsi alla volontà di Dio, perché è fatta nemica della divina volontà. Né può amare più il suo Dio, ma l'odia e l'odierà per sempre; e questo sarà il suo inferno, il conoscere che Dio è un bene sommo e il vedersi poi costretto ad odiarlo, nello stesso tempo che lo conosce degno d'infinito amore. «Ego sum ille nequam privatus amore Dei», così rispose quel demonio, interrogato chi fosse da S. Caterina da Genova. Il dannato odierà e maledirà Dio, e maledicendo Dio, maledirà anche i beneficii che gli ha fatti, la creazione, la redenzione, i sagramenti, specialmente del battesimo e della penitenza, e sopra tutto il SS. Sagramento dell'altare. Odierà tutti gli angeli e santi ma specialmente l'angelo suo custode e i santi suoi avvocati, e più di tutti la divina Madre; ma principalmente maledirà le tre divine Persone, e fra queste singolarmente il Figlio di Dio, che un giorno è morto per la di lei salute, maledicendo le sue piaghe, il suo sangue, le sue pene e la sua morte.

Affetti e preghiere
              Ah mio Dio, Voi dunque siete il mio sommo bene, bene infinito, ed io volontariamente tante volte v'ho perduto. Sapeva io già che col mio peccato vi dava un gran disgusto, e che perdeva la vostra grazia, e l'ho fatto? Ah che se non vi vedessi trafitto in croce, o Figlio di Dio, morire per me, non avrei più animo di cercarvi e di sperare da Voi perdono. Eterno Padre, non guardate me, guardate questo amato Figlio, che vi cerca per me pietà; esauditelo, e perdonatemi. A quest'ora dovrei star nell'inferno da tanti anni senza speranza di potervi più amare, e di ricuperare la vostra grazia perduta. Dio mio, mi pento sopra ogni male di quest'ingiuria che v'ho fatta, di rinunziare alla vostr'amicizia e di disprezzare il vostro amore per li gusti miserabili di questa terra. Oh fossi morto prima mille volte! Come ho potuto essere così cieco e così pazzo! Vi ringrazio, Signor mio, che mi date tempo di poter rimediare al mal fatto. Giacché per misericordia vostra sto fuori dell'inferno, e vi posso amare, Dio mio, vi voglio amare. Non voglio più differire di convertirmi tutto a Voi. V'amo bontà infinita, v'amo mia vita, mio tesoro, mio amore, mio tutto. Ricordatemi sempre, o Signore, l'amore che mi avete portato, e l'inferno dove dovrei stare; acciocché questo pensiero mi accenda sempre a farvi atti d'amore e a dirvi sempre: io v'amo, io v'amo, io v'amo.
              O Maria Regina, speranza e Madre mia, se stessi nell'inferno, neppure potrei amar più Voi. V'amo Madre mia, e a Voi confido di non lasciare più d'amar Voi e 'l mio Dio. Aiutatemi, pregate Gesù per me.

Wednesday 16 August 2017

“Hypnos” by H. P. Lovecraft (in English)



Apropos of sleep, that sinister adventure of all our nights, we may say that men go to bed daily with an audacity that would be incomprehensible if we did not know that it is the result of ignorance of the danger.
—Baudelaire


