Thursday 19 August 2021

Thursday Serial: "Le Avventure di Pinocchio" by Carlo Collodi (in Italian) - III

 IX.

Pinocchio vende l’Abbecedario per andare a vedere il teatrino dei burattini.

 

Smesso che fu di nevicare, Pinocchio, col suo bravo Abbecedario nuovo sotto il braccio, prese la strada che menava alla scuola: e strada facendo, fantasticava nel suo cervellino mille ragionamenti e mille castelli in aria uno più bello dell’altro.

E discorrendo da sè solo, diceva:

— Oggi, alla scuola, voglio subito imparare a leggere: domani poi imparerò a scrivere, e domani l’altro imparerò a fare i numeri. Poi, colla mia abilità, guadagnerò molti quattrini e coi primi quattrini che mi verranno in tasca, voglio subito fare al mio babbo una bella casacca di panno. Ma che dico di panno? Gliela voglio fare tutta d’argento e d’oro, e coi bottoni di brillanti. E quel pover’uomo se la merita davvero: perchè, insomma, per comprarmi i libri e per farmi istruire, è rimasto in maniche di camicia.... a questi freddi! Non ci sono che i babbi che sieno capaci di certi sacrifizi!...

Mentre tutto commosso diceva così, gli parve di sentire in lontananza una musica di pifferi e di colpi di grancassa: pì-pì-pì, pì-pì-pì, zum, zum, zum, zum.

Si fermò e stette in ascolto. Quei suoni venivano di fondo a una lunghissima strada traversa, che conduceva a un piccolo paesetto fabbricato sulla spiaggia del mare.

— Che cosa sia questa musica? Peccato che io debba andare a scuola, se no.... —

E rimase lì perplesso. A ogni modo, bisognava prendere una risoluzione; o a scuola, o a sentire i pifferi.

— Oggi anderò a sentire i pifferi, e domani a scuola. Per andare a scuola c’è sempre tempo — disse finalmente quel monello, facendo una spallucciata.

Detto fatto, infilò giù per la strada traversa e cominciò a correre a gambe. Più correva e più sentiva distinto il suono dei pifferi e dei tonfi della grancassa: pì-pì-pì, pì-pì-pì, pì-pì-pì, zum, zum, zum, zum.

Quand’ecco che si trovò in mezzo a una piazza tutta piena di gente, la quale si affollava intorno a un gran baraccone di legno e di tela dipinta di mille colori.

— Che cos’è quel baraccone? — domandò Pinocchio, voltandosi a un ragazzetto che era lì del paese.

— Leggi il cartello, che c’è scritto, e lo saprai.

— Lo leggerei volentieri, ma per l’appunto oggi non so leggere.

— Bravo bue! Allora te lo leggerò io. Sappi dunque che in quel cartello a lettere rosse come il fuoco, c’è scritto: Gran Teatro dei Burattini....

— È molto che è incominciata la commedia?

— Comincia ora.

— E quanto si spende per entrare?

— Quattro soldi. —

Pinocchio, che aveva addosso la febbre della curiosità, perse ogni ritegno e disse, senza vergognarsi, al ragazzetto, col quale parlava:

— Mi daresti quattro soldi fino a domani?

— Te li darei volentieri, — gli rispose l’altro canzonandolo — ma oggi per l’appunto non te li posso dare.

— Per quattro soldi, ti vendo la mia giacchetta — gli disse allora il burattino.

— Che vuoi che mi faccia di una giacchetta di carta fiorita? Se ci piove su, non c’è più verso di cavarsela da dosso.

— Vuoi comprare le mie scarpe?

— Sono buone per accendere il fuoco.

— Quanto mi dài del berretto?

— Bell’acquisto davvero! Un berretto di midolla di pane! C’è il caso che i topi me lo vengano a mangiare in capo!—

Pinocchio era sulle spine. Stava lì lì per fare un’ultima offerta: ma non aveva coraggio: esitava, tentennava, pativa. Alla fine disse:

— Vuoi darmi quattro soldi di quest’Abbecedario nuovo?

— Io sono un ragazzo e non compro nulla dai ragazzi — gli rispose il suo piccolo interlocutore, che aveva molto più giudizio di lui.

— Per quattro soldi l’Abbecedario lo prendo io — gridò un rivenditore di panni usati, che s’era trovato presente alla conversazione.

E il libro fu venduto lì sui due piedi. E pensare che quel pover’uomo di Geppetto era rimasto a casa, a tremare dal freddo in maniche di camicia, per comprare l’Abbecedario al figliuolo!

 

 

X.

I burattini riconoscono il loro fratello Pinocchio, e gli fanno una grandissima festa; ma sul più bello, esce fuori il burattinaio Mangiafuoco, e Pinocchio corre il pericolo di fare una brutta fine.

Quando Pinocchio entrò nel teatrino delle marionette, accadde un fatto che destò mezza rivoluzione.

Bisogna sapere che il sipario era tirato su e la commedia era già incominciata.

Sulla scena si vedevano Arlecchino e Pulcinella, che bisticciavano fra di loro e, secondo il solito, minacciavano da un momento all’altro di scambiarsi un carico di schiaffi e di bastonate.

La platea, tutta attenta, si mandava a male dalle grandi risate, nel sentire il battibecco di quei due burattini, che gestivano e si trattavano d’ogni vitupero con tanta verità, come se fossero proprio due animali ragionevoli e due persone di questo mondo.

Quando all’improvviso, che è che non è, Arlecchino smette di recitare, e voltandosi verso il pubblico e accennando colla mano qualcuno in fondo alla platea, comincia a urlare in tono drammatico:

— Numi del firmamento! sogno o son desto? Eppure quello laggiù è Pinocchio!...

— È Pinocchio davvero! — grida Pulcinella.

— È proprio lui! — strilla la signora Rosaura, facendo capolino di fondo alla scena.

— È Pinocchio! è Pinocchio! — urlano in coro tutti i burattini, uscendo a salti fuori delle quinte. — È Pinocchio! È il nostro fratello Pinocchio! Evviva Pinocchio!...

— Pinocchio, vieni quassù da me, — grida Arlecchino — vieni a gettarti fra le braccia dei tuoi fratelli di legno! —

A questo affettuoso invito, Pinocchio spicca un salto, e di fondo alla platea va nei posti distinti; poi con un altro salto, dai posti distinti monta sulla testa del direttore d’orchestra, e di lì schizza sul palcoscenico.

È impossibile figurarsi gli abbracciamenti, gli strizzoni di collo, i pizzicotti dell’amicizia e le zuccate della vera e sincera fratellanza, che Pinocchio ricevè in mezzo a tanto arruffìo dagli attori e dalle attrici di quella compagnia drammatico-vegetale.

Questo spettacolo era commovente, non c’è che dire: ma il pubblico della platea, vedendo che la commedia non andava più avanti, s’impazientì e prese a gridare:

— Vogliamo la commedia! vogliamo la commedia! —

Tutto fiato buttato via, perchè i burattini, invece di continuare la recita, raddoppiarono il chiasso e le grida, e, postosi Pinocchio sulle spalle, se lo portarono in trionfo davanti ai lumi della ribalta.

Allora uscì fuori il burattinaio, un omone così brutto, che metteva paura soltanto a guardarlo. Aveva una barbaccia nera come uno scarabocchio d’inchiostro, e tanto lunga, che gli scendeva dal mento fino a terra: basta dire che, quando camminava, se la pestava coi piedi. La sua bocca era larga come un forno, i suoi occhi parevano due lanterne di vetro rosso, col lume acceso di dietro; e con le mani schioccava una grossa frusta, fatta di serpenti e di code di volpe attorcigliate insieme.

All’apparizione inaspettata del burattinaio, ammutolirono tutti: nessuno fiatò più. Si sarebbe sentito volare una mosca. Quei poveri burattini, maschi e femmine, tremavano tutti come tante foglie.

— Perchè sei venuto a mettere lo scompiglio nel mio teatro? — domandò il burattinaio a Pinocchio, con un vocione d’Orco gravemente infreddato di testa.

— La creda, illustrissimo, che la colpa non è stata mia!...

