Thursday, 12 August 2021

Thursday Serial: "Le Avventure di Pinocchio" by Carlo Collodi (in Italian) - II

 V.

Pinocchio ha fame e cerca un uovo per farsi una frittata; ma sul più bello, la frittata gli vola via dalla finestra.

 

Intanto cominciò a farsi notte, e Pinocchio, ricordandosi che non aveva mangiato nulla, sentì un’uggiolina allo stomaco, che somigliava moltissimo all’appetito.

Ma l’appetito nei ragazzi cammina presto, e di fatti, dopo pochi minuti, l’appetito diventò fame, e la fame dal vedere al non vedere, si convertì in una fame da lupi, in una fame da tagliarsi col coltello.

Il povero Pinocchio corse subito al focolare dove c’era una pentola che bolliva, e fece l’atto di scoperchiarla, per vedere che cosa ci fosse dentro: ma la pentola era dipinta sul muro. Immaginatevi come restò. Il suo naso, che era già lungo, gli diventò più lungo almeno quattro dita.

Allora si dètte a correre per la stanza e a frugare per tutte le cassette e per tutti i ripostigli in cerca di un po’ di pane, magari un po’ di pan secco, un crosterello, un osso avanzato al cane, un po’ di polenta muffita, una lisca di pesce, un nocciolo di ciliegia, insomma qualche cosa da masticare: ma non trovò nulla, il gran nulla, proprio nulla.

E intanto la fame cresceva, e cresceva sempre: e il povero Pinocchio non aveva altro sollievo che quello di sbadigliare e faceva degli sbadigli così lunghi, che qualche volta la bocca gli arrivava fino agli orecchi. E dopo avere sbadigliato, sputava, e sentiva che lo stomaco gli andava via.

Allora piangendo e disperandosi, diceva:

— Il Grillo-parlante aveva ragione. Ho fatto male a rivoltarmi al mio babbo e a fuggire di casa.... Se il mio babbo fosse qui, ora non mi troverei a morire di sbadigli! Oh! che brutta malattia che è la fame! —

Quand’ecco che gli parve di vedere nel monte della spazzatura qualche cosa di tondo e di bianco, che somigliava tutto a un uovo di gallina. Spiccare un salto e gettarvisi sopra, fu un punto solo. Era un uovo davvero.

La gioia del burattino è impossibile descriverla: bisogna sapersela figurare. Credendo quasi che fosse un sogno, si rigirava quest’uovo fra le mani, e lo toccava e lo baciava, e baciandolo diceva:

— E ora come dovrò cuocerlo? Ne farò una frittata!... No, è meglio cuocerlo nel piatto!... O non sarebbe più saporito se lo friggessi in padella? O se invece lo cuocessi a uso uovo a bere? No, la più lesta di tutte è di cuocerlo nel piatto o nel tegamino: ho troppa voglia di mangiarmelo!—

Detto fatto, pose un tegamino sopra un caldano pieno di brace accesa: messe nel tegamino, invece d’olio o di burro, un po’ d’acqua: e quando l’acqua principiò a fumare, tac!... spezzò il guscio dell’uovo, e fece l’atto di scodellarvelo dentro.

Ma invece della chiara e del torlo scappò fuori un pulcino tutto allegro e complimentoso, il quale, facendo una bella riverenza, disse:

— Mille grazie, signor Pinocchio, d’avermi risparmiata la fatica di rompere il guscio! Arrivedella, stia bene e tanti saluti a casa!—

Ciò detto, distese le ali, e, infilata la finestra che era aperta, se ne volò via a perdita d’occhio.

Il povero burattino rimase li, come incantato, cogli occhi fissi, colla bocca aperta e coi gusci dell’uovo in mano. Riavutosi, peraltro, dal primo sbigottimento, cominciò a piangere, a strillare, a battere i piedi in terra per la disperazione e piangendo diceva:

— Eppure il Grillo-parlante aveva ragione! Se non fossi scappato di casa e se il mio babbo fosse qui, ora non mi troverei a morire di fame. Oh! che brutta malattia che è la fame!... —

E perchè il corpo gli seguitava a brontolare più che mai, e non sapeva come fare a chetarlo, pensò di uscir di casa e di dare una scappata al paesello vicino, nella speranza di trovare qualche persona caritatevole, che gli facesse l’elemosina di un po’ di pane.

 

 

VI.

Pinocchio si addormenta coi piedi sul caldano, e la mattina dopo si sveglia coi piedi tutti bruciati.

 

Per l’appunto era una nottataccia d’inferno. Tonava forte forte, lampeggiava come se il cielo pigliasse fuoco, e un ventaccio freddo e strapazzone, fischiando rabbiosamente e sollevando un immenso nuvolo di polvere, faceva stridere e cigolare tutti gli alberi della campagna.

Pinocchio aveva una gran paura dei tuoni e dei lampi: se non che la fame era più forte della paura: motivo per cui accostò l’uscio di casa, e presa la carriera, in un centinaio di salti arrivò fino al paese, colla lingua fuori e col fiato grosso, come un cane da caccia.

Ma trovò tutto buio e tutto deserto. Le botteghe erano chiuse; le porte di casa chiuse, le finestre chiuse, e nella strada nemmeno un cane. Pareva il paese dei morti.

Allora Pinocchio, preso dalla disperazione e dalla fame, si attaccò al campanello d’una casa, e cominciò a suonare a distesa, dicendo dentro di sè:

— Qualcuno si affaccerà.―

Difatti si affacciò un vecchino, col berretto da notte in capo, il quale gridò tutto stizzito:

— Che cosa volete a quest’ora?

— Che mi fareste il piacere di darmi un po’ di pane?

— Aspettami costi che torno subito, — rispose il vecchino, credendo di aver da fare con qualcuno di quei ragazzacci rompicolli che si divertono di notte a sonare i campanelli delle case, per molestare la gente per bene, che se la dorme tranquillamente.

