Wednesday, 1 September 2021

Thursday Serial: "Le Avventure di Pinocchio" by Carlo Collodi (in Italian) - V

 XVII.

Pinocchio mangia lo zucchero, ma non vuol purgarsi: però quando vede i becchini che vengono a portarlo via, allora si purga. Poi dice una bugia e per gastigo gli cresce il naso.

 

Appena i tre medici furono usciti di camera, la Fata si accostò a Pinocchio, e, dopo averlo toccato sulla fronte, si accòrse che era travagliato da un febbrone da non si dire.

Allora sciolse una certa polverina bianca in un mezzo bicchier d’acqua, e porgendolo al burattino, gli disse amorosamente:

— Bevila, e in pochi giorni sarai guarito. —

Pinocchio guardò il bicchiere, storse un po’ la bocca, e poi domandò con voce di piagnisteo:

— È dolce o amara?

— È amara, ma ti farà bene.

— Se è amara non la voglio.

— Da’ retta a me: bevila.

— A me l’amaro non mi piace.

— Bevila: e quando l’avrai bevuta, ti darò una pallina di zucchero, per rifarti la bocca.

— Dov’è la pallina di zucchero?

— Eccola qui — disse la Fata, tirandola fuori da una zuccheriera d’oro.

— Prima voglio la pallina di zucchero, e poi beverò quell’acquaccia amara....

— Me lo prometti?

— Sì.... —

La Fata gli dette la pallina, e Pinocchio dopo averla sgranocchiata e ingoiata in un attimo, disse leccandosi i labbri:

— Bella cosa se anche lo zucchero fosse una medicina!... Mi purgherei tutti i giorni.

— Ora mantieni la promessa e bevi queste poche gocciole d’acqua, che ti renderanno la salute.—

Pinocchio prese di mala voglia il bicchiere in mano e vi ficcò dentro la punta del naso: poi se l’accostò alla bocca: poi tornò a ficcarci la punta del naso: finalmente disse:

— È troppo amara! troppo amara! Io non la posso bere.

— Come fai a dirlo, se non l’hai nemmeno assaggiata?

— Me lo figuro! L’ho sentita all’odore. Voglio prima un’altra pallina di zucchero… e poi la beverò! —

Allora la Fata, con tutta la pazienza di una buona mamma, gli pose in bocca un altro po’ di zucchero; e dopo gli presentò daccapo il bicchiere.

— Così non lo posso bere! — disse il burattino, facendo mille smorfie.

— Perchè?

— Perchè mi dà noia quel guanciale che ho laggiù sui piedi. —

La Fata gli levò il guanciale.

— È inutile! Nemmeno così la posso bere…

— Che cos’altro ti dà noia?

— Mi dà noia l’uscio di camera, che è mezzo aperto. —

La Fata andò, e chiuse l’uscio di camera.

— Insomma — gridò Pinocchio, dando in uno scoppio di pianto — quest’acquaccia amara, non la voglio bere, no, no, no!…

— Ragazzo mio, te ne pentirai....

— Non me n’importa....

— La tua malattia è grave....

— Non me n’importa....

— La febbre ti porterà in poche ore all’altro mondo....

— Non me n’importa....

— Non hai paura della morte?

— Nessuna paura! Piuttosto morire, che bevere quella medicina cattiva. —

A questo punto, la porta della camera si spalancò, ed entrarono dentro quattro conigli neri come l’inchiostro, che portavano sulle spalle una piccola bara da morto.

— Che cosa volete da me? — gridò Pinocchio, rizzandosi tutto impaurito a sedere sul letto.

— Siamo venuti a prenderti — rispose il coniglio più grosso.

— A prendermi?... Ma io non sono ancora morto!...

— Ancora no: ma ti restano pochi momenti di vita, avendo tu ricusato di bevere la medicina, che ti avrebbe guarito della febbre!...

— O Fata mia, o Fata mia! — cominciò allora a strillare il burattino — datemi subito quel bicchiere.... Spicciatevi, per carità, perchè non voglio morire, no.... non voglio morire. —

E preso il bicchiere con tutte e due le mani, lo votò in un fiato.

— Pazienza! — dissero i conigli. — Per questa volta abbiamo fatto il viaggio a ufo. — E tiratisi di nuovo la piccola bara sulle spalle, uscirono di camera bofonchiando e mormorando fra i denti.

Fatto sta che di lì a pochi minuti, Pinocchio saltò giù dal letto, bell’e guarito; perchè bisogna sapere che i burattini di legno hanno il privilegio di ammalarsi di rado e di guarire prestissimo.

E la Fata, vedendolo correre e ruzzare per la camera, vispo e allegro come un gallettino di primo canto, gli disse:

— Dunque la mia medicina t’ha fatto bene davvero?

— Altro che bene! Mi ha rimesso al mondo!

— E allora come mai ti sei fatto tanto pregare a beverla?

— Egli è che noi ragazzi siamo tutti così! Abbiamo più paura delle medicine che del male.

— Vergogna! I ragazzi dovrebbero sapere che un buon medicamento preso a tempo, può salvarli da una grave malattia e fors’anche dalla morte....

— Oh! ma un’altra volta non mi farò tanto pregare! Mi rammenterò di quei conigli neri, con la bara sulle spalle.... e allora piglierò subito il bicchiere in mano e giù....

— Ora vieni un po’ qui da me, e raccontami come andò che ti trovasti fra le mani degli assassini.