— Basta così! Stasera faremo i nostri conti. —

Difatti, finita la recita della commedia, il burattinaio andò in cucina, dov’egli s’era preparato per cena un bel montone, che girava lentamente infilato nello spiede. E perchè gli mancavano le legna per finirlo di cuocere e di rosolare, chiamò Arlecchino e Pulcinella e disse loro:

— Portatemi di qua quel burattino, che troverete attaccato al chiodo. Mi pare un burattino fatto di un legname molto asciutto, e sono sicuro che a buttarlo sul fuoco, mi darà una bellissima fiammata all’arrosto. —

Arlecchino e Pulcinella da principio esitarono; ma impauriti da un’occhiataccia del loro padrone, obbedirono: e dopo poco tornarono in cucina, portando sulle braccia il povero Pinocchio, il quale, divincolandosi come un’anguilla fuori dell’acqua, strillava disperatamente:

— Babbo mio, salvatemi! Non voglio morire, no, non voglio morire!...

 

 

XI.

Mangiafoco starnutisce e perdona a Pinocchio, il quale poi difende dalla morte il suo amico Arlecchino.

 

Il burattinaio Mangiafoco (che questo era il suo nome) pareva un uomo spaventoso, non dico di no, specie con quella sua barbaccia nera che, a uso grembiale, gli copriva tutto il petto e tutte le gambe; ma nel fondo poi non era un cattiv’uomo. Prova ne sia, che quando vide portarsi davanti quel povero Pinocchio, che si dibatteva per ogni verso, urlando «Non voglio morire, non voglio morire!» principiò subito a commuoversi e a impietosirsi; e dopo aver resistito un bel pezzo, alla fine non ne potè più e lasciò andare un sonorosissimo starnuto.

A quello starnuto, Arlecchino, che fin allora era stato afflitto e ripiegato come un salcio piangente, si fece tutto allegro in viso e chinatosi verso Pinocchio, gli bisbigliò sottovoce:

— Buone nuove, fratello. Il burattinaio ha starnutito, e questo è segno che s’è mosso a compassione per te, e oramai sei salvo. —

Perchè bisogna sapere che, mentre tutti gli uomini quando si sentono impietositi per qualcuno, o piangono, o per lo meno fanno finta di rasciugarsi gli occhi, Mangiafoco, invece, ogni volta che s’inteneriva davvero aveva il vizio di starnutire. Era un modo come un altro, per dare a conoscere agli altri la sensibilità del suo cuore.

Dopo aver starnutito, il burattinaio, seguitando a fare il burbero, gridò a Pinocchio:

— Finiscila di piangere! I tuoi lamenti mi hanno messo un’uggiolina qui in fondo allo stomaco.... sento uno spasimo, che quasi quasi.... etcì! etcì! — e fece altri due starnuti.

— Felicità! — disse Pinocchio.

— Grazie. E il tuo babbo e la tua mamma sono sempre vivi? — gli domandò Mangiafoco.

— Il babbo, sì: la mamma non l’ho mai conosciuta.

— Chi lo sa che dispiacere sarebbe per il tuo vecchio padre, se ora ti facessi gettare fra que’ carboni ardenti! Povero vecchio! lo compatisco!... etcì, etcì, etcì, — e fece altri tre starnuti.

— Felicità! — disse Pinocchio.

— Grazie! Del resto bisogna compatire anche me, perchè, come vedi, non ho più legna per finire di cuocere quel montone arrosto, e tu, dico la verità, in questo caso mi avresti fatto un gran comodo! Ma oramai mi sono impietosito e ci vuol pazienza. Invece di te, metterò a bruciare sotto lo spiede qualche burattino della mia compagnia. Olà, giandarmi! —

A questo comando comparvero subito due giandarmi di legno, lunghi lunghi, secchi secchi, col cappello a lucerna in testa e colla sciabola sfoderata in mano.

Allora il burattinaio disse loro con voce rantolosa:

— Pigliatemi lì quell’Arlecchino, legatelo ben bene, e poi gettatelo a bruciare sul fuoco. Io voglio che il mio montone sia arrostito bene! —

Figuratevi il povero Arlecchino! Fu tanto il suo spavento, che le gambe gli si ripiegarono e cadde bocconi per terra.

Pinocchio, alla vista di quello spettacolo straziante, andò a gettarsi ai piedi del burattinaio, e piangendo dirottamente e bagnandogli di lacrime tutti i peli della lunghissima barba, cominciò a dire con voce supplichevole:

— Pietà, signor Mangiafoco!...

— Qui non ci son signori! — replicò duramente il burattinaio.

— Pietà, signor Cavaliere!...

— Qui non ci son cavalieri!

— Pietà, signor Commendatore!

— Qui non ci son commendatori!

— Pietà, Eccellenza!... —

A sentirsi chiamare Eccellenza, il burattinaio fece subito il bocchino tondo, e diventato tutt’a un tratto più umano e più trattabile, disse a Pinocchio:

— Ebbene, che cosa vuoi da me?

— Vi domando grazia per il povero Arlecchino!...

— Qui non c’è grazia che tenga. Se ho risparmiato te, bisogna che faccia mettere sul fuoco lui, perchè io voglio che il mio montone sia arrostito bene.

— In questo caso, — gridò fieramente Pinocchio, rizzandosi e gettando via il suo berretto di midolla di pane — in questo caso conosco qual è il mio dovere. Avanti, signori giandarmi! Legatemi e gettatemi là fra quelle fiamme. No, non è giusta che il povero Arlecchino, il vero amico mio, debba morire per me! —

Queste parole, pronunziate con voce alta e con accento eroico, fecero piangere tutti i burattini che erano presenti a quella scena. Gli stessi giandarmi, sebbene fossero di legno, piangevano come due agnellini di latte.

Mangiafoco, sul principio, rimase duro e immobile come un pezzo di ghiaccio: ma poi, adagio adagio, cominciò anche lui a commuoversi e a starnutire. E fatti quattro o cinque starnuti, aprì affettuosamente le braccia e disse a Pinocchio:

— Tu sei un gran bravo ragazzo! Vieni qua da me e dammi un bacio. —

Pinocchio corse subito, e arrampicandosi come uno scoiattolo su per la barba del burattinaio, andò a posargli un bellissimo bacio sulla punta del naso.

— Dunque la grazia è fatta? — domandò il povero Arlecchino, con un fil di voce che si sentiva appena.

— La grazia è fatta! — rispose Mangiafoco; poi soggiunse sospirando e tentennando il capo:

— Pazienza! per questa sera mi rassegnerò a mangiare il montone mezzo crudo: ma un’altra volta, guai a chi toccherà!...

Alla notizia della grazia ottenuta, i burattini corsero tutti sul palcoscenico e, accesi i lumi e i lampadari come in serata di gala, cominciarono a saltare e a ballare. Era l’alba e ballavano sempre.

 

 

XII.

Il burattinaio Mangiafoco regala cinque monete d’oro a Pinocchio perchè le porti al suo babbo Geppetto: e Pinocchio, invece, si lascia abbindolare dalla Volpe e dal Gatto e se ne va con loro.

 

Il giorno dipoi Mangiafoco chiamò in disparte Pinocchio e gli domandò:

— Come si chiama tuo padre?

— Geppetto.

— E che mestiere fa?

— Il povero.

— Guadagna molto?

— Guadagna tanto quanto ci vuole per non aver mai un centesimo in tasca. Si figuri che per comprarmi l’Abbecedario della scuola dovè vendere l’unica casacca che aveva addosso: una casacca che, fra toppe e rimendi, era tutta una piaga.

— Povero diavolo! Mi fa quasi compassione. Ecco qui cinque monete d’oro. Va’ subito a portargliele, e salutalo tanto da parte mia. —

Pinocchio, com’è facile immaginarselo, ringraziò mille volte il burattinaio: abbracciò, a uno a uno, tutti i burattini della compagnia, anche i giandarmi; e fuori di sè dalla contentezza, si mise in viaggio per ritornarsene a casa sua.

Ma non aveva fatto ancora mezzo chilometro, che incontrò per la strada una Volpe zoppa da un piede e un Gatto cieco da tutt’e due gli occhi, che se ne andavano là là, aiutandosi fra di loro, da buoni compagni di sventura. La Volpe, che era zoppa, camminava appoggiandosi al Gatto: e il Gatto, che era cieco, si lasciava guidare dalla Volpe.

— Buon giorno, Pinocchio — gli disse la Volpe, salutandolo garbatamente.

— Com’è che sai il mio nome? — domandò il burattino.

— Conosco bene il tuo babbo.

— Dove l’hai veduto?

— L’ho veduto ieri sulla porta di casa sua.

— E che cosa faceva?

— Era in maniche di camicia e tremava dal freddo.

— Povero babbo! Ma, se Dio vuole, da oggi in poi non tremerà più!…

— Perchè?

— Perchè io sono diventato un gran signore.