Dopo mezzo minuto la finestra si riaprì, e la voce del solito vecchino gridò a Pinocchio:

— Fatti sotto e para il cappello.—

Pinocchio si levò subito il suo cappelluccio; ma mentre faceva l'atto di pararlo, senti pioversi addosso un’enorme catinellata d’acqua che lo annaffiò tutto dalla testa ai piedi, come se fosse un vaso di giranio appassito.

Tornò a casa bagnato come un pulcino e rifinito dalla stanchezza e dalla fame: e perchè non aveva più forza di reggersi ritto, si pose a sedere, appoggiando i piedi fradici e impillaccherati sopra un caldano pieno di brace accesa.

E lì si addormentò; e nel dormire, i piedi che erano di legno gli presero fuoco, e adagio adagio gli si carbonizzarono e diventarono cenere.

E Pinocchio seguitava a dormire e a russare, come se i suoi piedi fossero quelli d’un altro. Finalmente sul far del giorno si svegliò, perchè qualcuno aveva bussato alla porta.

— Chi è? — domandò sbadigliando e stropicciandosi gli occhi.

— Sono io! — rispose una voce.

Quella voce era la voce di Geppetto.

 

 

VII.

Geppetto torna a casa, e dà al burattino la colazione che il pover’uomo aveva portata per sè.

 

Il povero Pinocchio, che aveva sempre gli occhi fra il sonno, non s’era ancora avvisto dei piedi che gli si erano tutti bruciati: per cui appena sentì la voce di suo padre, schizzò giù dallo sgabello per correre a tirare il paletto; ma invece, dopo due o tre traballoni, cadde di picchio tutto lungo disteso sul pavimento.

E nel battere in terra fece lo stesso rumore, che avrebbe fatto un sacco di mestoli, cascato da un quinto piano.

— Aprimi! — intanto gridava Geppetto dalla strada.

— Babbo mio, non posso, — rispondeva il burattino piangendo e ruzzolandosi per terra.

— Perchè non puoi?

— Perchè mi hanno mangiato i piedi.

— E chi te li ha mangiati?

— Il gatto, — disse Pinocchio, vedendo il gatto che colle zampine davanti si divertiva a far ballare alcuni trucioli di legno.

— Aprimi, ti dico! — ripetè Geppetto — se no, quando vengo in casa, il gatto te lo do io!

— Non posso star ritto, credetelo. Oh! povero me! povero me, che mi toccherà a camminare coi ginocchi per tutta la vita.

Geppetto, credendo che tutti questi piagnistei fossero un’altra monelleria del burattino, pensò bene di farla finita, e arrampicatosi su per il muro, entrò in casa dalla finestra.

Da principio voleva dire e voleva fare; ma poi, quando vide il suo Pinocchio sdraiato in terra e rimasto senza piedi davvero, allora sentì intenerirsi; e presolo subito in collo si dette a baciarlo e a fargli mille carezze e mille moine, e, coi lucciconi che gli cascavano giù per le gote, gli disse singhiozzando:

— Pinocchiuccio mio! Com’è che ti sei bruciato i piedi?

— Non lo so, babbo, ma credetelo che è stata una nottata d’inferno e me ne ricorderò fin che campo. Tonava, balenava e io avevo una gran fame, e allora il Grillo-parlante mi disse: «Ti sta bene: sei stato cattivo e te lo meriti» e io gli dissi: «Bada, Grillo!…» e lui mi disse: «Tu sei un burattino e hai la testa di legno» e io gli tirai un manico di martello, e lui morì, ma la colpa fu sua, perchè io non volevo ammazzarlo, prova ne sia che messi un tegamino sulla brace accesa del caldano, ma il pulcino scappò fuori e disse: «Arrivedella... e tanti saluti a casa.» E la fame cresceva sempre, motivo per cui quel vecchino col berretto da notte, affacciandosi alla finestra mi disse: «Fatti sotto e para il cappello» e io con quella catinellata d’acqua sul capo, perchè il chiedere un po’ di pane non è vergogna, non è vero? me ne tornai subito a casa, e perchè avevo sempre una gran fame, messi i piedi sul caldano per rasciugarmi, e voi siete tornato, e me li sono trovati bruciati, e intanto la fame l’ho sempre e i piedi non li ho più! ih!… ih!… ih!… ih!… —

E il povero Pinocchio cominciò a piangere e a berciare così forte, che lo sentivano da cinque chilometri lontano.

Geppetto, che di tutto quel discorso arruffato aveva capito una cosa sola, cioè che il burattino sentiva morirsi dalla gran fame, tirò fuori di tasca tre pere, e porgendogliele, disse:

— Queste tre pere erano per la mia colazione: ma io te le do volentieri. Mangiale, e buon pro ti faccia.

— Se volete che le mangi, fatemi il piacere di sbucciarle.

— Sbucciarle? — replicò Geppetto meravigliato.

Non avrei mai creduto, ragazzo, mio, che tu fossi così boccuccia e così schizzinoso di palato. Male! In questo mondo, fin da bambini, bisogna avvezzarsi abboccati e a saper mangiare di tutto, perchè non si sa mai quel che ci può capitare. I casi son tanti!...

— Voi direte bene, — soggiunse Pinocchio, — ma io non mangerò mai una frutta, che non sia sbucciata. Le bucce non le posso soffrire.

E quel buon uomo di Geppetto, cavato fuori un coltellino, e armatosi di santa pazienza, sbucciò le tre pere, e pose tutte le bucce sopra un angolo della tavola.

Quando Pinocchio in due bocconi ebbe mangiata la prima pera, fece l’atto di buttar via il torsolo: ma Geppetto gli trattenne il braccio dicendogli:

— Non lo buttar via: tutto in questo mondo può far comodo.

