Monday 28 August 2017

Saturday 26 August 2017

“The Boy and the Filberts “ by Aesop (translated into English).



A boy put his hand into a pitcher full of filberts. He grasped as many as he could possibly hold, but when he tried to pull out his hand, he was prevented from doing so by the neck of the pitcher. Unwilling to lose his filberts, and yet unable to withdraw his hand, he burst into tears and bitterly lamented his disappointment. A bystander said to him, "Be satisfied with half the quantity, and you will readily draw out your hand." 

            Do not attempt too much at once. 

Friday 25 August 2017

"Cachaça" by Mirabeau Pinheiro, Lúcio de Castro, and Heber Lobato (in Portuguese)

Você pensa que cachaça é água
Cachaça não é água não
Cachaça vem do alambique
E água vem do ribeirão

Pode me faltar tudo na vida
Arroz feijão e pão
Pode me faltar manteiga
E tudo mais não faz falta não
Pode me faltar o amor
Há, há, há, há!
Isto até acho graça
Só não quero que me falte
A danada da cachaça


"Cachaça" sung by Carmen Costa and Colé.

Thursday 24 August 2017

"Apparecchio alla Morte" by St Alfonso Maria de Liguori (in Italian) – XXVIII



CONSIDERAZIONE XXVII - DELL'ETERNITÀ DELL'INFERNO
«Et ibunt hi in supplicium aeternum» (Matth. 25. 46).

PUNTO I
              Se l'inferno non fosse eterno, non sarebbe inferno. Quella pena che non dura molto, non è gran pena. A quell'infermo si taglia una postema, a quell'altro si foca una cancrena; il dolore è grande, ma perché finisce tra poco, non è gran tormento. Ma qual pena sarebbe, se quel taglio o quell'operazione di fuoco continuasse per una settimana, per un mese intero? Quando la pena è assai lunga, ancorché sia leggiera, come un dolore d'occhi, un dolore di mole, si rende insopportabile. Ma che dico dolore? anche una commedia, una musica che durasse troppo, o fosse per tutto un giorno, non potrebbe soffrirsi per lo tedio. E se durasse un mese? un anno? Che sarà l'inferno? dove non si ascolta sempre la stessa commedia, o la stessa musica: non vi è solo un dolore d'occhi, o di mole: non si sente solamente il tormento d'un taglio, o di un ferro rovente, ma vi sono tutti i tormenti, tutti i dolori; e per quanto tempo? per tutta l'eternità: «Cruciabuntur die ac nocte in saecula saeculorum» (Apoc. 20. 10).
              Quest'eternità è di fede; non è già qualche opinione, ma è verità attestataci da Dio in tante Scritture: «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum» (Matth. 25. 41). «Et hi ibunt in supplicium aeternum» (Ibid. num. 46). «Poenas dabunt in interitu aeternas» (2. Thess. 1. 9). «Omnis igne salietur» (Marc. 9. 48). Siccome il sale conserva le cose, così il fuoco dell'inferno nello stesso tempo che tormenta i dannati, fa l'officio di sale conservando loro la vita. «Ignis ibi consumit (dice S. Bernardo), ut semper reservet» (Medit. cap. 3).
              Or qual pazzia sarebbe quella di taluno, che per pigliarsi una giornata di spasso, si volesse condannare a star chiuso in una fossa per venti, o trenta anni? Se l'inferno durasse cent'anni; che dico cento? durasse non più che due o tre anni, pure sarebbe una gran pazzia, per un momento di vil piacere, condannarsi a due o tre anni di fuoco. Ma non si tratta di trenta, di cento, né di mille, né di cento mila anni; si tratta d'eternità, si tratta di patire per sempre gli stessi tormenti, che non avranno mai da finire, né da alleggerirsi un punto. Hanno avuto ragione dunque i santi, mentre stavano in vita, ed anche in pericolo di dannarsi, di piangere e tremare. Il B. Isaia anche mentre stava nel deserto tra digiuni e penitenze, piangeva dicendo: Ah misero me, che ancora non sono libero dal dannarmi! «Heu me miserum, quia nondum a gehennae igne sum liber!»