— Gli andò, che il burattinaio Mangiafoco, mi dette cinque monete d’oro, e mi disse: — To’, portale al tuo babbo! — e io, invece, per la strada trovai una Volpe e un Gatto, due persone molto per bene, che mi dissero: — Vuoi che codeste monete diventino mille e duemila? Vieni con noi, e ti condurremo al Campo dei miracoli. — E io dissi, andiamo; — e loro dissero: — Fermiamoci qui all’osteria del Gambero Rosso, e dopo la mezzanotte ripartiremo. — E io, quando mi svegliai, loro non c’erano più, perchè erano partiti. Allora io cominciai a camminare di notte, che era un buio che pareva impossibile, per cui trovai per la strada due assassini dentro due sacchi da carbone, che mi dissero: — Metti fuori i quattrini; — e io dissi: — non ce n’ho; — perchè le monete d’oro me l’ero nascoste in bocca, e uno degli assassini si provò a mettermi le mani in bocca, e io con un morso gli staccai la mano e poi la sputai, ma invece di una mano sputai uno zampetto di gatto. E gli assassini a corrermi dietro, e io corri che ti corro, finchè mi raggiunsero, e mi legarono per il collo a un albero di questo bosco col dire: — Domani torneremo qui, e allora sarai morto e colla bocca aperta, e così ti porteremo via le monete d’oro che hai nascoste sotto la lingua.

— E ora le quattro monete dove le hai messe? — gli domandò la Fata.

— Le ho perdute! — rispose Pinocchio; ma disse una bugia, perchè invece le aveva in tasca.

Appena detta la bugia il suo naso, che era già lungo, gli crebbe subito due dita di più.

— E dove le hai perdute?

— Nel bosco qui vicino. —

A questa seconda bugia, il naso seguitò a crescere.

— Se le hai perdute nel bosco vicino — disse la Fata — le cercheremo e le ritroveremo: perchè tutto quello che si perde nel vicino bosco, si ritrova sempre.

— Ah! ora che mi rammento bene — replicò il burattino imbrogliandosi — le quattro monete non le ho perdute, ma senza avvedermene, le ho inghiottite mentre bevevo la vostra medicina. —

A questa terza bugia, il naso gli si allungò in un modo così straordinario, che il povero Pinocchio non poteva più girarsi da nessuna parte. Se si voltava di qui, batteva il naso nel letto o nei vetri della finestra, se si voltava di là, lo batteva nelle pareti o nella porta di camera, se alzava un po’ di più il capo, correva il rischio di ficcarlo in un occhio alla Fata.

E la Fata lo guardava e rideva.

— Perchè ridete? — gli domandò il burattino, tutto confuso e impensierito di quel suo naso che cresceva a occhiate.

— Rido della bugia che hai detto.

— Come mai sapete che ho detto una bugia?

— Le bugie, ragazzo mio, si riconoscono subito, perchè ve ne sono di due specie: vi sono le bugie che hanno le gambe corte, e le bugie che hanno il naso lungo: la tua per l’appunto è di quelle che hanno il naso lungo. —

Pinocchio, non sapendo più dove nascondersi per la vergogna, si provò a fuggire di camera; ma non gli riuscì. Il suo naso era cresciuto tanto, che non passava più dalla porta.

 

 

XVIII.

Pinocchio ritrova la Volpe e il Gatto, e va con loro a seminare le quattro monete nel Campo dei miracoli.

 

Come potete immaginarvelo, la Fata lasciò che il burattino piangesse e urlasse una buona mezz’ora, a motivo di quel suo naso che non passava più dalla porta di camera; e lo fece per dargli una severa lezione e perchè si correggesse dal brutto vizio di dire bugie, il più brutto vizio che possa avere un ragazzo. Ma quando lo vide trasfigurato e cogli occhi fuori della testa dalla gran disperazione, allora, mossa a pietà, battè le mani insieme, e a quel segnale entrarono in camera dalla finestra un migliaio di grossi uccelli chiamati Picchi, i quali, posatisi tutti sul naso di Pinocchio, cominciarono a beccarglielo tanto e poi tanto, che in pochi minuti quel naso enorme e spropositato si trovò ridotto alla sua grandezza naturale.

— Quanto siete buona, Fata mia, — disse il burattino, asciugandosi gli occhi — e quanto bene vi voglio!

— Ti voglio bene anch’io — rispose la Fata — e se tu vuoi rimanere con me, tu sarai il mio fratellino e io la tua buona sorellina....

— Io resterei volentieri.... ma il mio povero babbo?

— Ho pensato a tutto. Il tuo babbo è stato digià avvertito: e prima che faccia notte, sarà qui.

— Davvero? — gridò Pinocchio, saltando dall’allegrezza. — Allora, Fatina mia, se vi contentate, vorrei andargli incontro! Non vedo l’ora di poter dare un bacio a quel povero vecchio, che ha sofferto tanto per me!

— Va’ pure, ma bada di non ti sperdere. Prendi la via del bosco, e sono sicurissima che lo incontrerai. —

Pinocchio partì: e appena entrato nel bosco, cominciò a correre come un capriòlo. Ma quando fu arrivato a un certo punto, quasi in faccia alla Quercia grande, si fermò, perchè gli parve di aver sentito gente fra mezzo alle frasche. Difatti vide apparire sulla strada, indovinate chi?... la Volpe e il Gatto, ossia i due compagni di viaggio coi quali aveva cenato all’osteria del Gambero rosso.