— Ma io il torsolo non lo mangio davvero!... — gridò il burattino, rivoltandosi come una vipera.

— Chi lo sa! I casi son tanti!... — ripetè Geppetto, senza riscaldarsi.

Fatto sta che i tre torsoli, invece di essere gettati fuori dalla finestra, vennero posati sull’angolo della tavola in compagnia delle bucce.

Mangiate o, per dir meglio, divorate le tre pere, Pinocchio fece un lunghissimo sbadiglio e disse piagnucolando:

— Ho dell’altra fame!

— Ma io, ragazzo mio, non ho più nulla da darti.

— Proprio nulla, nulla?

— Ci avrei soltanto queste bucce e questi torsoli di pera.

— Pazienza! — disse Pinocchio — se non c’è altro, mangerò una buccia. —

E cominciò a masticare. Da principio storse un po’ la bocca: ma poi una dietro l’altra, spolverò in un soffio tutte le bucce: e dopo le bucce anche i torsoli, e quand’ebbe finito di mangiare ogni cosa, si battè tutto contento le mani sul corpo, e disse gongolando:

— Ora sì, che sto bene!

— Vedi, dunque, — osservò Geppetto, — che avevo ragione io quando ti dicevo che non bisogna avvezzarsi nè troppo sofistici nè troppo delicati di palato. Caro mio, non si sa mai quel che ci può capitare in questo mondo. I casi son tanti!... —

 

 

VIII.

Geppetto rifà i piedi a Pinocchio, e vende la propria casacca per comprargli l’Abbecedario.

 

Il burattino, appena che si fu levata la fame, cominciò subito a bofonchiare e a piangere, perchè voleva un paio di piedi nuovi.

Ma Geppetto, per punirlo della monelleria fatta lo lasciò piangere e disperarsi per una mezza giornata: poi gli disse:

— E perchè dovrei rifarti i piedi? Forse per vederti scappar di nuovo da casa tua?

— Vi prometto — disse il burattino singhiozzando — che da oggi in poi sarò buono....

— Tutti i ragazzi — replicò Geppetto — quando vogliono ottenere qualcosa, dicono così.

— Vi prometto che anderò a scuola, studierò e mi farò onore....

— Tutti i ragazzi, quando vogliono ottenere qualcosa, ripetono la medesima storia.

— Ma io non sono come gli altri ragazzi! Io sono più buono di tutti, e dico sempre la verità. Vi prometto, babbo, che imparerò un’arte, e che sarò la consolazione e il bastone della vostra vecchiaia. —

Geppetto che, sebbene facesse il viso di tiranno, aveva gli occhi pieni di pianto e il cuore grosso dalla passione nel vedere il suo povero Pinocchio in quello stato compassionevole, non rispose altre parole: ma, presi in mano gli arnesi del mestiere e due pezzetti di legno stagionato, si pose a lavorare di grandissimo impegno.

E in meno d’un’ora, i piedi erano bell’e fatti: due piedini svelti, asciutti e nervosi, come se fossero modellati da un artista di genio.

Allora Geppetto disse al burattino:

— Chiudi gli occhi e dormi! —

E Pinocchio chiuse gli occhi e fece finta di dormire. E nel tempo che si fingeva addormentato, Geppetto con un po’ di colla sciolta in un guscio d’uovo gli appiccicò i due piedi al loro posto, e glieli appiccicò così bene, che non si vedeva nemmeno il segno dell’attaccatura.

Appena il burattino si accorse di avere i piedi, saltò giù dalla tavola dove stava disteso, e principiò a fare mille sgambetti e mille capriòle, come se fosse ammattito dalla gran contentezza.

— Per ricompensarvi di quanto avete fatto per me — disse Pinocchio al suo babbo — voglio subito andare a scuola.

— Bravo ragazzo.

— Ma per andare a scuola ho bisogno d’un po’ di vestito. —

Geppetto, che era povero e non aveva in tasca nemmeno un centesimo, gli fece allora un vestituccio di carta fiorita, un paio di scarpe di scorza d’albero e un berrettino di midolla di pane.

Pinocchio corse subito a specchiarsi in una catinella piena d’acqua e rimase così contento di sè, che disse pavoneggiandosi:

— Paio proprio un signore!

— Davvero; — replicò Geppetto, — perchè, tienlo a mente, non è il vestito bello che fa il signore, ma è piuttosto il vestito pulito.

— A proposito, — soggiunse il burattino — per andare alla scuola mi manca sempre qualcosa: anzi mi manca il più e il meglio.

— Cioè?

— Mi manca l’Abbecedario.

— Hai ragione: ma come si fa per averlo?

— È facilissimo: si va da un libraio e si compra.

— E i quattrini?

— Io non ce l’ho.

— Nemmeno io — soggiunse il buon vecchio, facendosi tristo.

E Pinocchio, sebbene fosse un ragazzo allegrissimo, si fece tristo anche lui: perchè la miseria, quando è miseria davvero, la intendono tutti: anche i ragazzi.

— Pazienza! — gridò Geppetto tutt’a un tratto rizzandosi in piedi; e infilatasi la vecchia casacca di frustagno, tutta toppe e rimendi, uscì correndo di casa.

Dopo poco tornò: e quando tornò, aveva in mano l’Abbecedario per il figliuolo, ma la casacca non l’aveva più. Il pover’uomo era in maniche di camicia, e fuori nevicava.

— E la casacca, babbo?

— L’ho venduta.

— Perchè l’avete venduta?

— Perchè mi faceva caldo.—

Pinocchio capì questa risposta, a volo, e non potendo frenare l’impeto del suo buon cuore, saltò al collo di Geppetto e cominciò a baciarlo per tutto il viso.