— Un gran signore tu? — disse la Volpe, e cominciò a ridere di un riso sguaiato e canzonatore: e il Gatto rideva anche lui, ma per non darlo a vedere, si pettinava i baffi colle zampe davanti.

— C’è poco da ridere — gridò Pinocchio impermalito. — Mi dispiace davvero di farvi venire l’acquolina in bocca, ma queste qui, se ve ne intendete, sono cinque bellissime monete d’oro. —

E tirò fuori le monete avute in regalo da Mangiafoco.

Al simpatico suono di quelle monete, la Volpe per un moto involontario allungò la gamba che pareva rattrappita, e il Gatto spalancò tutt’e due gli occhi che parvero due lanterne verdi: ma poi li richiuse subito, tant’è vero che Pinocchio non si accorse di nulla.

— E ora — gli domandò la Volpe — che cosa vuoi farne di codeste monete?

— Prima di tutto — rispose il burattino — voglio comprare per il mio babbo una bella casacca nuova, tutta d’oro e d’argento e coi bottoni di brillanti: e poi voglio comprare un Abbecedario per me.

— Per te?

— Davvero: perchè voglio andare a scuola e mettermi a studiare a buono.

— Guarda me! — disse la Volpe. — Per la passione sciocca di studiare ho perduto una gamba.

— Guarda me! — disse il Gatto. — Per la passione sciocca di studiare ho perduto la vista di tutti e due gli occhi.

In quel mentre un Merlo bianco, che se ne stava appollaiato sulla siepe della strada, fece il suo solito verso e disse:

— Pinocchio, non dar retta ai consigli dei cattivi compagni: se no, te ne pentirai! —

Povero Merlo, non l’avesse mai detto! Il Gatto spiccando un gran salto, gli si avventò addosso, e senza dargli nemmeno il tempo di dire ohi, se lo mangiò in un boccone, con le penne e tutto.

Mangiato che l’ebbe e ripulitosi la bocca, chiuse gli occhi daccapo, e ricominciò a fare il cieco come prima.

— Povero Merlo! — disse Pinocchio al Gatto — perchè l’hai trattato così male?

— Ho fatto per dargli una lezione. Così un’altra volta imparerà a non metter bocca nei discorsi degli altri. —

Erano giunti più che a mezza strada, quando la Volpe, fermandosi di punto in bianco, disse al burattino:

— Vuoi tu raddoppiare le tue monete d’oro?

— Cioè?

— Vuoi tu, di cinque miserabili zecchini, farne cento, mille, duemila?

— Magari! e la maniera?

— La maniera è facilissima. Invece di tornartene a casa tua, dovresti venir con noi.

— E dove mi volete condurre?

— Nel paese dei Barbagianni. —

Pinocchio ci pensò un poco, e poi disse risolutamente:

— No, non ci voglio venire. Oramai sono vicino a casa, e voglio andarmene a casa, dove c’è il mio babbo che m’aspetta. Chi lo sa, povero vecchio, quanto ha sospirato ieri, a non vedermi tornare. Pur troppo io sono stato un figliuolo cattivo, e il Grillo-parlante aveva ragione quando diceva: «I ragazzi disobbedienti non possono aver bene in questo mondo.» Ed io l’ho provato a mie spese, perchè mi sono capitate molte disgrazie, e anche ieri sera in casa di Mangiafoco, ho corso pericolo… Brrr! mi viene i bordoni soltanto a pensarci!

— Dunque — disse la Volpe — vuoi proprio andare a casa tua? Allora va’ pure, e tanto peggio per te.

— Tanto peggio per te! — ripetè il Gatto.

— Pensaci bene, Pinocchio, perchè tu dài un calcio alla fortuna.

— Alla fortuna! — ripetè il Gatto.

— I tuoi cinque zecchini, dall’oggi al domani sarebbero diventati duemila.

— Duemila! — ripetè il Gatto.

— Ma com’è mai possibile che diventino tanti? — domandò Pinocchio, restando a bocca aperta dallo stupore.

— Te lo spiego subito — disse la Volpe — bisogna sapere che nel paese dei Barbagianni c’è un campo benedetto chiamato da tutti il Campo dei miracoli. Tu fai in questo campo una piccola buca e ci metti dentro, per esempio, uno zecchino d’oro. Poi ricopri la buca con un po’ di terra: l’annaffi con due secchie d’acqua di fontana, ci getti sopra una presa di sale, e la sera te ne vai tranquillamente a letto. Intanto, durante la notte, lo zecchino germoglia e fiorisce, e la mattina dopo di levata, ritornando nel campo, che cosa trovi? Trovi un bell’albero carico di tanti zecchini d’oro quanti chicchi di grano può avere una bella spiga nel mese di giugno.

— Sicchè dunque — disse Pinocchio sempre più sbalordito — se io sotterrassi in quel campo i miei cinque zecchini, la mattina dopo quanti zecchini vi troverei?

— È un conto facilissimo — rispose la Volpe — un conto che puoi farlo sulla punta delle dita. Poni che ogni zecchino ti faccia un grappolo di cinquecento zecchini: moltiplica il cinquecento per cinque, e la mattina dopo trovi in tasca duemilacinquecento zecchini lampanti e sonanti.

— Oh che bella cosa! — gridò Pinocchio, ballando dall’allegrezza. — Appena che questi zecchini li avrò raccolti, ne prenderò per me duemila e gli altri cinquecento di più li darò in regalo a voialtri due.

— Un regalo a noi? — gridò la Volpe sdegnandosi e chiamandosi offesa. — Dio te ne liberi!

— Te ne liberi! — ripetè il Gatto.

— Noi — riprese la Volpe — non lavoriamo per il vile interesse: noi lavoriamo per arricchire gli altri.

— Gli altri! — ripetè il Gatto.

— Che brave persone! — pensò dentro di sè Pinocchio: e dimenticandosi lì sul tamburo, del suo babbo, della casacca nuova, dell’Abbecedario e di tutti i buoni proponimenti fatti, disse alla Volpe e al Gatto:

— Andiamo subito, io vengo con voi. —

Wednesday 18 August 2021

Good Reading: "Os Últimos Instantes do Arcebispo" by Fr. Bruno Ricco (in Portguguese)

 Fr. Bruno Ricco was a eyewitness of Dom Francisco de Aquino Corrêa (2nd April 1885—22nd March 1956) death.

 

Foi no dia 22 de março. Sabedor de que muito se agravara seu estado de saúde, corri imediatamente ao Sanatório de Santa Catarina, às 6h30min. Em lá chegando, preparava-se o enfermo para receber o Sagrado Viático, o que se efetuou às 18 horas. A hora misticamente sugestiva da “Ave Maria”.

Antes, porém, lá pelas 16 horas, Dom Aquino perguntara à delicada Irmã Walburga: “Irmã, estou mal?” E a Irmã, com rude franqueza, necessária nessas horas, lhe respondeu: “Sim, Excelência. Quer receber a Extrema Unção?” Saiu-lhe espontânea a expressão que habitualmente tinha nos lábios “Que é isso?” e logo acrescentou: “Sim, quero…; é a terceira vez…”.

Completamente senhor de todas as suas faculdades, acompanhou com profunda piedade as orações do Ritual. Dirigindo-se à Irmã enfermeira que o assistia, perguntou-lhe se o Viático podia ficar para as 20 horas. Respondeu-lhe a Irmã: “Já que tem que lutar, é melhor lutar com Nosso Senhor”. “— Então, que venha logo”.

Achavam-se presentes os Reverendíssimos Padres José Fernandes Stringari, Diretor do Liceu Coração de Jesus, Pe. Teófilo Tworz, Vigário cooperador da Paróquia, o irmão leigo Carlos Godói e algumas Irmãs do Sanatório.

Ajoelhamo-nos todos ao redor do leito do amado Arcebispo.

Entra no quarto o Padre Capelão do Sanatório com o Sagrado Viático.

Acompanhamos comovidos todo o desenrolar da cerimônia.

O Senhor Arcebispo de Cuiabá recolhe-se, junta as mãos, concentra-se naquela piedade e fé eucarísticas que o caracterizavam.

Notei que, nesse instante, Dom Aquino chorava. Pressentia a morte. Recebeu a Sagrada Comunhão com muito recolhimento, movendo continuamente os lábios em fervorosas preces.

Depois de algum tempo, retiraram-se os Padres Diretor do Liceu e Teófilo. Permaneci o tempo todo ao lado do querido doente, fazendo o que é possível fazer nesse transe doloroso. Pedi-lhe uma bênção especial para a minha querida Paróquia. Fui prontamente atendido. Perguntando-lhe, alguma vez, como se sentia, dava como resposta: “Não estou bem”.