— Ecco il nostro caro Pinocchio! — gridò la Volpe, abbracciandolo e baciandolo. — Come mai sei qui?

— Come mai sei qui? — ripetè il Gatto.

— È una storia lunga — disse il burattino — e ve la racconterò a comodo. Sappiate però che l’altra notte, quando mi avete lasciato solo sull’osteria, ho trovato gli assassini per la strada....

— Gli assassini?... Oh povero amico! E che cosa volevano?

— Mi volevano rubare le monete d’oro.

— Infami!... — disse la Volpe.

— Infamissimi! — ripetè il Gatto.

— Ma io cominciai a scappare — continuò a dire il burattino — e loro sempre dietro: finchè mi raggiunsero e m’impiccarono a un ramo di quella quercia.... —

E Pinocchio accennò la Quercia grande, che era lì a due passi.

— Si può sentir di peggio? — disse la Volpe. — In che mondo siamo condannati a vivere! Dove troveremo un rifugio sicuro noi altri galantuomini? —

Nel tempo che parlavano così, Pinocchio si accòrse che il Gatto era zoppo dalla gamba destra davanti, perchè gli mancava in fondo tutto lo zampetto cogli unghioli: per cui gli domandò:

— Che cosa hai fatto del tuo zampetto? —

Il Gatto voleva rispondere qualche cosa, ma s’imbrogliò. Allora la Volpe disse subito:

— Il mio amico è troppo modesto, e per questo non risponde. Risponderò io per lui. Sappi dunque che un’ora fa abbiamo incontrato sulla strada un vecchio lupo, quasi svenuto dalla fame, che ci ha chiesto un po’ d’elemosina. Non avendo noi da dargli nemmeno una lisca di pesce, che cosa ha fatto l’amico mio che ha davvero un cuore di Cesare? Si è staccato coi denti uno zampetto delle sue gambe davanti e l’ha gettato a quella povera bestia, perchè potesse sdigiunarsi. —

E la Volpe nel dir così, si asciugò una lagrima.

Pinocchio, commosso anche lui, si avvicinò al Gatto, sussurrandogli negli orecchi:

— Se tutti i gatti ti somigliassero, fortunati i topi!...

— E ora che cosa fai in questi luoghi? — domandò la Volpe al burattino.

— Aspetto il mio babbo, che deve arrivare qui di momento in momento.

— E le tue monete d’oro?

— Le ho sempre in tasca, meno una che la spesi all’osteria del Gambero rosso.

— E pensare che, invece di quattro monete, potrebbero diventare domani mille e duemila! Perchè non dài retta al mio consiglio? Perchè non vai a seminarle nel Campo dei miracoli?

— Oggi è impossibile: vi anderò un altro giorno.

— Un altro giorno sarà tardi!... — disse la Volpe.

— Perchè?

— Perchè quel campo è stato comprato da un gran signore, e da domani in là non sarà più permesso a nessuno di seminarvi i denari.

— Quant’è distante di qui il Campo dei miracoli?

— Due chilometri appena. Vuoi venire con noi? Fra mezz’ora sei là: semini subito le quattro monete: dopo pochi minuti ne raccogli duemila, e stasera ritorni qui colle tasche piene. Vuoi venire con noi? —

Pinocchio esitò un poco a rispondere, perchè gli tornò in mente la buona Fata, il vecchio Geppetto e gli avvertimenti del Grillo-parlante; ma poi finì col fare come fanno tutti i ragazzi senza un fil di giudizio e senza cuore; finì, cioè, col dare una scrollatina di capo, e disse alla Volpe e al Gatto:

— Andiamo pure; io vengo con voi. —

E partirono.

Dopo aver camminato una mezza giornata arrivarono a una città che aveva nome «Acchiappa-citrulli.» Appena entrato in città, Pinocchio vide tutte le strade popolate di cani spelacchiati, che sbadigliavano dall’appetito, di pecore tosate, che tremavano dal freddo, di galline rimaste senza cresta e senza bargigli, che chiedevano l’elemosina d’un chicco di granturco, di grosse farfalle che non potevano più volare, perchè avevano venduto le loro bellissime ali colorite, di pavoni tutti scodati, che si vergognavano a farsi vedere, e di fagiani che zampettavano cheti cheti, rimpiangendo le loro scintillanti penne d’oro e d’argento, oramai perdute per sempre.

In mezzo a questa folla di accattoni e di poveri vergognosi, passavano di tanto in tanto alcune carrozze signorili con entro o qualche volpe, o qualche Gazza ladra, o qualche uccellaccio di rapina.

— E il Campo dei miracoli dov’è? — domandò Pinocchio.

— È qui a due passi. —

Detto fatto traversarono la città, e, usciti fuori dalle mura, si fermarono in un campo solitario che, su per giù, somigliava a tutti gli altri campi.

— Eccoci giunti — disse la Volpe al burattino. — Ora chinati giù a terra, scava con le mani una piccola buca nel campo, e mettici dentro le monete d’oro. —

Pinocchio obbedì. Scavò la buca, ci pose le quattro monete d’oro che gli erano rimaste: e dopo ricoprì la buca con un po’ di terra.