Affetti e preghiere
              Ah mio Dio, se mi aveste mandato all'inferno, come già più volte l'ho meritato, e poi me ne aveste cacciato per vostra misericordia, quanto ve ne sarei restato obbligato? ed indi qual vita santa avrei cominciato a fare? Ed ora che con maggior misericordia Voi mi avete preservato dal cadervi, che farò Tornerò ad offendervi e provocarvi a sdegno, affinché proprio mi mandiate ad ardere in quella carcere de' vostri ribelli, dove tanti già ardono per meno peccati de' miei? Ah mio Redentore, così ho fatto per lo passato; in vece di servirmi del tempo che mi davate per piangere i miei peccati, l'ho speso a più sdegnarvi. Ringrazio la vostra bontà infinita, che tanto mi ha sopportato. S'ella non era infinita, e come mai avrebbe potuto soffrirmi? Vi ringrazio dunque di avermi con tanta pazienza aspettato sinora; e vi ringrazio sommamente della luce che ora mi date, colla quale mi fate conoscere la mia pazzia e il torto che vi ho fatto in oltraggiarvi con tanti miei peccati. Gesù mio, li detesto e me ne pento con tutto il cuore; perdonatemi per la vostra passione; ed assistetemi colla vostra grazia, acciocché più non vi offenda. Giustamente or debbo temere che ad un altro peccato mortale Voi mi abbandoniate. Ah Signor mio, vi prego, mettetemi avanti gli occhi questo giusto timore, allorché il demonio mi tenterà di nuovo ad offendervi. Dio mio, io vi amo, né vi voglio più perdere; aiutatemi colla vostra grazia.
              Aiutatemi, o Vergine SS., fate ch'io sempre ricorra a Voi nelle mie tentazioni, acciocché non perda più Dio. Maria, Maria Voi siete la speranza mia.

1 [10.] intero) intiero ND1 VR BR1 BR2.
2 [27.] PS. BERNARDUS, Medit. piissimae de cognitione humanae conditionis, c. III, n. 10; PL 184, 491: «Sic enim ignis consumit, ut semper reservet; sic tormenta aguntur, ut semper renoventur» (cfr. Glorieux, 71).
3 [8.] SPANNER A., Polyanthea sacra, I, Venetiis 1709: «Me miserum! me miserum! quia nondum a gehennae igne sum liber: nondum mihi constat, quoniam hinc sim profecturus». Cfr. S. ISAIAS Ab., Orationes, or. XIV, n. I; PG 40, 1139: «Me miserum, me miserum, quia nondum a gehennae igne sum liber. Qui ad illam homines detrahunt, adhuc in me operantur: et omnia opera eius moventur in corde meo». Alcuni scrivono anche: Esaias.
4 [5.] Maria, om. una volta in BR1 BR2.