May the merciful gods, if indeed there be such, guard those hours when no power of the will, or drug that the cunning of man devises, can keep me from the chasm of sleep. Death is merciful, for there is no return therefrom, but with him who has come back out of the nethermost chambers of night, haggard and knowing, peace rests nevermore. Fool that I was to plunge with such unsanctioned frensy into mysteries no man was meant to penetrate; fool or god that he was—my only friend, who led me and went before me, and who in the end passed into terrors which may yet be mine!
            We met, I recall, in a railway station, where he was the center of a crowd of the vulgarly curious. He was unconscious, having fallen in a kind of convulsion which imparted to his slight black-clad body a strange rigidity. I think he was then approaching forty years of age, for there were deep lines in the face, wan and hollow-cheeked, but oval and actually beautiful; and touches of gray in the thick, waving hair and small full beard which had once been of the deepest raven black. His brow was white as the marble of Pentelicus, and of a height and breadth almost god-like.
            I said to myself, with all the ardor of a sculptor, that this man was a faun's statue out of antique Hellas, dug from a temple's ruins and brought somehow to life in our stifling age only to feel the chill and pressure of devastating years. And when he opened his immense, sunken, and wildly luminous black eyes I knew he would be thenceforth my only friend - the only friend of one who had never possessed a friend before - for I saw that such eyes must have looked fully upon the grandeur and the terror of realms beyond normal consciousness and reality; realms which I had cherished in fancy, but vainly sought. So as I drove the crowd away I told him he must come home with me and be my teacher and leader in unfathomed mysteries, and he assented without speaking a word. Afterward I found that his voice was music - the music of deep viols and of crystalline spheres. We talked often in the night, and in the day, when I chiseled busts of him and carved miniature heads in ivory to immortalize his different expressions.
            Of our studies it is impossible to speak, since they held so slight a connection with anything of the world as living men conceive it. They were of that vaster and more appalling universe of dim entity and consciousness which lies deeper than matter, time, and space, and whose existence we suspect only in certain forms of sleep - those rare dreams beyond dreams which come never to common men, and but once or twice in the lifetime of imaginative men. The cosmos of our waking knowledge, born from such an universe as a bubble is born from the pipe of a jester, touches it only as such a bubble may touch its sardonic source when sucked back by the jester's whim. Men of learning suspect it little and ignore it mostly. Wise men have interpreted dreams, and the gods have laughed. One man with Oriental eyes has said that all time and space are relative, and men have laughed. But even that man with Oriental eyes has done no more than suspect. I had wished and tried to do more than suspect, and my friend had tried and partly succeeded. Then we both tried together, and with exotic drugs courted terrible and forbidden dreams in the tower studio chamber of the old manor-house in hoary Kent.
            Among the agonies of these after days is that chief of torments - inarticulateness. What I learned and saw in those hours of impious exploration can never be told - for want of symbols or suggestions in any language. I say this because from first to last our discoveries partook only of the nature of sensations; sensations correlated with no impression which the nervous system of normal humanity is capable of receiving. They were sensations, yet within them lay unbelievable elements of time and space - things which at bottom possess no distinct and definite existence. Human utterance can best convey the general character of our experiences by calling them plungings or soarings; for in every period of revelation some part of our minds broke boldly away from all that is real and present, rushing aerially along shocking, unlighted, and fear-haunted abysses, and occasionally tearing through certain well-marked and typical obstacles describable only as viscous, uncouth clouds of vapors.
            In these black and bodiless flights we were sometimes alone and sometimes together. When we were together, my friend was always far ahead; I could comprehend his presence despite the absence of form by a species of pictorial memory whereby his face appeared to me, golden from a strange light and frightful with its weird beauty, its anomalously youthful cheeks, its burning eyes, its Olympian brow, and its shadowing hair and growth of beard.
            Of the progress of time we kept no record, for time had become to us the merest illusion. I know only that there must have been something very singular involved, since we came at length to marvel why we did not grow old. Our discourse was unholy, and always hideously ambitious - no god or demon could have aspired to discoveries and conquest like those which we planned in whispers. I shiver as I speak of them, and dare not be explicit; though I will say that my friend once wrote on paper a wish which he dared not utter with his tongue, and which made me burn the paper and look affrightedly out of the window at the spangled night sky. I will hint - only hint - that he had designs which involved the rulership of the visible universe and more; designs whereby the earth and the stars would move at his command, and the destinies of all living things be his. I affirm - I swear - that I had no share in these extreme aspirations. Anything my friend may have said or written to the contrary must be erroneous, for I am no man of strength to risk the unmentionable spheres by which alone one might achieve success.
            There was a night when winds from unknown spaces whirled us irresistibly into limitless vacum beyond all thought and entity. Perceptions of the most maddeningly untransmissible sort thronged upon us; perceptions of infinity which at the time convulsed us with joy, yet which are now partly lost to my memory and partly incapable of presentation to others. Viscous obstacles were clawed through in rapid succession, and at length I felt that we had been borne to realms of greater remoteness than any we had previously known.
            My friend was vastly in advance as we plunged into this awesome ocean of virgin aether, and I could see the sinister exultation on his floating, luminous, too-youthful memory-face. Suddenly that face became dim and quickly disappeared, and in a brief space I found myself projected against an obstacle which I could not penetrate. It was like the others, yet incalculably denser; a sticky clammy mass, if such terms can be applied to analogous qualities in a non-material sphere.
            I had, I felt, been halted by a barrier which my friend and leader had successfully passed. Struggling anew, I came to the end of the drug-dream and opened my physical eyes to the tower studio in whose opposite corner reclined the pallid and still unconscious form of my fellow dreamer, weirdly haggard and wildly beautiful as the moon shed gold-green light on his marble features.
            Then, after a short interval, the form in the corner stirred; and may pitying heaven keep from my sight and sound another thing like that which took place before me. I cannot tell you how he shrieked, or what vistas of unvisitable hells gleamed for a second in black eyes crazed with fright. I can only say that I fainted, and did not stir till he himself recovered and shook me in his frensy for someone to keep away the horror and desolation.