— Ora poi — disse la Volpe — va’ alla gora qui vicina, prendi una secchia d’acqua e annaffia il terreno dove hai seminato. —

Pinocchio andò alla gora, e perchè non aveva lì per lì una secchia, si levò di piedi una ciabatta e riempitala d’acqua, annaffiò la terra che copriva la buca. Poi domandò:

— C’è altro da fare?

— Nient’altro — rispose la Volpe. — Ora possiamo andar via. Tu poi ritorna qui fra una ventina di minuti, e troverai l’arboscello già spuntato dal suolo e coi rami tutti carichi di monete. —

Il povero burattino, fuori di sè dalla contentezza, ringraziò mille volte la Volpe e il Gatto, e promise loro un bellissimo regalo.

— Noi non vogliamo regali — risposero que’ due malanni. — A noi ci basta di averti insegnato il modo di arricchire senza durar fatica, e siamo contenti come pasque. —

Ciò detto salutarono Pinocchio, e augurandogli una buona raccolta, se ne andarono per i fatti loro.

 

 

XIX.

Pinocchio è derubato delle sue monete d’oro, e per gastigo, si busca quattro mesi di prigione.

 

Il burattino, ritornato in città, cominciò a contare i minuti a uno a uno: e, quando gli parve che fosse l’ora, riprese subito la strada che menava al Campo dei miracoli.

E mentre camminava con passo frettoloso, il cuore gli batteva forte e gli faceva tic, tac, tic, tac, come un orologio da sala, quando corre davvero. E intanto pensava dentro di sè:

— E se invece di mille monete, ne trovassi su i rami dell’albero duemila?... E se invece di duemila, ne trovassi cinquemila? E se invece di cinquemila ne trovassi centomila? O che bel signore, allora, che diventerei!... Vorrei avere un bel palazzo, mille cavallini di legno e mille scuderie, per potermi baloccare, una cantina di rosolii e di alchermes, e una libreria tutta piena di canditi, di torte, di panettoni, di mandorlati e di cialdoni colla panna. —

Così fantasticando, giunse in vicinanza del campo, e lì si fermò a guardare se per caso avesse potuto scorgere qualche albero coi rami carichi di monete: ma non vide nulla. Fece altri cento passi in avanti, e nulla: entrò sul campo.... andò proprio su quella piccola buca, dove aveva sotterrato i suoi zecchini, e nulla. Allora diventò pensieroso e, dimenticando le regole del Galateo e della buona creanza, tirò fuori una mano di tasca e si dette una lunghissima grattatina di capo.

In quel mentre sentì fischiare negli orecchi una gran risata: e voltatosi in su, vide sopra un albero un grosso pappagallo, che si spollinava le poche penne che aveva addosso.

— Perchè ridi? — gli domandò Pinocchio con voce di bizza.

— Rido, perchè nello spollinarmi mi son fatto il solletico sotto le ali. —

Il burattino non rispose. Andò alla gora e riempita d’acqua la solita ciabatta, si pose nuovamente ad annaffiare la terra che ricopriva le monete d’oro.

Quand’ecco che un’altra risata, anche più impertinente della prima, si fece sentire nella solitudine silenziosa di quel campo.

— Insomma — gridò Pinocchio, arrabbiandosi — si può sapere, Pappagallo mal educato, di che cosa ridi?

— Rido di quei barbagianni, che credono a tutte le scioccherie e che si lasciano trappolare da chi è più furbo di loro.

— Parli forse di me?

— Sì, parlo di te, povero Pinocchio; di te che sei così dolce di sale, da credere che i denari si possano seminare e raccogliere nei campi, come si seminano i fagiuoli e le zucche. Anch’io l’ho creduto una volta, e oggi ne porto le pene. Oggi (ma troppo tardi!) mi son dovuto persuadere che per mettere insieme onestamente pochi soldi bisogna saperseli guadagnare o col lavoro delle proprie mani o coll’ingegno della propria testa.

— Non ti capisco, — disse il burattino, che già cominciava a tremare dalla paura.

— Pazienza! Mi spiegherò meglio — soggiunse il Pappagallo. — Sappi dunque che, mentre tu eri in città, la Volpe e il Gatto sono tornati in questo campo: hanno preso le monete d’oro sotterrate, e poi sono fuggiti come il vento. E ora, chi li raggiunge è bravo! —

Pinocchio restò a bocca aperta, e non volendo credere alle parole del Pappagallo, cominciò colle mani e colle unghie a scavare il terreno che aveva annaffiato. E scava, scava, scava, fece una buca così profonda, che ci sarebbe entrato per ritto un pagliaio: ma le monete non ci erano più.

Preso allora dalla disperazione, tornò di corsa in città e andò difilato in tribunale, per denunziare al giudice i due malandrini, che lo avevano derubato.

Il giudice era uno scimmione della razza dei Gorilla: un vecchio scimmione rispettabile per la sua grave età, per la sua barba bianca e specialmente per i suoi occhiali d’oro, senza vetri, che era costretto a portare continuamente, a motivo d’una flussione d’occhi, che lo tormentava da parecchi anni.

Pinocchio, alla presenza del giudice, raccontò per filo e per segno l’iniqua frode, di cui era stato vittima; dette il nome, il cognome e i connotati dei malandrini, e finì chiedendo giustizia.

Il giudice lo ascoltò con molta benignità; prese vivissima parte al racconto: s’intenerì, si commosse: e quando il burattino non ebbe più nulla da dire, allungò la mano e suonò il campanello.