PUNTO II
              Chi entra una volta nell'inferno, di là non uscirà più in eterno. Questo pensiero facea tremare Davide, dicendo: «Neque absorbeat me profundum, neque urgeat super me puteus os suum» (Ps. 68. 16). Caduto ch'è il dannato in quel pozzo di tormenti, si chiude la bocca e non si apre più. Nell'inferno v'è porta per entrare, ma non v'è porta per uscire: «Descensus erit (dice Eusebio Emisseno), ascensus non erit». E così spiega le parole del Salmista: «Neque urgeat os suum; quia cum susceperit eos, claudetur sursum, et aperietur deorsum». Fintanto che il peccatore vive, sempre può avere speranza di rimedio, ma colto ch'egli sarà dalla morte in peccato, sarà finita per lui ogni speranza. «Mortuo homine impio, nulla erit ultra spes» (Prov. 11. 7). Almeno potessero i dannati lusingarsi con qualche falsa speranza, e così trovare qualche sollievo alla loro disperazione. Quel povero impiagato, confinato in un letto, è stato già disperato da' medici di poter guarire; ma pure si lusinga, e si consola con dire: Chi sa se appresso si troverà qualche medico e qualche rimedio che mi sani. Quel misero condannato alla galea in vita anche si consola, dicendo: Chi sa che può succedere, e mi libero da queste catene. Almeno (dico) potesse il dannato dire similmente così, chi sa se un giorno uscirò da questa prigione; e così potesse ingannarsi almeno con questa falsa speranza. No, nell'inferno non v'è alcuna speranza né vera né falsa, non vi è «chi sa». «Statuam contra faciem» (Ps. 49. 21). Il misero si vedrà sempre innanzi agli occhi scritta la sua condanna, di dover sempre stare a piangere in quella fossa di pene: «Alii in vitam aeternam, et alii in opprobrium, ut videant semper» (Dan. 12. 2). Onde il dannato non solo patisce quel che patisce in ogni momento, ma soffre in ogni momento la pena dell'eternità, dicendo: Quel che ora patisco, io l'ho da patire per sempre. «Pondus aeternitatis sustinet», dice Tertulliano.
              Preghiamo dunque il Signore, come pregava S. Agostino: «Hic ure, hic seca, hic non parcas, ut in aeternum parcas». I castighi di questa vita passano. «Sagittae tuae transeunt, vox tonitrui tui in rota» (Ps. 76. 18). Ma i castighi dell'altra vita non passano mai. Di questi temiamo; temiamo di quel tuono («vox tonitrui tui in rota»), s'intende di quel tuono della condanna eterna, che uscirà dalla bocca del giudice nel giudizio contro i reprobi: «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum». E dice, «in rota»; la ruota è figura dell'eternità, a cui non si trova termine. «Eduxi gladium meum de vagina sua irrevocabilem» (Ez. 21. 5). Sarà grande il castigo dell'inferno, ma ciò che più dee atterrirci, è che sarà castigo irrevocabile.
              Ma come, dirà un miscredente, che giustizia è questa? castigare un peccato che dura un momento con una pena eterna? Ma come (io rispondo) può aver l'ardire un peccatore per un gusto d'un momento offendere un Dio d'infinita maestà? Anche nel giudizio umano (dice S. Tommaso, I. 2. q. 87. a. 3) la pena non si misura secondo  la durazione del tempo, ma secondo la qualità del delitto: «Non quia homicidium in momento committitur, momentanea poena punitur». Ad un peccato mortale un inferno è poco: all'offesa d'una maestà infinita si dovrebbe un castigo infinito, dice S. Bernardino da Siena: «In omni peccato mortali infinita Deo contumelia irrogatur; infinitae autem iniuriae infinita debetur poena». Ma perché, dice l'Angelico la creatura non è capace di pena infinita nell'intensione, giustamente fa Dio che la sua pena sia infinita nella estensione.
              Oltreché questa pena dee esser necessariamente eterna, prima perché il dannato non può più soddisfare per la sua colpa. In questa vita intanto può soddisfare il peccator penitente, in quanto gli sono applicati i meriti di Gesu-Cristo; ma da questi meriti è escluso il dannato; onde non potendo egli placare più Dio, ed essendo eterno il suo peccato, eterna dee essere ancora la sua pena. «Non dabit Deo placationem suam, laborabit in aeternum» (Ps. 48. 8). Quindi dice il Belluacense (lib. 2. p. 3): «Culpa semper poterit ibi puniri, et nunquam poterit expiari»; poiché al dire di S. Antonino «ibi peccator poenitere non potest»; e perciò il Signore starà sempre con esso sdegnato. «Populus cui iratus est Dominus usque in aeternum» (Malach. 1. 4). Di più il dannato, benché Dio volesse perdonarlo, non vuol esser perdonato, perché la sua volontà è ostinata e confermata nell'odio contro Dio. Dice Innocenzo III: «Non humiliabuntur reprobi, sed malignitas odii in illis excrescet» (Lib. 3. de Cont. mundi c. 10). E S. Girolamo: «Insatiabiles sunt in desiderio peccandi» (In Proverb. 27). Ond'è che la piaga del dannato è disperata, mentre ricusa anche il guarirsi. «Factus est dolor eius perpetuus, et plaga desperabilis renuit curari» (Ier. 15. 18).

Affetti e preghiere
              Dunque, mio Redentore, se a quest'ora io fossi dannato, siccome ho meritato, starei ostinato nell'odio contro di Voi, mio Dio, che siete morto per me? Oh Dio, e qual inferno sarebbe questo, odiare Voi che mi avete tanto amato, e siete una bellezza infinita, una bontà infinita, degna d'infinito amore! Dunque, se ora stessi nell'inferno, starei in uno stato sì infelice, che neppure vorrei il perdono ch'ora Voi m'offerite? Gesù mio, vi ringrazio della pietà che m'avete usata, e giacché ora posso essere perdonato, e posso amarvi, io voglio esser perdonato e voglio amarvi. Voi m'offerite il perdono, ed io ve lo domando, e lo spero per li meriti vostri. Io mi pento di tutte l'offese che v'ho fatte, o bontà infinita, e Voi perdonatemi. Io v'amo con tutta l'anima mia. Ah Signore, e che male Voi mi avete fatto, che avessi ad odiarvi come mio nemico per sempre? E quale amico ho avuto io mai, che ha fatto e patito per me, quel che avete fatto e patito Voi, o Gesù mio? Deh non permettete ch'io cada più in disgrazia vostra, e perda il vostro amore; fatemi prima morire, ch'abbia a succedermi questa somma ruina.
              O Maria, chiudetemi sotto il vostro manto, e non permettete ch'io n'esca più a ribellarmi contro Dio e contro Voi.