            That was the end of our voluntary searchings in the caverns of dream. Awed, shaken, and portentous, my friend who had been beyond the barrier warned me that we must never venture within those realms again. What he had seen, he dared not tell me; but he said from his wisdom that we must sleep as little as possible, even if drugs were necessary to keep us awake. That he was right, I soon learned from the unutterable fear which engulfed me whenever consciousness lapsed.
            After each short and inevitable sleep I seemed older, whilst my friend aged with a rapidity almost shocking. It is hideous to see wrinkles form and hair whiten almost before one's eyes. Our mode of life was now totally altered. Heretofore a recluse so far as I know - his true name and origin never having passed his lips - my friend now became frantic in his fear of solitude. At night he would not be alone, nor would the company of a few persons calm him. His sole relief was obtained in revelry of the most general and boisterous sort; so that few assemblies of the young and gay were unknown to us.
            Our appearance and age seemed to excite in most cases a ridicule which I keenly resented, but which my friend considered a lesser evil than solitude. Especially was he afraid to be out of doors alone when the stars were shining, and if forced to this condition he would often glance furtively at the sky as if hunted by some monstrous thing therein. He did not always glance at the same place in the sky - it seemed to be a different place at different times. On spring evenings it would be low in the northeast. In the summer it would be nearly overhead. In the autumn it would be in the northwest. In winter it would be in the east, but mostly if in the small hours of morning.
            Midwinter evenings seemed least dreadful to him. Only after two years did I connect this fear with anything in particular; but then I began to see that he must be looking at a special spot on the celestial vault whose position at different times corresponded to the direction of his glance - a spot roughly marked by the constellation Corona Borealis.
            We now had a studio in London, never separating, but never discussing the days when we had sought to plumb the mysteries of the unreal world. We were aged and weak from our drugs, dissipations, and nervous overstrain, and the thinning hair and beard of my friend had become snow-white. Our freedom from long sleep was surprising, for seldom did we succumb more than an hour or two at a time to the shadow which had now grown so frightful a menace.
            Then came one January of fog and rain, when money ran low and drugs were hard to buy. My statues and ivory heads were all sold, and I had no means to purchase new materials, or energy to fashion them even had I possessed them. We suffered terribly, and on a certain night my friend sank into a deep-breathing sleep from which I could not awaken him. I can recall the scene now - the desolate, pitch-black garret studio under the eaves with the rain beating down; the ticking of our lone clock; the fancied ticking of our watches as they rested on the dressing-table; the creaking of some swaying shutter in a remote part of the house; certain distant city noises muffled by fog and space; and, worst of all, the deep, steady, sinister breathing of my friend on the couch—a rhythmical breathing which seemed to measure moments of supernal fear and agony for his spirit as it wandered in spheres forbidden, unimagined, and hideously remote.
            The tension of my vigil became oppressive, and a wild train of trivial impressions and associations thronged through my almost unhinged mind. I heard a clock strike somewhere - not ours, for that was not a striking clock - and my morbid fancy found in this a new starting-point for idle wanderings. Clocks – time – space – infinity - and then my fancy reverted to the locale as I reflected that even now, beyond the roof and the fog and the rain and the atmosphere, Corona Borealis was rising in the northeast. Corona Borealis, which my friend had appeared to dread, and whose scintillant semicircle of stars must even now be glowing unseen through the measureless abysses of aether. All at once my feverishly sensitive ears seemed to detect a new and wholly distinct component in the soft medley of drug-magnified sounds - a low and damnably insistent whine from very far away; droning, clamoring, mocking, calling, from the northeast.
            But it was not that distant whine which robbed me of my faculties and set upon my soul such a seal of fright as may never in life be removed; not that which drew the shrieks and excited the convulsions which caused lodgers and police to break down the door. It was not what I heard, but what I saw; for in that dark, locked, shuttered, and curtained room there appeared from the black northeast corner a shaft of horrible red-gold light - a shaft which bore with it no glow to disperse the darkness, but which streamed only upon the recumbent head of the troubled sleeper, bringing out in hideous duplication the luminous and strangely youthful memory-face as I had known it in dreams of abysmal space and unshackled time, when my friend had pushed behind the barrier to those secret, innermost and forbidden caverns of nightmare.
            And as I looked, I beheld the head rise, the black, liquid, and deep-sunken eyes open in terror, and the thin, shadowed lips part as if for a scream too frightful to be uttered. There dwelt in that ghastly and flexible face, as it shone bodiless, luminous, and rejuvenated in the blackness, more of stark, teeming, brain-shattering fear than all the rest of heaven and earth has ever revealed to me.
            No word was spoken amidst the distant sound that grew nearer and nearer, but as I followed the memory-face's mad stare along that cursed shaft of light to its source, the source whence also the whining came, I, too, saw for an instant what it saw, and fell with ringing ears in that fit of shrieking epilepsy which brought the lodgers and the police. Never could I tell, try as I might, what it actually was that I saw; nor could the still face tell, for although it must have seen more than I did, it will never speak again. But always I shall guard against the mocking and insatiate Hypnos, lord of sleep, against the night sky, and against the mad ambitions of knowledge and philosophy.
            Just what happened is unknown, for not only was my own mind unseated by the strange and hideous thing, but others were tainted with a forgetfulness which can mean nothing if not madness. They have said, I know not for what reason, that I never had a friend; but that art, philosophy, and insanity had filled all my tragic life. The lodgers and police on that night soothed me, and the doctor administered something to quiet me, nor did anyone see what a nightmare event had taken place. My stricken friend moved them to no pity, but what they found on the couch in the studio made them give me a praise which sickened me, and now a fame which I spurn in despair as I sit for hours, bald, gray-bearded, shriveled, palsied, drug-crazed, and broken, adoring and praying to the object they found.
            For they deny that I sold the last of my statuary, and point with ecstasy at the thing which the shining shaft of light left cold, petrified, and unvocal. It is all that remains of my friend; the friend who led me on to madness and wreckage; a godlike head of such marble as only old Hellas could yield, young with the youth that is outside time, and with beauteous bearded face, curved, smiling lips, Olympian brow, and dense locks waving and poppy-crowned. They say that that haunting memory-face is modeled from my own, as it was at twenty-five; but upon the marble base is carven a single name in the letters of Attica - HYPNOS.