Wednesday, 11 August 2021

Excellent Readings: Sonnet LXXXII by William Shakespeare (in English)

I grant thou wert not married to my Muse,
And therefore mayst without attaint o'erlook
The dedicated words which writers use
Of their fair subject, blessing every book.
Thou art as fair in knowledge as in hue,
Finding thy worth a limit past my praise;
And therefore art enforced to seek anew
Some fresher stamp of the time-bettering days.
And do so, love; yet when they have devised,
What strained touches rhetoric can lend,
Thou truly fair, wert truly sympathized
In true plain words, by thy true-telling friend;
   And their gross painting might be better used
   Where cheeks need blood; in thee it is abused.

Tuesday, 10 August 2021

Tuesday's Serial: "Turbilhão" by Coelho Neto (in Portuguese) - IV

 Capítulo VI

Quando sahiu encontrou a sala de jantar vazia, já todos os trastes haviam sido retirados; ficou a olhar, distrahido, até que Felicia appareceu com o café. Tomou-o a pequenos goles, com repugnancia, sentindo-o muito quente, a escaldar-lhe o estomago. Ouvindo os passos arrastados da mãi teve um estremecimento e pousou a chicara na janella, receioso de que lhe cahisse da mão tremula. A velha mantinha o seu ar de bondade, e, como se nada houvesse acontecido, disse-lhe:

— Estive guardando a tua roupa. E os livros?

Aquella meiguice, toda de perdão, ainda mais se lhe aggravou a vexame.

— Podem ir na cesta.

— Os homens ainda têm uma barrica; se queres...?

— Pois sim. Já estão no meu quarto?

— Não, estão ainda na sala. Deixei fora o terno azul e a tua roupa branca está no quarto de Violante. É melhor que te vistas já para mandarmos o resto nas carroças.

— Sim, senhora.

Foi para o quarto da irmã. Se houvesse voltado o rosto teria visto o ar enternecido com que a velha o acompanhava. Encontrou toda a sua roupa no chão, sobre um jornal, e, vestindo-se, ouvia os passos da velha no quarto contíguo.

Quando saiu já Dona Júlia, com a sua capota de vidriIhos e o seu vestido de merinó, dava ordens à Felícia. Iam indo para as carroças as tinas, os arames em que secavam as roupas, as galinhas, amarradas pelos pés, a gaiola do gaturamo, que esvoaçava assustado e, num saco, no canto da casa, o gato miava desesperadamente, rebolcando-se. Dona Júlia calçando as mitaines cerzidas, disse, d'olhos baixos, tímida:

— Olha, meu filho, eu vou dizer adeus a esta gente aqui do lado, não custa. Não sei que parece sairmos assim. Descansa que ninguém nos visita. Esta gente é boa... Lá os outros... que Deus lhes acrescente.

— Mamãe pode ir, eu não vou. É tudo a mesma súcia.

— Pois sim. Então, até já.

— Mas não se demore: precisamos seguir para que os homens não fiquem à nossa espera.

— Sim. É só um adeus.

Paulo, de mãos enfiadas nos bolsos, passeando ao longo da sala vazia, enquanto os homens retiravam os móveis do seu quarto, pensava em Ritinha: a mulata obsediava-o. Foi ao quintal e deu com Felícia agachada, desenterrando um pé de arruda.

— Vais levar isso, Felícia?

— Então, nhonhô? Arruda é muito bom. A gente deve ter sempre em casa um pé de arruda para uma dor. E, com a planta na mão, ergueu-se e foi acomodá-la em um vaso de barro.

— Vê lá! não esqueças por aí alguma coisa. Olhe os homens. Varre a casa e seque logo. Tomas o bonde na Estrada e segues. Sabes onde é?

— Então, nhonhô? Uai!

Dona Júlia apareceu à porta da rua.

— Vamos, Paulo.

O estudante tomou o chapéu e saiu. Uma das carroças já estava cheia, com a grande mesa suspensa ao fundo, toda enleada em cordas; duas outras esperavam. A vizinhança estava agitada: mulheres às janelas, crianças às portas, olhando. Paulo segredou:

— Vamos para o outro passeio, mamãe; e atravessaram a rua.

Uma mulher gorda, esborrachando à janela o seio espapaçado, disse: "Seja feliz!" "Obrigada", agradeceu Dona Júlia. "Lembranças a Violante... E não se esqueça da gente. Apareça."

Paulo sentia o sangue subir-lhe às faces como se o estivessem injuriando. Das janelas acenavam adeuses, Dona Júlia correspondia; ele, d'olhos baixos, mal tocava no chapéu, muito cosido à mãe, brincando com a bengala. Quando voltaram a esquina sentiu um grande alívio. A velha caminhava lentamente, deslumbrada com aquele esplendor, ela que, tão raramente, deixava a sombra da sua casa, vendo o sol apenas no quintalejo ou no trecho da rua.

Os pesados caminhões, que entravam para os armazéns da Estrada, causavam-lhe medo. Detinha-se de instante a instante agarrando-se ao braço do filho, e diante da estação, atropelada pelos que transitavam, entre carros e tílburis, ficou estonteada, sem saber dirigir-se e foi necessário que Paulo lhe desse o braço levando-a para a calçada onde deviam esperar o bonde da Lapa.

Sentia a vista perturbada com a vida tumultuosa da praça; a claridade intensa ofuscava-a, os ouvidos zuniam-lhe. "Que barulho, minha Nossa Senhora!" Junto a um quiosque, vários homens descalços, em mangas de camisa, discutiam e, como um pequeno, a correr, esbarrasse com ela, Paulo revoltou-se; a velha, porém, serenou-o.

— Deixa, é uma criança; não foi por querer.

O bonde apareceu. Entraram e ela, antes de sentar-se, voltou-se para o lado da casa que deixara, suspirando. Estou só pensando em Violante... e, depois dum silêncio, perguntou baixinho: Soubeste ontem alguma coisa?