A certa altura, sai-se com este verso de Bocage: “Saiba morrer, o que viver não soube!” Disse-lhe, então: “Mas V. Ex.ª soube viver; sempre viveu bem”. Ao que ele logo acrescentou: “Que os Anjos digam: Amém!”

“Já que tem que lutar, é melhor lutar com Nosso Senhor”.

Pelas 19 horas, a fala começou a tornar-se dificultosa. Chamou diversas vezes pelo Bispo Auxiliar. Em dado momento me diz: “Que Dom Antônio comunique à Nunciatura…”. Certamente queria dizer: “o meu falecimento”.

Telefono ao Liceu, chamando o Padre Diretor, porque o desenlace se precipitava. Do Palácio do Senhor Cardeal pedem informações, respondo que o Senhor Arcebispo tem poucos instantes de vida.

Leio, então, a bela oração Anima Christi, sanctifica me, que ele acompanha com muita atenção. Para não cansá-lo, silencio. Pede-me, entretanto, que eu leia o hino Adoro te devote, composto por Santo Tomás de Aquino. Instantes depois, entra a Irmã Superiora do Sanatório. Com um sorriso franco, Dom Aquino agradece à Irmã e esta pede uma bênção para toda a comunidade. O Arcebispo traça a cruz por sobre a Superiora.

Recordo-me que nos achávamos às vésperas da solenidade das Dores de Nossa Senhora (sexta-feira da Semana da Paixão) e juntos rezamos a Salve Rainha. Dom Aquino rezava continuamente.

Leio as orações dos agonizantes por ele seguidas com plena lucidez de mente, e, às invocações, respondia Amém.

Chega Dom Paulo Rolim Loureiro, Bispo Auxiliar do Cardeal Mota, que o representa no momento. Dom Aquino já não fala. Faz gesto de beijar o Crucifixo que ele beija com unção.

Leio a oração: Proficiscere, anima christiana, de hoc mundo (Parte, alma cristã, deste mundo). Nisso, com suas próprias mãos, firmes, apesar do corpo quase frio, Dom Aquino arrumou melhor o travesseiro, e inclinando a cabeça para o lado do coração, suspirou profundamente, pela última vez.

Pusemos-lhe a vela acesa na mão.

Nenhum gemido. Morreu como viveu: placidamente, na Santa Paz do Senhor.

Tuesday 17 August 2021

Tuesday's Serial: "Turbilhão" by Coelho Neto (in Portuguese) - V

 Capítulo VII

Era noite fechada. Na sombra vasta do mar fogos piscavam e, longe, fulgiam as luzes littoraneas de Nictheroy, como pedras de um adereço sobre o velludo negro de um escrinio. D. Julia, emquanto a negra fechava portas e janellas, com Os cotovelos na commoda, a face inclinada sobre as mãos postas, rezava. Quando Felicia appareceu, traçando o chale, persignou-se e soprou a lamparina. Á luz de um phosphoro, foram as duas seguindo vagarosamente pelo corredor escuro.

O céu estava negro e pesado e um vento frio soprava do mar. Felicia fechou a porta e, cautelosamente, raspando a soleira, escondeu a chave no logar convencionado.

— Vamos, minh’ama. Foram caminhando. A negra ia orgulhosa da conquista que fizera, já imaginando as perguntas com que a haviam de assaltar no Centro, quando a vissem entrar com uma senhora respeitável. Sentia-se superior com aquela glória de iniciadora e, sôfrega, bem que Dona Júlia não pudesse sair do passo vagaroso, apressava-a: "Que já era tarde. Podiam encontrar a sessão no meio". E a velha, de cabeça baixa, sondando o terreno com o guarda-chuva, lá ia.

— Mais devagar, Felícia; eu não vejo bem e a noite está tão escura. Não há um bonde para lá? Eu a pé não agüento.

— Há bonde, sim senhora: ali no largo.

— Sim, porque eu já não sei andar; depois com a falta de vista, está sempre me parecendo que vou cair num buraco. - De repente, como ia pensando na sessão, cochichou: Não vá aparecer por lá algum conhecido. Deus me livre que Paulo saiba que ando metida nessas coisas.

— Não tenha medo, minh'ama: eu conheço todo o mundo que vai lá.

No Largo da Lapa, diante dos tílburis estacionados junto à igreja, Dona Júlia teve um sobressalto, aconchegando-se à Felícia.

— Não vá um desses cavalos disparar, rapariga.

— Não tem perigo, minh'ama. Que medo de vosmecê. Vamos por aqui.

Mas um bonde partia, e a negra, esquecendo a senhora, precipitou-se, a correr, com o xale a espadanar, aos psius! A velha fez um esforço supremo e foi levando o pesado corpo aos rebolos, arquejando e, ao alcançar o bonde, com as pernas trêmulas, ofegante, agarrou-se aos balaústres, guindando-se.

— Você foi correr, Felícia... sabendo que eu não posso - repreendeu esbaforida. - Estou aqui pondo a alma pela boca.

O bonde partiu.

A velha encolhia-se, receosa; mal olhava para os lados, indiferente às casas que fulguravam, profusamente iluminadas, com refletores radiantes; às músicas, que ressoavam em tarambotes; à multidão que formigava às portas dos chopes, como nuvens de mariposas em torno de claridades. Aterrava-a a idéia de um encontro com o filho e, quando a negra mandou parar o bonde em frente ao teatro São Pedro, teve um choque e perguntou baixinho:

— É aqui?

— É ali adiante.

Atravessaram a praça em direção à Travessa da Barreira. Na esquina, junto a um quiosque, marinheiros chalravam. Entraram em uma viela escura e, diante duma porta estreita, Felícia deteve-se segredando com mistério:

— É aqui, minh'ama...

Dona Júlia sentiu um grande abalo, as pernas curvaram-se-lhe e, hesitante, lançando os olhos pela comprida escada, sussurrou:

— Não sei que é, Felícia... mas estou com medo.

— Medo de que, minh'ama? Aqui não há nada que meta medo, é uma casa santa, vosmecê vai ver Nosso Senhor lá dentro. Vosmecê tem medo de entrar na igreja?

— Ah! na igreja...

— Pois isto aqui é como uma igreja - a gente reza e ouve os conselhos do irmão.

Um homem magro passou por elas encolhido, sem voltar o rosto e foi-se vagarosamente, escada acima, a tossir.

— Quando me lembro de Dona Amélia...

— Então vosmecê pensa que Dona Amélia ficou maluca por causa do espiritismo? Ela nunca veio aqui, isso eu juro a vosmecê; nunca veio. Pode ser que em outros lugares haja falta de respeito, aqui não. Mas vamos, minh'ama. Não sei que parece a gente aqui parada, feito duas tolas. Minh'ama experimenta; se não gostar não volta e está acabado.

— Pois sim.

Entraram. Dona Júlia, com as mãos geladas, o peito oprimido, subia lentamente. Em cima, suspirando, cansada, lançou os olhos pela sala vasta e sombria, escassamente alumiada por dois amortecidos bicos de gás. Junto à escada havia uma caixa de esmolas e ela procurava dinheiro no bolso fundo do vestido, quando a negra chamou-a para apresentá-la a um crioulo que estava de sentinela a um grande livro aberto sobre uma mesinha.

— Minh'ama, seu Damião.

O crioulo inclinou-se, estendendo a mão áspera e suada e, mostrando o livro, pediu: que assinasse. Trêmula e receando que, mais tarde, algum conhecido descobrisse ali a sua assinatura, escreveu simplesmente "Júlia" em letras tortuosas, mas o crioulo insinuou sorrindo:

— É o nome todo, minha senhora.

Tomou de novo a pena e completou a assinatura.

Logo o crioulo apresentou-lhe uma folha de papel implorando alguma coisa para o irmão Norberto, "que continuava enfermo, cercado e filhos". Ela deu-lhe uma nota, limitando-se a escrever na lista: Uma cristã. Felícia adiantou-se.

— Vamos, minh'ama. - Dona Júlia dirigia-se para a frente da sala quando a negra a deteve: É por aqui. Lá é para os homens.

Renques de cadeiras ocupavam todo o recinto abrindo uma estreita passagem central. As primeiras filas eram exclusivamente destinadas às mulheres. Dona Júlia sentou-se junto duma negra magra, de trunfa, que cabeceava com uma garrafa ao colo. Da sombra triste e calada rompia, de quando em quando, uma tosse rouca.