A quella scampanellata comparvero subito due can mastini vestiti da giandarmi.

Allora il giudice, accennando Pinocchio ai giandarmi, disse loro:

— Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d’oro: pigliatelo dunque, e mettetelo subito in prigione. —

Il burattino, sentendosi dare questa sentenza fra capo e collo, rimase di princisbecco e voleva protestare: ma i giandarmi, a scanso di perditempi inutili, gli tapparono la bocca e lo condussero in gattabuia.

E lì v’ebbe a rimanere quattro mesi: quattro lunghissimi mesi: e vi sarebbe rimasto anche di più, se non si fosse dato un caso fortunatissimo. Perchè bisogna sapere che il giovane Imperatore che regnava nella città di Acchiappa-citrulli, avendo riportato una gran vittoria contro i suoi nemici, ordinò grandi feste pubbliche, luminarie, fuochi artificiali, corse di barberi e velocipedi, e in segno di maggiore esultanza, volle che fossero aperte anche le carceri e mandati fuori tutti i malandrini.

— Se escono di prigione gli altri, voglio uscire anch’io — disse Pinocchio al carceriere.

— Voi no, — rispose il carceriere — perchè voi non siete del bel numero....

— Domando scusa; — replicò Pinocchio — sono un malandrino anch’io.

— In questo caso avete mille ragioni — disse il carceriere; e levandosi il berretto rispettosamente e salutandolo, gli aprì le porte della prigione e lo lasciò scappare.

 

 

XX.

Liberato dalla prigione, si avvia per tornare a casa della Fata; ma lungo la strada trova un serpente orribile, e poi rimane preso alla tagliuola.

 

Figuratevi l’allegrezza di Pinocchio quando si sentì libero. Senza stare a dire che è e che non è, uscì subito fuori della città e riprese la strada, che doveva ricondurlo alla Casina della Fata.

A cagione del tempo piovigginoso, la strada era diventata tutta un pantano e ci si andava fino a mezza gamba. Ma il burattino non se ne dava per inteso. Tormentato dalla passione di rivedere il suo babbo e la sua sorellina dai capelli turchini, correva a salti come un can levriero, e nel correre le pillacchere gli schizzavano fin sopra il berretto. Intanto andava dicendo fra sè e sè: «Quante disgrazie mi sono accadute.... E me le merito! perchè io sono un burattino testardo e piccoso..., e voglio far sempre tutte le cose a modo mio, senza dar retta a quelli che mi voglion bene e che hanno mille volte più giudizio di me!... Ma da questa volta in là, faccio proponimento di cambiar vita e di diventare un ragazzo ammodo e ubbidiente.... Tanto ormai ho bell’e visto che i ragazzi, a essere disubbidienti, ci scapitano sempre e non ne infilano mai una per il su’ verso. E il mio babbo mi avrà aspettato?... Ce lo troverò a casa della Fata? È tanto tempo, pover’uomo, che non lo vedo più, e che mi struggo di fargli mille carezze e di finirlo dai baci! E la Fata mi perdonerà la brutta azione che le ho fatta?... E pensare che ho ricevuto da lei tante attenzioni e tante cure amorose.... e pensare che se oggi son sempre vivo, lo debbo a lei! Ma si può dare un ragazzo più ingrato e più senza cuore di me?...»

Nel tempo che diceva così, si fermò tutt’a un tratto spaventato, e fece quattro passi indietro.

Che cosa aveva veduto?

Aveva veduto un grosso Serpente, disteso attraverso alla strada, che aveva la pelle verde, gli occhi di fuoco e la coda appuntata che gli fumava come una cappa di camino.

Impossibile immaginarsi la paura del burattino: il quale, allontanandosi più di mezzo chilometro, si mise a sedere sopra un monticello di sassi, aspettando che il serpente se ne andasse una buona volta per i fatti suoi e lasciasse libero il passo della strada.

Aspettò un’ora; due ore: tre ore: ma il serpente era sempre là, e, anche di lontano, si vedeva il rosseggiare de’ suoi occhi di fuoco e la colonna di fumo che gli usciva dalla punta della coda.

Allora Pinocchio, figurandosi di aver coraggio, si avvicinò a pochi passi di distanza, e facendo una vocina dolce, insinuante e sottile, disse al Serpente:

— Scusi, signor Serpente, che mi farebbe il piacere di tirarsi un pochino da una parte, tanto da lasciarmi passare? —

Fu lo stesso che dire al muro. Nessuno si mosse.

Allora riprese colla solita vocina:

— Deve sapere, signor Serpente, che io vado a casa, dove c’è il mio babbo che mi aspetta e che è tanto tempo che non lo vedo più!... Si contenta dunque che io seguiti per la mia strada? —

Aspettò un segno di risposta a quella domanda: ma la risposta non venne: anzi il serpente, che fin allora pareva arzillo e pieno di vita, diventò immobile e quasi irrigidito. Gli occhi gli si chiusero e la coda gli smesse di fumare.

— Che sia morto davvero?... — disse Pinocchio, dandosi una fregatina di mani dalla gran contentezza; e senza mettere tempo in mezzo, fece l’atto di scavalcarlo, per passare dall’altra parte della strada. Ma non aveva ancora finito di alzare la gamba, che il Serpente si rizzò all’improvviso come una molla scattata: e il burattino, nel tirarsi indietro spaventato, inciampò e cadde per terra.