— Mamede disse-me que está na pista do cocheiro.

— Que cocheiro?

— Do carro em que ela fugiu.

— Foi de carro!?

— Naturalmente.

Calaram-se. O bonde fez uma parada perto da Rua do Núncio. para a Muda.

— E se prendessem o cocheiro? Ele deve saber onde ela está.

— Mamede vai ver.

Depois dum longo tempo de recolhimento, levada aos trancos pelo bonde, Dona Júlia levantou os olhos e, na sacada duma casa, viu duas mulheres de penteadores brancos: uma sentada, a ler, deixando à mostra um pedaço de perna gorda, a outra muito debruçada, com os cabelos soltos, esvoaçando.

— Que rua é esta?

— Lavradio.

A velha acenou com a cabeça e, como se lhe bastasse a informação, aquietou-se.

— Aqui é a Polícia. Foi aqui que eu estive, disse Paulo.

D. Júlia inclinou a cabeça e foram-se-lhe os olhos por um largo portão, ao longo dum túnel sombrio.

— Ah! meu Deus, se essa gente quisesse!...

Quando chegaram ao Largo da Lapa a timidez retomou-a. Ergueu-se pesadamente e, agarrando-se aos balaústres, foi descendo com esforço.

— Já não sei andar. Se eu saísse sozinha perdia-me por aí. Por onde é? Que sol, Paulo! Isto faz mal. Estou tonta - parece que sai fogo das pedras.

Abriu a sombrinha e convidou o filho. - Chega para nós dois.

— Não, mamãe; eu estou acostumado. Não se incomode comigo.

Ela voltava-se de quando em quando, assustada, como se houvesse ouvido rodar de carros.

— Aquilo ali é o Passeio Público, não é?

— É sim, senhora.

A velha suspirou fundamente.

— Quando vocês eram pequenos, vínhamos quase todos os domingos aqui, com o velho. - E ficou a olhar saudosamente o arvoredo.

— Mas acho isto mais largo...

— Sim, senhora: é que foi aproveitada uma parte do terreno do Convento.

— Logo vi.

Tudo lhe causava admiração: os bondes, em tandem, os carros, os prédios novos. Diante do mar não se pôde conter: parou, lançando os olhos livremente pelas águas que faiscavam; dando, porém, com a Igreja do Outeiro, tremeram-lhe os lábios numa prece. E confessou que estava mais contente porque tinha aquela alegria ante os olhos.

— E os meus santos! - exclamou de repente, estacando.

— A senhora não os arrumou?

— Sim, mas com os balanços da carroça...

— Fique descansada.

— A casa é ainda muito longe?

— Não, senhora. Não vê aquela árvore? É ali. O ponto é magnífico, não acha? Aqui está tudo à mão. Depois, a vantagem de não termos vizinhos fronteiros.

— Lá também não tínhamos.

— Pois sim, mas aqueles trens, aquela lufa-lufa de máquinas... Quem podia com aquilo?!

— Eu já estava acostumada; até me distraía.

— Mau gosto. É aqui, mamãe.

Júlia levantou o olhar, examinando a casa, chegou um pouco adiante para ver o jardim vizinho e, como Paulo empurrasse a porta, a mulher do lado debruçou-se à janela, curiosamente.

— Quem é essa moça?

— Não sei.

— Não vá ser uma dessas mulheres...

Entraram. O cheiro das tintas enchia toda a casa como um hálito mau. Paulo, porém, abriu de par em par as janelas e o ar penetrou correndo os aposentos, purificando o ambiente. Dona Júlia detinha-se, examinava os papéis, o soalho, ainda úmido da lavagem, o teto; abria as bicas, para que a água corresse e, no quintal, ficou um momento parada, pensativa, até que o filho apareceu à porta da cozinha.

— Então?

— É boa. Só o que tem é que é muito devassada.

Paulo levantou os olhos. Pela janela de uma casa alta via-se o interior de um quarto, onde um homem ruivo, em mangas de camisa, meio curvado, fazia o laço da gravata ao espelho.

— Sim, tem esse defeito, mas também pelo preço, neste ponto, não se podia achar coisa melhor.

Dona Júlia concordou, voltando a examinar os aposentos, um a um, com cuidado minucioso. Na sala, chegou um instante à janela, voltou-se para a montanha: lá estava a igreja, muito branca, dominando o mar, como uma atalaia.

Tão embevecida ficou que não via os bondes passando, cheios, rápidos como os trens que, diante da outra casa, iam e vinham, dia e noite, abalando a rua tranqüila. A mulher, à janela da casa contígua, com o colo farto achatado no peitoril, acompanhava os bondes com um olhar cobiçoso, sorrindo e, quando a rua reentrava no sossego, punha-se a cantar, bambaleando-se.

As andorinhas não tardaram. Como Dona Júlia já conhecia a casa, tirou a capa e foi determinando a colocação dos móveis. As duas da tarde, pouco depois de haver partido a última carroça, chegou Felícia, cansada, suada, com embrulhos, queixando-se da soalheira.

Paulo, descalço, armava os móveis, enquanto a velha arranjava alguma coisa para o jantar. O gato, em liberdade, corria a casa, desconfiado, miando, a saltar de móvel em móvel, farejando, e o gaturamo, virando e revirando a cabecinha, piava, saudoso, como se sentisse falta do seu antigo retiro e do trecho de céu que costumava namorar do fundo da sua prisão estreita.

A noite já a casa tinha largueza e conforto, arrumada e, diante dos santos, na cômoda, ardia a lamparina vigilante. Paulo, estafado, bocejava estendido no sofá, sem fome; à mesa mal debicou, queixando-se da cabeça. Recolheram-se cedo. Só Felícia andou até tarde na cozinha a bater marteladas, arranjando as prateleiras.