A sala não tinha outro ornamento senão as estrelas de ouro no papel azul que a forrava, dando-lhe aspecto celestial. Ao meio do teto havia um embrechado de madeira como um imenso ralo, braços de gás pendiam de ponto em ponto. Duas portas ao fundo - a da esquerda fechada, a da direita aberta sobre escuro corredor. Estantes carregadas de livros ladeavam a grande mesa pousada sobre um estrado. Acima duma das estantes inclinava-se um quadro preto com a imagem de Cristo agonizante e, justamente por trás da mesa, na parede constelada, brilhava, em caixilho d'ouro, a legenda:

 

Fora da caridade

não há

salvação.

 

Mais adiante, em moldura esguia, o aviso: "É proibido fumar." Felícia, vendo que Dona Júlia andava atentamente com os olhos de um para outro lado, disse-lhe baixinho:

— Então? Vosmecê estava com tanto medo... e agora? Não é uma casa séria? Eu sei que muitos falam daqui, mas é de inveja, minh'ama. Vosmecê não imagina como a gente sai consolada desta casa.

A velha conservava-se calada, olhando sempre, examinando todos cantos. Passos soavam na escada, depois um toc-toc como de muletas que viessem batendo pelos degraus. Duas negras entraram, falando com intimidade ao crioulo da porta. Uma trazia uma criança pela mão e outra ao colo, tossindo, com a cabeça deitada sobre o seu ombro, em prostração doentia. Depois apareceu uma cabrocha magrinha, enfezada, com a pele toda em rugas, os olhos miúdos como vidrilhos, brilhando sini stramente no fundo das órbitas, muito corcovada, abordoando-se a uma bengala. E, pouco a pouco, a sala se foi enchendo - as mulheres tomavam os lugares reservados, iam os homens para as últimas cadeiras ou para as janelas.

Dona Júlia começava a impacientar-se, quando surgiu do corredor escuro, em mangas de camisa, arrastando chinelas, um mulato arremangado. Logo ao entrar na sala, reconhecendo uma das negras, estendeu-lhe a mão, muito alegre, detendo-se a conversar, mas passou adiante, afagando uma criancinha que choramigava. Por fim, levantando a cabeça, bradou com autoridade:

— Estamos na hora!

Os que entravam caminhavam em pontas de pés, sentando-se cautelosamente. Três marinheiros apareceram ao alto da escada, olharam, e já se dirigiam para as primeiras filas, quando o mulato falou: "Não, lá pra baixo, patrícios. Aqui é das senhoras." O mulato olhava insistentemente para Dona Júlia. Felícia chamou-o: ele adiantou-se risonho.

— Esta é minh'ama que vem fazer uma consulta.

Dona Júlia baixou os olhos, vexada, temendo que a negra falasse do seu tormento, contando a um estranho as angústias que lhe alanceavam o coração. Mas a um psiu, vindo do fundo corredor, o mulato voltou-se.

Na moldura de trevas, como essas figuras ebúrneas da arte bizarra dos japões, coladas sobre cetim negro, apareceu uma mocinha pálida, magrinha, de cabelos ruivos despenteados. O mulato acudiu-lhe ao chamado, cochicharam e, logo em seguida, ele subiu ao estrado e acendeu os dois bicos de gás que iluminaram a mesa. Houve um sussurro na sala abafada - cadeiras arrastadas, pigarros; uma criança pôs-se a chorar.

Da rua entraram na sala taciturna as rajadas alegres de um dobrado. Um dos marinheiros foi à janela, outro seguiu-o, mas a música perdia-se, morria na distância, como levada pelo vento, e o silêncio recaiu. Dona Júlia, vendo o movimento dos assistentes, compreendeu que se iam passar coisas estranhas, e chegou-se muito à Felícia, numa necessidade de proteção. Cortava apenas o silêncio uma tosse intermitente que vinha de um canto.

Súbito, rompendo da treva do corredor, um homem apareceu, ligeiro, irrequieto, com o lenço em volta do pescoço. Subiu logo para o estrado, sentou-se à mesa e disse: "Deus esteja convosco". Um murmúrio correu pela sala, como a passagem do vento nas árvores. Uma mocinha, que ocupava uma das primeiras cadeiras, a cabeça pendida sobre o colo magro, estremeceu violentamente, com um suspiro entrecortado, e a cabrocha, persignando-se, deixou cair o cajado, com estrépito; todos voltaram-se, como assombrados.

O menor incidente para aquele bando passivo assumia o caráter de uma revelação superior; de tudo tiravam presságios, descobrindo nos mais ligeiros e insignificantes ruídos - o sussurro da chama do gás que o vento vergava, uma folha de papel que voava, o rangido de uma porta, influências misteriosas de espíritos visitadores. O homem, todo de preto, com uma barba curta, olhinhos miúdos, profundamente encovados, vivíssimos, o cabelo escorrido, empastado na testa, com o cotovelo fincado na mesa, a fronte apoiada na palma da mão, folheava atentamente um livro.

Um dobre de sino rolou longamente. Alguém suspirou com sofrimento: "Ai! meu Deus". Cabeças voltaram-se, curiosas daquela mágoa e o infeliz, um velho esquelético, de grandes barbas amarelecidas, pendeu a cabeça sobre o peito, como a um peso grande e insuportável.

Lentamente o homem pôs-se a ler uma passagem evangélica. As palavras saíam-lhe da boca engroladas, quase ininteligíveis; por vezes eram como um murmúrio, e todos tinham os olhos nele, imóveis, extáticos. Uma criança rompeu em pranto e, como se quisesse aproveitar aquele rumor, que interrompia a pregação, o enfermo, encantoado, pôs-se a tossir cavernosamente.

Em passos surdos um homem atravessou a sala - os sapatos gastos, sem salto, não faziam rumor. Velho, calvo, com uma barba rala emoldurando a face lívida, seguiu direito para a mesa, abanando-se ligeiramente com um leque. O que lia ergueu-se e, cedendo-lhe o lugar, pôs-se de pé, fechou o livro e entrou a falar da Piedade:

"O espírita não tem o direito de matar, mesmo em legítima defesa não deve levantar mão criminosa contra o seu semelhante. Se algum dia um de vós, meus irmãos, for atacado por um homem cuja razão obscurecida o leve ao crime, em vez de responder ao fogo com o fogo, ao ferro com o ferro, deve procurar chamar o transviado ao bom caminho com palavras virtuosas e, se não conseguir convencê-lo, é preferível deixar-se matar a cometer o crime nefando de assassínio, porque, na outra vida, esse ato de piedade cristã será premiado largamente por Deus.

"Os espíritos sofrem nas reencarnações. Eu, por exemplo, meus irmãos, fui Pedro Arbues, o grande inquisidor. E hoje, por que sofro tanto a calúnia, a ameaça de morte, as dores físicas, as provações morais? Pelo que faço nesta vida de agora? Não, porque, iluminado pela claridade divina, o meu espírito segue pelo caminho direito da Verdade.

"Sofro pelo que fiz na primeira encarnação; sofro porque fui surdo aos lamentos dos infelizes que eram levados às fogueiras; sofro porque não dei atenção aos gritos dos pobrezinhos, aos gemidos das crianças, aos soluços dos inocentes.

"E vede: Pedro Arbues, que foi um rancoroso, é santo, teve a canonização, a Igreja deu-lhe um lugar honroso no coro de Deus e eu padeço por ser justo, sofro vexames e tormentos porque não me desvio da virtude.

"Não julgueis, porém, que me revolto - resigno-me e bendigo todos os sofrimentos, que são a expiação de antigas culpas. Terei a recompensa quando deixar esta carne efêmera para residir, em puro espírito, à direita do Eterno. Nunca penseis em vingança, meus irmãos!" - exclamou fanhosamente.

O velho, d'olhos fechados, repoltreado na cadeira da presidência, abanava-se ligeiramente, como os acrobatas japoneses, virando, revirando a cabeça. O outro continuou: "Os nossos padecimentos são insignificantes em relação aos nossos crimes. Ainda penando devemos ser gratos à misericórdia divina". Dona Júlia acenou afirmativamente com a cabeça. "Quando virdes um homem torturado, lastimai-o, mas não o julgueis vitima de uma injustiça de Deus, não! Ele buscou, com atos, aquelas dores; ele mesmo abriu as feridas em seu corpo e preparou a ruína da sua casa. Os julgamentos de Deus são retos e inexoráveis."