E per l’appunto cadde così male, che restò col capo conficcato nel fango della strada e colle gambe ritte su in aria.

Alla vista di quel burattino, che sgambettava a capo fitto con una velocità incredibile, il Serpente fu preso da una tal convulsione di risa, che ridi, ridi, ridi, alla fine, dallo sforzo del troppo ridere, gli si strappò una vena sul petto: e quella volta morì davvero.

Allora Pinocchio ricominciò a correre per arrivare a casa della Fata avanti che si facesse buio. Ma lungo la strada, non potendo più reggere ai morsi terribili della fame, saltò in un campo coll’intenzione di cogliere poche ciocche d’uva moscadella. Non l’avesse mai fatto!

Appena giunto sotto la vite, crac.... sentì stringersi le gambe da due ferri taglienti, che gli fecero vedere quante stelle c’erano in cielo.

Il povero burattino era rimasto preso da una tagliuola appostata là da alcuni contadini per beccarvi alcune grosse faine, che erano il flagello di tutti i pollai del vicinato.

Good Reading: "The Three Presents" by Ludwig Bechstein (translated into English)

Once there was a poor weaver, and there are many of them even now. But this one was born under a lucky star, for one day three rich students came by his house, saw the great poverty he lived in, and gave him a hundred dollars to help him in his business.

The poor man looked for a long time at the coins before he touched them. He could not make up his mind what to do with them, so he hid the money in a bindle of rags, where nobody would look for it. His wife was not at home at the time.

Some time later a rag-dealer came to his house while the weaver was away, and bought from his wife the bundle of rags that the weaver had hid the money in. The weaver lamented a lot when he came home and his wife showed him the good bargain she thought she had made of the rags.

A year later the three students came again. They hoped to find the weaver well off, but he was poorer than ever and told them how he had lost the money. A second time they gave him a hundred dollars, telling him to be more careful.

This time he put the money into the ash-pit without letting his wife into the secret. But while he was away one day, his wife sold the ashes to a man who came round for them, and in return got two pieces of soap. She flattered herself she had this time acted wisely, for her husband who had cautioned her never to sell any more linen to pedlars, had said nothing about anything else.

But when the husband came home and heard of the bargain, he flew into a violent rage.

When a year had passed the students came again. When they found the weaver still in rags, they said to him while they threw a piece of lead at his feet, "What use is nutmeg to a cow! We will never come back here again!"

They went away in a rage. The weaver picked up the lead they had left and laid it on the window-sill. Soon afterwards his neighbour, a fisherman, came in and asked if he had by him a piece of lead or something else that was as heavy, so that he could sink his nets with it.

The weaver gave him the piece of lead from the windowsill. The fisherman thanked him and went away, promising to bring him the first fish he could catch in exchange for the lead.

Soon afterwards the fisherman brought in a fine fish and forced the weaver to accept it. It weighed four or five pounds. But when the weaver cut up the fish, he found a great stone in it. He placed the stone on the spot where the lead had been. Then, when it grew dark, he was surprised to see that the stone glittered and shone like a lamp. "

This is a valuable stone," said he to his wife. "See to it that you do not throw it away as you did my two hundred dollars."

The next evening a nobleman rode past the cottage and saw the glittering stone on the window-sill. He went into the house and offered ten dollars for it.

"The stone is not for sale," said the weaver.

"Not for twenty dollars even?" asked the nobleman.

"Even so," said the weaver.

But the nobleman kept on bidding for it till he had offered a thousand dollars, for the stone was a costly diamond and really worth two times as much.

The weaver accepted the offer and thereby became as rich as any in the village. But his wife would have her last word and said, "All this wealth comes from my giving away the two hundred dollars, so you should thank me a lot, after all!"

Tuesday, 31 August 2021

Tuesday's Serial: "Turbilhão" by Coelho Neto (in Portuguese) - VI

 Capítulo VIII

Eram nove horas da manhan quando D. Julia foi bater á porta do quarto do filho, chamando-o. Paulo levantou-se de mau hunior.

— Que é, mamãi?

— Está ahi o cobrador da casa.

— Que historia! Diga-lhe que eu vou levar o dinheiro, que ainda não recebi.

— Por que não falas tu mesmo? Eu tenho tanta vergonha...

— Vergonha de que? Tambem a senhora tem vergonha de tudo. Que espere um pouco; eu não hei de inventar dinheiro.

— E a joia? perguntou ella baixinho.

Paulo resmungou:

— Hontem não foi possivel, tive muito que fazer. Vou hoje.

A velha afastou-se e Paulo, deitando-se de novo, a fumar, recapitulou o desastre da véspera: quase todo o dinheiro perdido ao jogo, num só número, o 28. Como sair daquele aperto? A quem recorrer? Não lhe lembrava o nome de um amigo, de um conhecido. Como derradeira e única esperança ocorreu-lhe o do velho Fábio. Não tinha coragem de o procurar. Se lhe escrevesse? Mamede levaria a carta. Com tal idéia voltou-lhe a calma, serenou como se já houvesse recebido a quantia e, assobiando, saltou da cama, sentou-se à mesa e pôs-se a redigir uma carta aflita referindo-se, com grandes queixas, à Violante "única culpada daqueles embaraços em que se viam".