Dona Júlia não pôde conciliar o sono: sentia-se oprimida, pensando na filha. Que seria dela? Talvez que, àquela hora, a pobrezinha estivesse a bater à porta da casa abandonada, arrependida, infeliz, procurando os seus. E onde iria repousar? Quem lhe daria agasalho? Suspirou, com os olhos nas duas imagens que brilhavam à luz trêmula da lamparina. Sentia como um remorso, parecia-lhe que, com aquela mudança, abandonara, de vez, a filha.

Ah! nunca mais a veria! nunca mais! Orgulhosa, como era, sentindo-se desprezada, nunca mais tornaria a casa, preferindo à humilhação a vida miserável. Felícia, arrastando um móvel na sala de jantar, interrompeu o silêncio. A velha sentou-se na cama e chamou a negra, que acudiu logo, com um martelo na mão.

— Ah! Felícia, não posso dormir pensando em Violante.

A negra coçou a cabeça e, encostando-se à cômoda, pensativa, disse baixinho, depois de um silêncio:

— Olhe, minh'ama, eu me lembrei de uma coisa... Tenho medo de falar por causa de nhonhô.

— Que é?

— Hum! para vosmecê ir dizer... Eu, não. Não quero história comigo.

— Eu sou criança, Felícia?

A negra ainda hesitou, mas aproximando-se da cama, cochichou em voz misteriosa:

— Minh'ama não se lembra do meu reumatismo?

— Sim.

— Vosmecê sabe que eu andei por aí tudo, na mão de uma porção de médicos, gastando os cabelos da cabeça, e nem para trás, nem para diante. Vosmecê sabe.

— Sim.

— Nem vosmecê é capaz de imaginar como foi que fiquei boa.

— Não.

— É, mas se eu disser vosmecê não acredita; é até capaz de pensar que estou maluca. Eu sei.

— Ora, Felícia...

— Vosmecê acredita?

— Não sei: fala.

— Pois foi com o espiritismo - sussurrou, curvada, d'olhos muito abertos.

— Com o espiritismo?

— Sim, senhora. Foi com uma água que eu trouxe lá da sociedade.

— E tu acreditas nessas coisas, rapariga?

— Como acredito em Nosso Senhor que está no céu, minh'ama, - afirmou de mãos postas.

Dona Júlia acomodou-se na cama e a negra, caminhando em pontas de pés, encostou a porta do quarto, voltando para junto da velha, com uma ânsia de proselitismo.

— Olhe, minh'ama, quando Nhá Violante saiu, eu quis ir lá perguntar por ela; não fui porque não tive tempo, mas estou certa de que os espíritos hão de dizer a verdade. A gente, pedindo com fé, consegue tudo. Eu vi, minh'ama. Quando foi pela revolta, uma perda, que tinha um filho soldado, foi lá saber notícia dele, e apareceu um espírito dizendo que ele tinha morrido num lugar desses.

Dona Júlia puxou o lençol, sentindo um grande frio nas costas como se, pela fresta da porta, esfuziasse uma corrente de ar; e Felícia continuou:

— Depois, quando tudo acabou, os companheiros do rapaz procuraram a mulher e repetiram, tintim por tintim, tudo quanto o espírito tinha dito. Eu vi, minh'ama! - e, inclinando-se, rebaixou com dois dedos as pálpebras moles, mostrando os grandes olhos brancacentos. - Vosmecê com essa gente da polícia não arranja nada. Se vosmecê quiser experimentar, como nhonhô sai todas as noites, eu levo vosmecê lá. Todo o mundo fala, mas vendo é que é.

Dona Júlia meditava, sentindo-se atraída pelo mistério e, longo tempo calada, as mãos cruzadas ao colo, os olhos baixos, esteve pensando nas palavras sibilinas da negra. Por fim levantou a cabeça:

— E para entrar?

— Vamos juntas. Olhe, Dona Castorina, lá da outra rua, foi uma noite comigo por causa da doença do marido e agora vai sempre: é sócia.

— E se Paulo souber?

— Como é que ele há de saber? Só se vosmecê disser. Olhe, daqui - e bateu nos beiços afunilados - daqui não sai nada. A gente vai, minh'ama faz a sua consulta e está aí.

— Em que dias é?

— Todos os dias há reza e depois há consulta; amanhã mesmo.

Dona Júlia pôs os olhos no Senhor dos Passos, como a pedir-lhe conselho; ouvindo, porém, a tosse do filho, estremeceu assustada, mostrando a porta à negra. Felícia foi-se à sorrelfa.

Só, no quarto novo, impressionada com o que ouvira, com a acuidade dos sentidos própria dos assombrados, Dona Júlia ouvia arrepiadamente os mais leves ruídos: ora era um móvel que estalava ríspido, ora a crepitação da lamparina. Na rua tiniam as campainhas dos bondes. O cheiro oleoso de tinta tornava-se mais forte e denso e, de instante a instante, um golpe de ar frio, penetrando, ia gelar-lhe o corpo.

Idéias sinistras esvoaçavam-lhe no espírito alvoroçado. Passeava olhares pelo quarto, ainda desconhecido, como a procurar a causa da estranha sensação que a aterrava. A negra, que, até então, tivera como uma criatura simples, assumira aos seus olhos o aspecto macabro duma bruxa evocadora de mortos. Sentia no quarto a passagem fluídica dos imateriais, as invisíveis borboletas da morte andavam por ali como as falenas noturnas esvoaçando em redor da luz.

Faltava-lhe o ar, um grande peso oprimia-lhe o peito, sombras tênues fluíam diante dos seus olhos escancelados e, de quando em quando, feria sinistramente o silêncio o estalo seco dum móvel.