PUNTO III
              La morte in questa vita è la cosa più temuta da peccatori, ma nell'inferno sarà la più desiderata. «Quaerent mortem, et non invenient; et desiderabunt mori, et mors fugiet ab eis» (Apoc. 9. 6). Onde scrisse S. Girolamo: «O mors quam dulcis esses, quibus tam amara fuisti!» (Ap. S. Bon. Soliloq.). Dice Davide che la morte si pascerà de' dannati: «Mors depascet eos» (Psal. 48. 15). Spiega S. Bernardo che siccome la pecora pascendosi dell'erba, si ciba delle frondi, ma lascia le radici, così la morte si pasce de' dannati, gli uccide ogni momento, ma lascia loro la vita per continuare ad ucciderli colla pena in eterno: «Sicut animalia depascunt herbas, sed remanent radices; sic miseri in inferno corrodentur a morte, sed iterum reservabuntur ad poenas». Sicché dice S. Gregorio che il dannato muore ogni momento senza mai morire: «Flammis ultricibus traditus semper morietur» (Lib. Mor. c. 12). Se un uomo muore ucciso dal dolore, ognuno lo compatisce; almeno il dannato avesse chi lo compatisse. No, muore il misero per lo dolore ogni momento, ma non ha, né avrà mai chi lo compatisca. Zenone imperadore, chiuso in una fossa, gridava: Apritemi per pietà. Non fu da niuno inteso, onde fu ritrovato morto da disperato, poiché si avea mangiate le stesse carni delle sue braccia. Gridano i presciti dalla fossa dell'inferno, dice S. Cirillo Alessandrino, ma niuno viene a cacciarneli, e niuno ne ha compassione: «Lamentantur, et nullus eripit; plangunt et nemo compatitur».
              E questa loro miseria per quanto tempo durerà? per sempre, per sempre. Narrasi negli Esercizi spirituali del P. Segneri Iuniore (scritti dal Muratori) che in Roma essendo dimandato il demonio, che stava nel corpo d'un ossesso, per quanto tempo doveva star nell'inferno; rispose con rabbia, sbattendo la mano su d'una sedia: «Sempre, sempre». Fu tanto lo spavento, che molti giovani del Seminario Romano, che ivi si trovavano, si fecero una confessione generale, e mutarono vita a questa gran predica di due parole: «Sempre, sempre». Povero Giuda! son passati già mille e settecento anni che sta nell'inferno, e l'inferno suo ancora è da capo. Povero Caino! egli sta nel fuoco da cinque mila e 700 anni, e l'inferno suo è da capo. Fu interrogato un altro demonio, da quanto tempo era andato all'inferno, e rispose: «Ieri». Come ieri, gli fu detto, se tu sei dannato da cinque mila e più anni? Rispose di nuovo: Oh se sapessivo che viene a dire eternità, bene intendereste che cinque mila anni non sono a paragone neppure un momento. Se un angelo dicesse ad un dannato: Uscirai dall'inferno, ma quando son passati tanti secoli, quante sono le goccie dell'acqua, le frondi degli alberi e le arene del mare, il dannato farebbe più festa, che un mendico in aver la nuova  d'esser fatto re. Sì, perché passeranno tutti questi secoli, si moltiplicheranno infinite volte, e l'inferno sempre sarà da capo. Ogni dannato farebbe questo patto con Dio: Signore, accrescete la pena mia quanto volete; fatela durare quanto vi piace; metteteci termine, e son contento. Ma no, che questo termine non vi sarà mai. La tromba della divina giustizia non altro suonerà nell'inferno che «sempre, sempre, mai, mai».
              Dimanderanno i dannati ai demoni: A che sta la notte? «Custos, quid de nocte?» (Is. 21. 11). Quando finisce? quando finiscono queste tenebre, queste grida, questa puzza, queste fiamme, questi tormenti? E loro è risposto: «Mai, mai». E quanto dureranno? «Sempre, sempre». Ah Signore, date luce a tanti ciechi, che pregati a non dannarsi, rispondono: All'ultimo, se vado all'inferno, pazienza. Oh Dio, essi non hanno pazienza di sentire un poco di freddo, di stare in una stanza troppo calda, di soffrire una percossa; e poi avranno pazienza di stare in un mar di fuoco, calpestati da' diavoli e abbandonati da Dio e da tutti per tutta l'eternità!