Tuesday 15 August 2017

"The Book of Exodus" - the end (translated into English)



Chapter 40

1 Then the LORD said to Moses, 2 "On the first day of the first month you shall erect the Dwelling of the meeting tent. 3 Put the ark of the commandments in it, and screen off the ark with the veil. 4 Bring in the table and set it. Then bring in the lampstand and set up the lamps on it. 5 Put the golden altar of incense in front of the ark of the commandments, and hang the curtain at the entrance of the Dwelling. 6 Put the altar of holocausts in front of the entrance of the Dwelling of the meeting tent. 7 Place the laver between the meeting tent and the altar, and put water in it. 8 Set up the court round about, and put the curtain at the entrance of the court. 9 "Take the anointing oil and anoint the Dwelling and everything in it, consecrating it and all its furnishings, so that it will be sacred. 10 Anoint the altar of holocausts and all its appurtenances, consecrating it, so that it will be most sacred. 11 Likewise, anoint the laver with its base, and thus consecrate it. 12 "Then bring Aaron and his sons to the entrance of the meeting tent, and there wash them with water. 13 Clothe Aaron with the sacred vestments and anoint him, thus consecrating him as my priest. 14 Bring forward his sons also, and clothe them with the tunics. 15 As you have anointed their father, anoint them also as my priests. Thus, by being anointed, shall they receive a perpetual priesthood throughout all future generations."
16 Moses did exactly as the LORD had commanded him. 17 On the first day of the first month of the second year the Dwelling was erected. 18 It was Moses who erected the Dwelling. He placed its pedestals, set up its boards, put in its bars, and set up its columns. 19 He spread the tent over the Dwelling and put the covering on top of the tent, as the LORD had commanded him. 20 He took the commandments and put them in the ark; he placed poles alongside the ark and set the propitiatory upon it. 21 He brought the ark into the Dwelling and hung the curtain veil, thus screening off the ark of the commandments, as the LORD had commanded him. 22 He put the table in the meeting tent, on the north side of the Dwelling, outside the veil, 23 and arranged the bread on it before the LORD, as the LORD had commanded him. 24 He placed the lampstand in the meeting tent, opposite the table, on the south side of the Dwelling, 25 and he set up the lamps before the LORD, as the LORD had commanded him. 26 He placed the golden altar in the meeting tent, in front of the veil, 27 and on it he burned fragrant incense, as the LORD had commanded him. 28 He hung the curtain at the entrance of the Dwelling. 29 He put the altar of holocausts in front of the entrance of the Dwelling of the meeting tent, and offered holocausts and cereal offerings on it, as the LORD had commanded him. 30 He placed the laver between the meeting tent and the altar, and put water in it for washing. 31 Moses and Aaron and his sons used to wash their hands and feet there, 32 for they washed themselves whenever they went into the meeting tent or approached the altar, as the LORD had commanded Moses. 33 Finally, he set up the court around the Dwelling and the altar and hung the curtain at the entrance of the court. Thus Moses finished all the work.
            34 Then the cloud covered the meeting tent, and the glory of the LORD filled the Dwelling. 35 Moses could not enter the meeting tent, because the cloud settled down upon it and the glory of the LORD filled the Dwelling.
            36 Whenever the cloud rose from the Dwelling, the Israelites would set out on their journey. 37 But if the cloud did not lift, they would not go forward; only when it lifted did they go forward. 38 In the daytime the cloud of the LORD was seen over the Dwelling; whereas at night, fire was seen in the cloud by the whole house of Israel in all the stages of their journey.