Limpou o suor da fronte, depois, atirando o lenço à mesa, disse, inspirado, cravando os olhos em Dona Júlia:

"Não vos revolteis contra Deus. Por que duvidais do seu poder? Por que blasfemais? Por que o vosso filho, desvairado pelas paixões, desprezou o vosso carinho, enveredando, alucinadamente, pelo caminho do vício? Confiai na Providência e a ovelha tornará ao redil, trazida pelo arrependimento."

Dona Júlia estremeceu na cadeira e chegou-se mais à Felícia, com os olhos imensamente abertos, a boca em hiato, trêmula e fria. Era justamente a história lamentável da sua vida que aquele homem denunciava; era a sua chaga que ele esvurmava, expondo-a aos olhos de todos e ela, humilhada, envergonhada e medrosa, repuxava o xale da negra, chamando-a em voz surda:

— Felícia... Felícia. - A negra inclinou a cabeça para ouvi-la: Ele sabe?

— Como não, minh'ama!?

— Foste tu que lhe disseste.

A negra mirou-a sem dizer palavra. Mas o homem continuava pregando a misericórdia, mostrando Jesus a perdoar as ofensas, até quando as lanças se lhe embebiam nas carnes. Dona Júlia não ouvia, preocupada com as palavras misteriosas que ele pronunciara, tão de feição à sua angústia e foi preciso que Felícia a chamasse para que ela saísse do êxtase doloroso e desse atenção ao pregador:

"Meus irmãos, concentremo-nos para que os nossos bons fluidos se convertam em medicina, preparando a água que deve curar os enfermos.

Uma velha ajoelhou-se e, d'olhos no teto, mãos postas, estatelou-se em ascese; e o homem pôs-se a dizer a prece lentamente, com o surdo e arquejado acompanhamento de toda a devota assembléia.

"Imploramos aos Bons Espíritos e aos nossos Anjos da Guarda, em nome de Deus, nosso Bom Pai de Amor, para envolver-nos com os seus fluidos salutares, a fim de transmiti-los a esta água, que será medicamento, porque servirá de veículo aos nossos bons fluidos. Desejamos, antes dos curativos dos nossos corpos, curar os espíritos, arrancando de nós o ódio, o crime, o orgulhoso egoísmo, que são enfermidades d'alma, piores que todos os sofrimentos da vida terrestre. Bom Pai, nós queremos nos regenerar e, animados pela fé ardente no vosso divino amor e pela certeza inabalável na vida futura, pedimos a proteção dos Espíritos Elevados, nossos filhos e nossos irmãos amados, em vosso santo nome, para que se faça em nós, sempre, a vossa santa vontade."

Terminada a prece, persignaram-se todos, com um murmúrio devoto, e o homem declarou:

'Que os doentes podiam ir encher as suas garrafas."

Produziu-se sôfrego alvoroço. As mulheres tiravam garrafas debaixo nos xales, desembrulhavam-nas e lá iam, aos apertões, arrastadamente, em direção à pia, cuja torneira jorrava gorgolejando.

Era a água santa, impregnada de fluidos espirituais, benzida pelos anjos de Deus, e aqueles que a recebiam veneradamente saíam consolados. Uns bebiam ávidos, não por sede, mas porque sofriam e logo, aliviados, como se os bálsamos angélicos houvessem operado instantaneamente, retiravam-se fazendo lugar aos que chegavam. E interrogavam-se sobre as melhoras: se já caminhavam com mais segurança; se viam melhor; se as dores haviam abrandado.

Um velho meteu-se a um canto com a sua garrafa e, despejando a água no côncavo da mão, pôs-se a banhar os olhos, e a negra, despertando a criança enferma, chegou-lhe à boca seca um copo d'água, que a pobrezinha sorveu com sofreguidão, aos grandes goles, arquejando. O homem da prédica, enquanto os crentes cercavam a pia, dirigiu-se a Dona Júlia. A velha, profundamente abalada por aquele espetáculo estranho, só deu pelo apóstolo da santa missão quando Felícia chamou-a:

— Minh'ama.

Voltou-se e, vendo o homem, muito trêfego, a agitar-se diante dela, com os olhinhos vivos e lampejantes cheios de malícia, sentiu um arrepio, mas passivamente, dominada, encolheu-se cruzando os braços.

— É a primeira vez que vem aqui, minha senhora?

— Sim senhor.

— É a senhora de quem eu falei a vosmecê: minh'ama - disse Felícia com um sorriso servil.

O homem acenou afirmativamente com a cabeça e, como a velha cabrocha se aproximasse, batendo com o cajado, chamou-a e, apresentando-a, disse:

— Olhe, minha senhora, esta criatura que aqui está demonstra, à evidência, a verdade da nossa crença. Eu sei que por aí assoalham que vivemos a explorar a ignorância dos ingênuos, entretanto, quando apresentamos provas, riem com ironia porque não podem refutar a verdade dos fatos. Aqui está uma. - Dirigindo-se, então, à cabrocha, perguntou: Para que é que você vem buscar esta água?

A interpelada, como se não quisesse confessar a sua crença em presença de uma estranha, respondeu secamente:

— Porque venho!

— E porque tem sentido melhoras, não?

— Apois... se eu não sentisse não vinha.

Mas a língua desatou-se-lhe, gárrula, e contou toda a história da sua moléstia: Três meses entrevada numa cama, gemendo, sem uma ora de alívio, até que uma conhecida lhe deu uma garrafa daquela água. Foi pronto beber que logo começou a melhorar, como por milagre. Ao cabo de quinze dias estava outra: andando, trabalhando. Mostrou a garrafa e, avaramente, guardou-a, de novo, debaixo do xale roto.

— Eu também não acreditava, minha dona, nem queria saber dessas coisas, mas vi! Não foi coisa contada, foi comigo. Estou assim. - Levantou a saia e mostrou o pé hediondamente deformado pela elefantíase, uma perna monstruosa, com a carne grossa, engelhada em dobras encoscoradas, coberta de cicatrizes.

Dona Júlia olhava, quando uma mocinha parou diante dela, com uma sacola, esmolando para os pobres. Felícia atirou umas moedas, por ela e pela ama e o homem chamou a crioula que ninava a filha enferma.

— Então: como vai ela?

— Parece que agora vai um pouquinho melhor, com a graça de Deus.

— É outro caso, - explicou o apóstolo. - Esta criança não dormia, com a coqueluche, estava inchada e, com cinco dias de tratamento... Cinco dias, não?

— Cinco, sim, senhor; uma colherinha d'água no café.

— Está melhorando. E dorme bem, não?

— Ainda tosse, mas não tanto como tossia.

— Vê? - Dona Júlia concordou. - E seu marido?

A cabrocha encolheu os ombros.

— Esse é que está no mesmo, coitado!

— Mas... - e coçando o queixo com frenesi: tem feito o que eu disse?

— Tenho sim, senhor.

— E donde vem essa água? perguntou Dona Júlia.

— Da caixa; é água da caixa, mas impregnada de fluidos superiores.

— E cura?

— A senhora não está ouvindo?

O mulato, porém, chamou-o, e os dois ficaram cochichando. Mas o apóstolo mostrava impaciência e logo tornou à velha:

— A senhora deve hoje experimentar a sessão íntima. Nós, aqui fora, não trabalhamos, oramos apenas; para os trabalhos superiores temos outra sala. Para a senhora entrar basta que se filie a um dos grupos que constituem a Confederação. Paga a mensalidade e recebe um cartão permanente, podendo vir todas as noites concorrer para a grande obra santa da regeneração da Humanidade. É a primeira vez que assiste a uma sessão?

— É, sim senhor.

— Nunca trabalhou particularmente?

— Não senhor.

— Minh'ama tem medo, - explicou Felícia.