Affetti e preghiere
              Ah Padre delle misericordie, Voi non abbandonate chi vi cerca. «Non dereliquisti quaerentes te, Domine» (Psal. 9. 11). Io per lo passato vi ho voltate tante volte le spalle, e Voi non mi avete abbandonato: non mi abbandonate ora che vi cerco. Mi pento, o sommo bene, di aver fatto tanto poco conto della vostra grazia, che l'ho cambiata per niente. Guardate le piaghe del vostro Figlio, udite le sue voci, che vi pregano a perdonarmi, e perdonatemi. E Voi, mio Redentore, ricordatemi sempre le pene che avete patito per me, l'amore, che mi avete portato, e l'ingratitudine mia, per cui tante volte mi ho meritato l'inferno: acciocché io pianga sempre il torto che vi ho fatto, e viva sempre ardendo del vostro amore. Ah Gesù mio, come non arderò del vostro amore, pensando che da tanti anni dovrei ardere nell'inferno, e seguire ad ardere per tutta l'eternità, e che Voi siete morto per liberarmene, e con tanta pietà me ne avete liberato? Se fossi nell'inferno, ora vi odierei, e vi avrei da odiare per sempre; ma ora v'amo, e voglio amarvi per sempre. Così spero al sangue vostro. Voi mi amate, ed io ancora v'amo. Voi mi amerete sempre, se io non vi lascio. Ah mio Salvatore, salvatemi da questa disgrazia ch'io abbia a lasciarvi, e poi fatene di me quel che volete. Io merito ogni castigo, ed io l'accetto, acciocché mi liberiate dal castigo d'esser privo del vostro amore.
              O Maria rifugio mio, quante volte io stesso mi son condannato all'inferno, e Voi me ne avete liberato? Deh liberatemi ora dal peccato, che solo può privarmi della grazia di Dio e portarmi all'inferno.

Wednesday 23 August 2017

“O Canto do Guerreiro” by Gonçalves Dias (in Portuguese)



I
Aqui na floresta
Dos ventos batida,
Façanhas de bravos
Não geram escravos,
Que estimem a vida
Sem guerra e lidar.
- Ouvi-me, Guerreiros.
- Ouvi meu cantar.

II
Valente na guerra
Quem há, como eu sou?
Quem vibra o tacape
Com mais valentia?
Quem golpes daria
Fatais, como eu dou?
- Guerreiros, ouvi-me;
- Quem há, como eu sou?

III
Quem guia nos ares
A frecha imprumada,
Ferindo uma presa,
Com tanta certeza,
Na altura arrojada
Onde eu a mandar?
- Guerreiros, ouvi-me,
- Ouvi meu cantar.

IV
Quem tantos imigos
Em guerras preou?
Quem canta seus feitos
Com mais energia?
Quem golpes daria
Fatais, como eu dou?
- Guerreiros, ouvi-me:
- Quem há, como eu sou?

V
Na caça ou na lide,
Quem há que me afronte?!
A onça raivosa
Meus passos conhece,
O imigo estremece,
E a ave medrosa
Se esconde no céu.
- Quem há mais valente,
- Mais destro do que eu?

VI
Se as matas estrujo
Co os sons do Boré,
Mil arcos se encurvam,
Mil setas lá voam,
Mil gritos reboam,
Mil homens de pé
Eis surgem, respondem
Aos sons do Boré!
- Quem é mais valente,
- Mais forte quem é?

VII
Lá vão pelas matas;
Não fazem ruído:
O vento gemendo
E as malas tremendo
E o triste carpido
Duma ave a cantar,
São eles - guerreiros,
Que faço avançar.

VIII
E o Piaga se ruge
No seu Maracá,
A morte lá paira
Nos ares frechados,
Os campos juncados
De mortos são já:
Mil homens viveram,
Mil homens são lá.

IX
E então se de novo
Eu toco o Boré;
Qual fonte que salta
De rocha empinada,
Que vai marulhosa,
Fremente e queixosa,
Que a raiva apagada
De todo não é,
Tal eles se escoam
Aos sons do Boré.
- Guerreiros, dizei-me,
- Tão forte quem é?