"Ah! minha Nossa Senhora, para que Felícia veio falar dessas histórias agora de noite!? A gente já anda com a cabeça tão cheia de coisas..." A porta foi-se abrindo lentamente, surdamente.

Com o coração precipitado voltou-se hirta, agarrando-se à maçaneta da cama, a boca meio aberta e seca e, de olhos na porta, viu as pupilas fosforescentes do gato que alimiavam como dois fogos-fátuos. Enxotou-o e o animal, escabreado, num pulo, desapareceu.

Deitou-se muito encolhida, com os olhos nos santos, rezando. Mas um surdo rumor, que parecia subir do soalho, como um gemido abafado, aterrou-a. "Ah! meu Deus, Felícia não podia ter deixado essas conversas para amanhã?..."

Falando, porém, não tirava a atenção do rumor soturno que vinha tristonhamente, de instante a instante, como o arquejar oprimido de um emparedado. O ouvido, porém, foi-se habituando e ela reconheceu a voz grave do mar que desenrolava as ondas ali perto, na praia. "Ah! minha filha..."

Fechou os olhos, logo, porém, abriu-os, por lhe parecer haver sentido leve sussurro como de asas de beija-flores - nada: a chama da lamparina, esguia no morrão em forma de cravo, esfiava um filete de fumo. Passou a mão pela fronte, encolhendo-se mais. O sono fugia-lhe dos olhos, o coração batia-lhe com tanta força que ela o ouvia distintamente. Era o medo que a empolgava - tinha vontade de mover-se e temia esticar uma perna, dobrar um braço, respirar mais alto. Que haveria debaixo da cama? e lá fora? e dentro da noite? sombras, sombras peregrinas, sombras errantes, o hálito apavorante que os sepulcros exalam. "Ah! minha Nossa Senhora!"

Violante, porém, voltou-lhe à lembrança foi como uma luz rompendo trevas. Era também uma visão de morta. Reminiscências surgiram como espectros; o marido, um menino que ela vira morrer de febres, e a mãe, tão velha na morte! sorrindo e sumindo-se vagarosamente como se, além mesmo, no espaço, lhe fosse penoso andar.

Uma recordação, porém, assombrou-a: a morte dum velho negro. antigo escravo da família. Viu-o esgrouviado, agonizando, contorcendo-se, a boca escancelada, os olhos em alvo, numa aflição inconcebível. grugulhando, com o peito nu, ripado pelas costelas salientes, o ventre cavado, a pedir ar, ar, ar...! Levantou-se da cama descalça, a tremer e medrosa, como se sentisse duendes pela casa, passou à sala de jantar e, no escuro, pôs-se a bater na mesa com a mão espalmada, chamando:

— Felícia! Felícia!

A negra, em fraldas de camisa, apareceu sobressaltada:

— Que é, minh'ama?

As duas mulheres encontraram-se na sala escura.

— Ah! Felícia, para que havia você de falar dessas coisas agora... Não posso dormir.

— Minh'ama está com medo?

Dona Júlia respondeu com um fundo suspiro recolhendo-se ao leito.

— Agora tem paciência: vem ficar comigo.

— Eu vou buscar a minha cama. - E tornou à sala voltando, pouco depois, com uma esteira enrolada; estendeu-a e, forrando-a com um cobertor cinzento, sentou-se. O seu busto negro, magro, destacava-se da camisa branca, que lhe escorria pelo peito linguajado pelas mamas pelancudas. Baixinho, com a sua voz misteriosa, perguntou de novo: Minh'ama está com medo?

— Não sei: ando nervosa, tudo me impressiona.

— Quanto mais se vosmecê visse o que eu vejo. Não se lembra daquela noite em que vosmecê me encontrou de joelhos, na cozinha, rezando e chorando?

— Sim...

— Pois eu estava conversando com meu filho. Ele não me deixa - é de noite, é de dia - está sempre comigo. Como é que eu não tenho medo? A gente estando bem com Deus não deve ter medo. Que é que vosmecê pensa? Eles andam pela casa. Há gente que vê. Eu não vejo, mas ouço: eles falam, eles gemem; às vezes até cantam...

— Está bom, Felícia, vamos deixar isso para amanhã. É tarde; preciso dormir.

— Eu falo mesmo por vosmecê.

Deitou-se e, cobrindo a cabeça, o seu corpo magro e comprido, muito enrolado no lençol, ficou imóvel e hirto como o de uma múmia. Dona Júlia esteve algum tempo d'olhos abertos, a pensar naquele mistério das almas visitadoras. Felícia ressonava e, pouco a pouco, o sono foi-lhe também pesando nas pálpebras. De instante a instante abria os olhos já empanados, logo, porém, os fechava e adormeceu, por fim, cansadamente.

No dia seguinte, muito cedo, Paulo reclamou o almoço: tinha umas voltas a dar na cidade; não podia continuar naquela vida de malandrice, precisava arranjar-se, o meio-soldo que recebiam mal dava para a casa. Dona Júlia concordou, posto que sofresse, compreendendo que ele abandonava Violante. Quando o viu sair meteu-se na cozinha em conversa com a negra, pedindo informações sobre a sociedade espírita: "Se era decente, se iam lá senhoras". Restava-lhe o sobrenatural como última esperança.

O dia correu tristonho, abafadiço, em pesado torpor. O mar, grosso e liso, parecia d'óleo e, para a tarde, acumulando-se o céu de nuvens negras, ela começou a preocupar-se com o filho, tanto, porém, que o viu entrar, respirou desafogada. Paulo estava irritado: ia e vinha pelo corredor a resmungar.

— Que tens?

— Que tenho? A senhora ainda pergunta?! Estou sem nada e tudo causa da senhora minha irmã. Fui dispensado da revisão do Equador, porque não mandei um aviso ao secretário, prevenindo-o da minha falta. É isto! E eu que cave!