O pedido era de duzentos mil-réis e, acrescentava, mentindo, que: "tendo conseguido um emprego vantajoso, no mês próximo saldaria o débito, ficando eterna a gratidão". Animado, vestiu-se, fechou a carta na gaveta e passou à sala de jantar. Dona Júlia, sentada à mesa, cerzia uns pares de meias e, quando o viu aparecer, disse-lhe lentamente, sem levantar os olhos:

— Olha, Paulo, vai ver esse dinheiro. O homem ficou aborrecido.

— Aborrecido, por quê? Não dei fiador? Que espere!

Foi ao banho e, tomando apenas uma xícara de café, vestiu-se saindo para a estalagem. Mamede recebeu-o sorrindo e, como ele lhe falasse da carta, pôs-se imediatamente à sua disposição.

— Vosmecê quer esperar a resposta aqui ou na cidade?

— Como quiseres.

— Aqui é melhor.

— Pois sim.

— Eu vou num pulo. - Vestiu-se às pressas e pronto, com um bengalão debaixo do braço, despediu-se, dizendo, a rir: Eu sei que vamos ter cena; aquilo é agarrado que nem ostra, mas manda, para vosmecê ele manda, afirmou convencido, a enrolar um cigarro. Então até já, nhozinho.

— Até já, Mamede.

Deixou-se ficar a um canto, e, vendo um velho almanaque em cima da mesa, tomou-o, pôs-se a folhear as páginas amarelecidas e rotas, procurando anedotas. As lavadeiras, em zaragalhada, chalravam, cantavam, batiam a roupa, ao sol; pequenos, em fraldas de camisa, empinavam papagaios. Na casa contígua uma máquina de costura estrepitava e a voz rouca de um homem cantarolava amores. Ritinha, que não aparecera, pouco depois do mulato haver saído, perguntou do fundo da casa:

— Quer uma xícara de café?

Paulo estremeceu ao ouvir-lhe a voz e, sorrindo, respondeu vagaroso:

— Não sou pobre soberbo.

E, entre os dois, com a cortina de permeio, travou-se um curto diálogo.

— É o senhor que fugiu daqui?

— Não...

— Por que não tem aparecido?

— Trabalhos.

— Faço idéia!

— Palavra. Estou com os estudos.

— Então não pode tirar uma hora, ao menos, para ver a gente?

— Vontade não me falta.

E, folheando distraidamente o almanaque, sorria.

— Gosta com muito açúcar?

— Não muito.

Soaram passos no corredor e Ritinha, afastando a cortina, passou o braço roliço oferecendo a xícara de café. O estudante, não lhe podendo ver o rosto, perguntou:

— Está com vergonha de mim?

— Uê... Vergonha? Vergonha por quê? Eu, não!

— Então por que não aparece?

Um risinho infantil foi a resposta, logo depois, o rosto risonho da mulata mostrou-se, com os olhos muito pretos e vivos, a boca vermelha e úmida entreaberta descobrindo os dentinhos brancos que reluziam.

— Quem é bonita assim não se esconde.

— Bonita! Eu?! coitada de mim! Quem perdeu boniteza para eu achar?

Paulo tomou a xícara e pôs-se a chuchurrear o café lentamente, sorrindo para a mulata que se bambaleava dengosa.

— Mamede foi muito longe?

— Ao Engenho Novo.

— Nossa Senhora! Fazer o quê?

— A negócio...

— Negócio...! - e esticou o lábio carnudo, mordendo-o depois, com um sorvo, d'olhos faceiramente revirados. Por fim, derreando a cabeça, num quebranto, esticou o braço para receber a xícara. O rapaz fitou-a abrasado.

— Que é que está me olhando? Deixe ver a xícara.

Paulo ardia em volúpia. Adiantou um passo, ainda indeciso, hesitante, com medo. Ela baixou os olhos fingindo-se distraída. De repente, como se o houvessem impelido, achou-se no corredor, face a face com a rapariga. Ela encolheu-se, colada à parede, os braços cruzados como a defender o colo; estava em mangas de camisa, com uma saia de ramagens.

— Que é isto? O senhor está doido!? - exclamou arrepiada, retraindo-se.

Paulo ficou a contemplá-la, sem uma palavra, trêmulo, farejando o cheiro sensual que se desprendia daquela carne de mestiça, viçosa e árdega. Adiantou-se com a humildade de um vencido, balbuciando tremulamente:

— Ritinha.

— Que é? fez ela, toda lânguida, d'olhos úmidos, inclinando a cabeça sobre o ombro nu, reluzente.

Ele estendeu a mão, ela curvou-se, arisca, encolhida:

— Olhe Mamede...! Não se fie. Ele, às vezes, diz que vai aqui, ali quando menos se espera, aparece.

Dobrou-se, agachou-se, fazendo-se pequenina, evitando as mãos que a procuravam.

— Não faça isso...

Coleava e ria, nervosa.

— Não brinque assim... Eu quebro a xícara.

De repente, muito séria, murmurou:

— Olhe que podem ver... Essa gente da estalagem é muito bisbilhoteira.

Paulo, porém, insistia e a mulata, a torcer-se com as cócegas, às gargalhadas nervosas, amolecia.

 

— Fique quieto... Fique quieto...

A xícara rolou tinindo. Fora, o canário cantava estridulamente e estalava a roupa que as lavadeiras batiam.

Mamede, logo ao entrar, alagado em suor, atirando o chapéu para cima da mesa, irrompeu contra o velho: "Que era um cigano, um unhas-de-fome, um malcriadão".