— Medo! - exclamou o homem corcoveando. - Medo de quê? - E, superiormente: Tenha medo dos vivos, minha senhora, que nos impelem ao pecado, concorrendo para a perdição da nossa alma; mas dos puros espíritos, que nos regem, que nos iluminam, que são os nossos conselheiros, desses não deve ter medo porque só baixam ao mundo para fazer bem. - Chegou-se muito à Dona Júlia e continuou, com mistério: Quantas e quantas vezes tem a senhora seguido os bons conselhos de um espírito protetor? Vai praticar um ato e ouve uma voz íntima que lhe aconselha a desistir da idéia, por ser inspiração do Mal. Dizem: é a consciência. Engano, - afirmou, categórico: é o espírito superior que nos guia. Ninguém observa. Os incrédulos procuram explicar tais fatos com razões absurdas. Observe, minha senhora, observe, e há de convencer-se de que a vida na terra é dirigida pelos espíritos que formam as legiões de Deus. Os mortos governam os vivos. Para o verdadeiro espírita a morte não é um motivo de aflição. Por que choram tanto os que vêem sair o enterro de um parente ou de um amigo? porque imaginam que o perdem, não é verdade? Com o espírita não se dá tal; o espírita sabe que os mortos não se ausentam: respondem ao apelo dos que ficaram em penitência na vida e demoram-se com eles, conversando, aconselhando, como se vivos fossem. É uma consolação: a mãe continua a viver com o filho, a esposa continua a sentir a presença do esposo. Há a eterna aliança espiritual. Não há doutrina mais consoladora! - suspirou, com os olhos em alvo.

— Minh'ama entra, assegurou Felícia.

— Pois sim, - concordou resignadamente a velha e, enquanto o homem foi procurar o livro de inscrições, ela interrogou a negra:

— Fala com franqueza: tu contaste o que se deu lá em casa?

— Não contei, minh'ama; toquei nisso uma vez, na rua, mas não disse com quem era. Disse que estava muito triste porque tinha acontecido uma coisa com uma pessoa da minha amizade, mas não disse o nome de vosmecê, nem o de Nhá Violante. Ele sabe tudo, vosmecê pensa?! só vendo. Ele não adivinha, são as almas que contam. Vosmecê ainda não viu nada, com o tempo é que vosmecê há de ver.

O homem acenou à Dona Júlia - estava junto da mesinha, inclinado sobre um livro. Logo que a viúva chegou pôs-se a falar:

— Aqui tem, minha senhora: pode escolher um grupo à vontade: Círculo Espírita Conciliação, Sociedade Espírita Allan Kardec, Grupo Espírita Maria Nazaré...

— Este, - disse a velha, impressionada com o doce nome da Mãe de Jesus. O homem perguntou-lhe onde havia nascido, em que ano, onde residia. Ela respondia em murmúrio, d'olhos baixos. Lembrando-se, porém, que não levava dinheiro, balbuciou, vexada: Eu não vim prevenida...

— Não faz mal... - e entregando-lhe a pena: Pagará depois. Tenha a bondade de escrever o seu nome.

Curvou-se e lançou tremulamente o nome diante da cifra 2811. O homem deu-lhe um cartão com friso d'ouro, para que ela assinasse, explicando que - "Onde quer que se apresentasse com aquele cartão, seria reconhecida e aceita como obreira da regeneração da Humanidade".

E falou em médico, farmácia, dieta, enterro, enquanto passava o mata-borrão sobre as linhas escritas. Depois, mostrando-lhe o corredor da esquerda iluminado, disse:

— Estão exercitando os médiuns lá dentro. Depois a senhora irá comigo.

Mas houve um rumor na sala das sessões íntimas, e o mulato, escancarando a porta, declarou: "Que podiam entrar".

— Vamos, convidou o apóstolo.

E a negra, inclinando-se, segredou à ama:

— Agora é que vosmecê vai ver.

A sala das sessões íntimas, ao contrário do que imaginara Dona Júlia, "um lugar escuro e triste", era clara e alegre, forrada de vistoso papel e ramagens miúdas, iluminada por seis bicos de gás, respirando por duas janelas largas. Quadros santos ornavam as paredes e, por trás da mesa, à qual se havia sentado o mesmo velho indolante e acalorado que presidira à pregação, inclinava-se um grande quadro com o retrato de um homem em tamanho natural. Os crentes apinhavam-se. As duas mulheres só conseguiram achar lugar na quarta fila. Dona Júlia acomodou-se justamente ao lado da mocinha que esmolara para os irmãos enfermos.

Todas as fisionomias tinham expressão sinistra: os olhos brilhavam em desusado fulgor, os peitos ofegavam, e, de quando em quando, suspiros angustiados subiam de um ponto, doutro. A velha senhora, enquanto o apóstolo conversava com o presidente, pôs-se a examinar a sala, como à procura da passagem por onde deviam entrar os espíritos invocados.

Felícia, atenta, d'olhos na mesa, mal respirava e a mocinha, nervosa, irrequieta, agitava-se na cadeira, esfregava as mãos, estalava os dedos, com visível ansiedade; por vezes, toda ela estremecia, a cabeça tombava-lhe para as costas, os olhos ficavam esgazeados, como em espasmo.

Dona Júlia começava a sentir a fascinação comunicativa daquele bando de alucinados. Voltando a cabeça, encontrava os olhos de uma mulher imóveis, de um brilho vítreo, ou via uma negra cabisbaixa, araviando às surdas.

De repente um homem gemeu num arranco: "Não posso! Jesus, meu Senhor...!" e continuou murmurando, a bater no peito às punhadas. O ambiente tornava-se abafadiço, com um calor de rescaldo tresandando a suor e a morrinha.

— Minh'ama está vendo?

— Estou.

O homem continuava resmoneando. O seu hálito quente chegava em bafos à nuca de Dona Júlia, e a sua murmuração punha um zumbido constante na sala. Ao fundo, a criança da coqueluche rompeu a tossir, e houve um ci ci de acalento, até que o apóstolo anunciou:

— Está aberta a sessão.

Os crentes acomodaram-se e o velho, com pronunciado acento espanhol, dirigiu um apelo aos irmãos, que se achassem dispostos para o trabalho.

De um canto levantou-se um homenzinho magro, lívido, d'olhos fundos, a barba crescida, vestido com pobreza e descuido. Todos os olhares seguiam-no com interesse, e ele passava d'esguelha, por entre os devotos, limpando as mãos a um grande lenço vermelho de barra florida.

— É o irmão Canedo, disseram.

O homem sentou-se, de costas para a assembléia, impôs as mãos a mesa, fechou os olhos, apertando muito as pálpebras, e quedou, como adormecido, dominado por todos aqueles olhares fixos, que o envolviam em fluidos.

Súbito, entrando em crise, atirou violentamente a cabeça para trás, sorvendo um fôlego, pôs-se a tremer e, em voz fraca, murmurou:

— Que a paz do Senhor seja convosco!

Correu um sussurro por toda a sala e o homem, sob o prestígio das forças espirituais, pôs-se a falar, aos arrancos, profeticamente, com frases laceradas:

— Muitos dos que aqui se acham, conheceram-me enquanto andei nesta vida de torturas...

O apóstolo interrogou:

— Quem és? Quem foste?

E o médium declarou:

"Que se chamara Amaral. Fora do Correio..." e, pausadamente soturnamente, agoniado, entrou a falar da revolta de setembro, lamentando a carnificina, as depredações, as vinganças, os atentados covardes, a tristeza das viúvas, o abandono dos órfãos. O apóstolo interrompeu-o:

— Dize-nos alguma coisa que nos aproveite. Estamos aqui reunidos, ansiosos pelas palavras edificantes dos que gozam a graça de sentir a presença de Deus. Ilumina-nos.

Mas o homem continuou no mesmo tom plangente, detendo-se em pausas aflitas, a lamentar o sangue derramado, a miséria, os incêndios, as violações, até que estatelou inerte, numa sonolência mole, acordando, de repente, espantado, como estranhando achar-se entre tanta gente. Esfregou os olhos e levantou-se cansado, tornando ao seu lugar, no fundo da sala.

Sem que o chamassem, um mulato abaçanado, alto, de músculos hercúleos, ergueu-se, com um olhar de inspirado, oferecendo-se. Aceito, encaminhou-se para a mesa, impôs as mãos imensas e, d'olhos fechados, tateando, respirava com força, aos bufos, como um potro exausto. Abria, de repente, os olhos, bambaleava-se, batia pancadas secas com o pé, espalmava as mãos na mesa, com os dedos muito abertos.

A mocinha, que o não deixava com os olhos, empinou-se nervosa, suspirou e abateu na cadeira derreando a cabeça sobre o respaldar.

— Que a paz do Senhor seja convosco!... - disse gravemente o colosso com uma voz cheia que rolou tonitruosamente, seguindo-se-lhe o "Amém" de todos os presentes. E, à maneira dos profetas bíblicos que, no tempo da subversão moral do povo eleito, andavam de cidade em cidade anunciando os castigos de Iavé, começou a discorrer sobre o Bem e o Mal, mostrando que o benefício na terra é um depósito cujo lucro se recebe no céu e que o pecado é uma lepra que corrói a alma e, como se sobre ele houvesse baixado o espírito clamoroso de Isaias. as suas palavras eram fortes, lembrando as do profeta a reboavam abalando aquelas almas vibráteis.