A velha, acabrunhada, não disse palavra: ficou a olhar o céu. Relâmpagos luziam, o calor abafava.

— E agora?

— Ah! agora...

— Por que não falas ao compadre?

— Qual compadre! Eu arranjo-me, descanse.

A tormenta desencadeou-se nas primeiras horas da noite. Ríspido o vento batia com as portas, vergava as árvores e o mar arrebentava com fúria de encontro à muralha transbordando, alagando a rua. Paulo recolheu-se ao quarto e abriu um livro. Lia sem entender - eram os olhos que passeavam sobre as letras, o espírito andava longe, ora na estalagem ao lado de Ritinha, ora na revisão do Equador.

Já teriam os rapazes conhecimento da fuga de Violante? Encolheu os ombros com indiferença e, acendendo um cigarro, pôs-se a soprar baforadas para o teto. Ergueu-se revoltado contra a vida e pôs-se a passear pela casa, a conjeturar. Quando se deitou estava animado de esperanças, com grandes planos de trabalho: via-se feliz, independente, com auras propícias de fortuna. O dia amanheceu chuvoso; às nove horas, com um ligeiro almoço, lá saiu o estudante a perseguir o sonho.

Correram dias tristes e vazios. Paulo, inteiramente esquecido da irmã, entregou-se a outros cuidados. Saía cedo, a pretexto de arranjar a vida, voltava para jantar ou entrava tarde, noite alta, sempre a queixar-se da sorte, mal-humorado.

Dona Júlia não descorçoava, posto que a vida se fosse tornando, a mais e mais, apertada e difícil. Aproximavase o fim do mês e, como o filho ainda não houvesse encontrado colocação, uma manhã a velha foi procurá-lo e, carinhosa, lembrou-lhe que tinha "algumas jóias e umas pratas". Que não se amofinasse, não haviam de viver sempre em dificuldades. Deus havia de ter pena deles. Paulo revoltou-se: "Não! não empenhava jóias. Ela que escrevesse uma carta ao Fábio, ele não fazia favor nenhum. Mais pedira ele ao pai." A velha meneou com a cabeça:

— Não, meu filho; não escrevo. Para quê? Pois não viste que nem mais aqui apareceu para me ver? Falou, prometeu e... até hoje, nada. Não! Que tem? empenhas hoje, tiras amanhã; não é vergonha. Nós não podemos ficar desprevenidos. Não estás procurando emprego? Então... Eu também farei, por meu lado, o que puder. Já agora não penso em Violante... Que Deus tenha pena dela. Não me escreve, não se lembra de mim... paciência, não vou amaldiçoá-la por isso. Leva; não saio, não uso jóias. Que tem? É melhor do que ficarmos aqui sujeitos a alguma coisa. Quando puderes tiras.

Ele recebeu o embrulhinho, deixou-o sobre a mesa, e a boa velha, satisfeita por lhe haver acalmado o espírito, saiu do quarto, sorrindo. Ele desfez o pacotinho e viu um grande broche antigo, de ouro, cravejado de pedras. Não se lembrava daquela jóia, nunca a vira ornando o colo materno. Era uma relíquia do passado, um remanescente dos tempos felizes. Calculou que daria uns quatrocentos mil-réis e, como andava com Mamede em excursões noturnas, de tasca em tasca, de espelunca em espelunca, lembrou-se de tentar a sorte com o que sobrasse do dinheiro, pagas todas as contas.

— É possível que eu não venha jantar, disse ao sair; vou dar uns passos por aí a ver se encontro alguma coisa.

— Não te esqueças da casa.

— Não me esqueço.

— E olha: Eu também talvez saia um pouco com Felícia, à noite.

— A senhora?!

— Sim.

— Onde vai? - perguntou sorrindo, achando um "quê" de cômico naquela resolução da velha.

Dona Júlia hesitou um momento, depois, também sorrindo, disse:

— Vou aí a um lugar... Quero ver se arranjo umas costuras.

— Pois a senhora quer coser para fora?

— Então, meu filho?!

— Ora, mamãe... deixe-se disso. A senhora pode lá com costuras!

— Não te importes. Tenha eu saúde.

— Pois sim... E a chave?

— Isto é que é... Já me lembrei de a deixar à janela, por dentro, com um barbante para se puxar.

— Ou embaixo da porta, lembrou.

— Sim, é melhor. Pois fica assim: deixo embaixo da porta, do lado esquerdo.

— Bem. Até logo.

— Até logo. E Deus te acompanhe.

Paulo saiu com ânsia de chegar à casa de penhores, para conhecer o valor da velha jóia. Dona Júlia foi à cozinha. Felícia estava no quintal, lavando, ao sol, com o cachimbo nos beiços. Chamou-a. A negra levantou o busto, passando as mãos pelos braços, a raspar a espuma que os cobria, e caminhou para a velha, que se encostara a um dos alizares da porta:

— Estou com vontade de ir hoje, Felícia. Pode ser?

— Como não? Mas minh'ama falou a nhonhô?

— Falei.

— Dizendo que ia lá? - exclamou alarmada.

— Estás doida!

— Ahn... E vosmecê há de ver como se descobre tudo. - A fisionomia da negra iluminou-se. - Vosmecê já devia ter ido.

— Não acredito nessas coisas.

— Por que, minh'ama? Então vosmecê não acredita nas almas?

— Não sei. Depois, tenho tanto medo... Tanta gente tem endoidecido por causa dessas histórias.

— Ora o quê, minh'ama!

— Ora o quê?!

— Pois eu sei de muitas pessoas que ficaram sofrendo depois que se meteram com o espiritismo. Enfim, seja o que Deus quiser. Como não faço mal a ninguém, nem vou com más intenções... A que horas começa?

— Às sete e meia. A gente saindo daqui às sete, chega lá com tempo.

— Pois sim.