E como a mocinha se pusesse de pé, a ímpeto, retorcendo os braços, rilhando os dentes, com um surdo, arrancado arquejo, a rebolir-se em coleios serpentinos, Dona Júlia agarrou-se à Felícia, sussurrando com medo:

— Vamo-nos embora. Isto está-me fazendo mal.

— Por que, minh'ama?

— Vamos.

— Nós agora não podemos sair. Como é que vosmecê quer passar?

— Paulo pode ter chegado.

— Vosmecê não falou com ele?

— Sim, mas não quero entrar tarde.

— Agora falta pouco, minh'ama.

O mulato continuava a falar em tom soturno, repetindo versículos bíblicos. Súbito calou-se, retesando-se, com os braços rijamente fincados na cadeira, a respirar com esforço. O apóstolo acalmou-o, chamou-o e ele abriu os olhos, levantou-se estremunhado e foi caminhando para o seu lugar, ainda a tremer. Foi então chamada a mocinha.

Ao vê-la dirigir-se para a mesa, como uma vítima que seguisse para o suplício, abatida e pálida, Dona Júlia lastimou-a: "Coitadinha!" Devia ter a idade de Violante.

Que grande mágoa a arrastaria, tão moça, àquele mistério! Que consolação iria ela pedir, tão cedo, aos espíritos benfeitores? Não haveria na imensa alegria da terra bálsamos para os seus tormentos para que, tão criança, já se fosse refugiar no templo da Morte? Coitada!

Logo que se sentou, os crentes, que a conheciam e respeitavam, moveram-se com interesse. Segredava-se, murmurava-se e o apóstolo pediu a todos que se concentrassem em oração a fim de que viesse em visita ao grêmio, por intermédio da irmã Clarinda, um espírito perfeito.

A mocinha, de mãos estendidas, abria e fechava os olhos - a sua respiração ralava e um convulsivo tremor sacudia-a aos arrancos. No silêncio atento e pávido da sala ouvia-se-lhe o ranger frenético dos dentes. Dobrou-se toda em arco.

Súbito, d'arranque, como se lhe houvesse passado por diante dos olhos uma visão horrível, ergueu-se hirta, com os braços duros e, de arremesso, rugindo, como em crise epilética, arrojou-se para trás caindo com a cadeira.

Homens e mulheres acudiram - levantaram-na rígida, os olhos imensamente abertos, fitos e desvairados. O apóstolo, vendo-a naquele estado, pôs-se a falar com brandura, tentando dominar o mau espírito que a possuía. Sentaram-na. Parecia dormir, lívida, desfigurada, com o suor a escorrer-lhe ao longo das faces.

— Como te chamas? interrogou o apóstolo.

— Não sei! rugiu abafadamente a inspirada.

— Queres guardar segredo; pois seja feita a tua vontade. Dize-nos ao menos, se na existência que deixaste foste homem ou mulher?

— Mulher!

— E conheceste a irmã em que te encarnaste?

A mocinha acenou afirmativamente com a cabeça, arfando.

— Tinhas com ela alguma ligação de parentesco?

— Não.

— De amizade?

— Sim.

— E por que a fazes sofrer tanto?

— Ela não sofre.

No mesmo instante, porém, com outro arranco, rolou por terra escabujando e rugindo. O assombro tocara o auge em toda a saía - ninguém ousava aproximar-se da infeliz vítima da possessão maligna. Foi o apóstolo quem se adiantou solícito, levantando-a carinhosamente e obrigando-a a sentar-se.

— Descansa... descansa um pouco. Há, talvez, aqui alguém cuja presença não te é agradável.

— Sim! - exclamou a mocinha, atirando um murro à mesa.

— Quem é?

— Não posso dizer.

— Por quê?

— Não posso! - regougou, debatendo-se.

— Adianta-nos, ao menos, alguma coisa. Quem assim te irrita está conosco, ainda encarnado, ou já subiu para a região pura dos espíritos?

— É um espírito.

— E paira sobre nós?

— Sim...

— Irmão Canedo, - disse o pregador com solenidade, - ponha-se em comunicação com o espírito que paira sobre nós para que possamos estabelecer a concórdia entre as duas almas irmãs.

O nomeado acercou-se da mesa, concentrou-se e entrou a falar com doçura: "Que não tinha ódios, que perdoava..." Mas à pergunta do apóstolo: "Se era homem ou mulher?..." e, à resposta do médium: "Que era mulher..." a mocinha ergueu-se e, espumando, de olhos muito abertos, declarou num grito: "Mentes!" Dona Júlia, profundamente emocionada, rompeu em pranto nervoso, baixando a cabeça sobre o colo. Lembrava-se de Violante. Que seria dela? Onde andaria? Aquele incidente abalou-a, não pelo sofrimento da vítima passiva, mas pelo destino da filha. Pobrezinha! Sem poder conter-se pôs-se de pé chamando a negra imperativamente:

— Vamos, Felícia.

A negra levantou os olhos - duas lágrimas rolaram.

— Agora não, minh'ama.

— Então, fica: eu vou só.

— Como é que minh'ama quer sair? Pois vosmecê não está vendo que ainda não acabou?

— Pois sim, mas eu não espero mais.

E, decidida, a pedir licença, foi-se esgueirando, apertadamente. Os crentes olhavam-na revoltados, murmurando. A negra, vendo-a sair, seguiu-a. O apóstolo foi-lhes ao encontro, muito afável. acompanhando-as ao corredor:

— Então já, minha senhora?

— Sim, senhor. Não posso demorar-me mais.

— A senhora vinha para uma consulta, devia ter experimentado. Mas volte amanhã, mais cedo. Eu faço uma sessão especial.

— Sim, senhor.

Não levantava os olhos molhados, caminhando direito à porta. como para fugir. Felícia seguia-a contrariada, meneando com a cabeça.

— Vou invocar um espírito forte, e talvez lhe possa dizer alguma coisa amanhã. Não deixe de vir.

Estendeu-lhe a mão, todo zumbrido, a sorrir.

— Sim, senhor. Até amanhã.

— Boa noite, minha senhora.

A grande sala da prece estava em penumbra e deserta. Felícia adiantou-se para guiar a viúva que procurava o corrimão da escada, quase em trevas.

— Devagarinho, minh'ama.

Desceram lentamente, caladas. Na rua, ao ar da noite fria, Dona Júlia respirou aliviada.

— Então, minh'ama.

— Ora, Felícia... deixa-me. Não sei onde é que tens o juízo. Se eu soubesse que era para isso...

— Vosmecê está aborrecida?

— Ah! não... não hei de estar. Cansar-me para ver patacoadas.

— Vosmecê não esperou.

— Não esperei... Esperar o quê? - Parou na sombra e, baixinho, em tom severo: Olha, eu creio em Deus, creio no seu poder e na sua misericórdia... Ninguém é mais crente do que eu, mas não posso admitir essas coisas. E por essas e outras que anda, por aí, tanta gente maluca. Vamo-nos embora.

— Minh'ama está zangada comigo?

— Não, não estou zangada contigo, tu crês. Eu é que aqui não ponho mais os pés.

— Por que, minh'ama?

— Eu?! Isto até devia ser proibido. É porque a polícia não sabe.

— Não fale assim, minh'ama.

Ela insistiu:

— Devia sim, devia ser proibido. Olha, se eu tiver de encontrar Violante, hei de encontrá-la. Há de ser o que Deus quiser. Ela há de lembrar-se de mim, porque tem coração, mas aqui?! aqui...! nunca mais!

— Se vosmecê tivesse fé...

— Qual fé! Olha, eu te digo: pensei que saísse daqui impressionada, e saio só com pena daquela pobre mocinha. É mais uma que estão preparando para o hospício.

— Ah! minh'ama... Vosmecê também...

— Tu hás de ver. Queira Deus que eu me engane.

— Então vosmecê pensa que é ela só?

— Não sei, mas essa não acaba bem.

Desciam vagarosamente a Rua da Carioca quando um grande vento passou levantando a poeira. Detiveram-se, de cabeça baixa, coladas à parede, com as saias espadanando. A lua mostrou a lívida face num círculo de grossas nuvens negras, como no fundo de um poço e, aqui, ali, no vasto céu tenebroso, estrelas faiscavam.

— Felizmente não chove, - disse Dona Júlia.

— Só lá para o meio da noite, - augurou a negra, enrolando a trunfa que se desfizera.