— Olhe, nhozinho, eu não fiz uma estralada naquela biboca por causa de vosmecê. A minha vontade foi mandar a testa nos queixos daquele sujo e varrer aquilo tudo a pé. Mas Deus é grande! Está agora cheio de empáfia, um porcaria que eu conheci pindaíba que nem tinha um casaco decente para vestir.

— Não mandou...?

— Qual nada! Disse que vai falar com a velha. E não imagina os desaforos que atirou em cima de vosmecê. E veio todo o mundo para a sala, e todo o mundo falou, uma porção de mulheres, uma corumbada de meter medo. A sua carta andou de mão em mão, e eu na porta, em pé, rachando debaixo do sol. Nem, por delicadeza, me mandaram entrar. Aquilo, nhozinho...! Eu nunca me enganei com aquele cabuloso. Qual! gente de muita conversa é assim mesmo, não vale nada. Vosmecê escreva: não vale nada. Quem quer dar não faz discurso.

Paulo baixou a cabeça, sucumbido, e ficou a retorcer nervosamente o buço enquanto o mulato, já em mangas de camisa, examinava garrafas. Ritinha apareceu:

— Ah! Mamede... que horas! E eu aqui sem almoçar.

— E eu? Quem sabe se você pensa que fui brincar? Pois tira o almoço.

Virou, de um trago, o codório e, passando a mão pelos duros bigodes, disse, pigarreando: Nhozinho também ainda não almoçou.

— Ainda não; mas não tenho fome.

— Não tem fome! - Desatou a rir. - Está amofinado. Ah! nhozínho, bem se vê que vosmecê está entrando agora no mundo. Isso é uma canalha! É uma canalha! Quanto mais rico, pior. Não ligue, faça como eu. Se eu me aborrecesse por causa dessas coisas... então...! Dinheiro? dinheiro é nada; tenha a gente saúde, o mais...

Ritinha, encostada ao umbral da porta, olhava distraidamente o céu, muito azul, quando Mamede falou:

— Ó dengues, tira esses troços duma vez que eu ainda tenho que fazer, e é quase meio-dia.

— Já vou, - disse ela, deixando escapar um suspiro.

À mesa, os três conversaram alegremente, e Paulo, balançando a perna, encontrou um dos joelhos da mulata, e, durante todo o almoço, sentiu-o, afagou-o voluptuosamente. Refeito e esquecendo a avareza do velho Fábio, decidiu-se a tentar a sorte com o pouco que lhe restava e, distraindo-se, enquanto Ritinha retirava os pratos e a toalha e Mamede mudava a camisa, assobiando, pôs-se a imaginar uma grande sorte. uma repetição, e via os montes de fichas, ouvia-lhes o estrépito e acumulava cartões: Eram plenos sobre plenos, uma fortuna! Tirou do bolso o dinheiro que tinha e, folheando as notas por baixo da mesa, com cuidado de usurário, achou trinta e cinco mil-réis; guardou-os, pôs-se de pé, mas a mulatinha reteve-o com um sorriso.

— Já quer sair? Não toma café?

Mamede falou do quarto, em sobressalto:

— Espera um instante, nhozinho.

— Sim.

Ritinha encaminhou-se para o corredor e Paulo, vendo-lhe os quadris carnudos, que bambaleavam, adiantou-se em pontas de pés, as mãos estendidas; ela parou, como fascinada. Ele atiroulhe os braços ao pescoço e, mesmo de costas, a mulata derreou a cabeça e as bocas ficaram coladas num beijo muito longo. De repente apartaram-se: ela fugiu surdamente pelo corredor, ele foi ficar à porta, olhando as lavadeiras que, ao longe, com as saias arregaçadas, mostrando as pernas fortes, estendiam a roupa nos coradouros ou em cordas que vergavam.

Um sino soava gravemente ao longe e, percorrendo a estalagem, ao vivo sol, um homem com uma caixa à cabeça, pintada a listas de várias cores, soprava uma cometa fanhosa.

— Pronto! - exclamou o mulato saindo do quarto com umas calças de brim e uma lustrosa camisa de chita. Enrolava um cigarro e, chegando-se muito ao estudante, sussurrou:

— Nhozinho tem aí uma de cinco que me empreste até amanhã? É só até amanhã.

Paulo não teve ânimo de negar - meteu a mão no bolso, escolheu uma cédula e entregou-a ao mulato.

— E só até amanhã, nhozinho.

— Ora...

— Vosmecê não quis aparecer mais em casa do Cordeiro? Desconfiou com o trombone? Pois olhe: Eu, noutro dia, fiz um estrupício doido no pequeno. E estava só dizendo: Ah! se nhozinho estivesse aqui chamava uma cobreira grossa desses manos.

Depois do café saíram. Paulo, porém, para livrar-se do mulato, despediu-se ao portão, tomando um bonde.

Dona Júlia passou o dia em torturas, preocupada com o aluguel da casa. Se um bonde parava perto, logo alarmada, invocava Nossa Senhora, receando a presença do cobrador, temendo o escândalo.

"Que diriam aquelas mulheres da vizinhança, a gorda, principalmente, que ria de tudo?" Dava-lhe maior cuidado a opinião dos vizinhos do que o próprio vexame. Resignava-se a todo sofrimento, mas a idéia de ser tida por uma caloteira, amofinava-a. Lembrando-se, porém, do filho, animou-se. Ele, por certo, já entregara o dinheiro à senhoria, e como até à tarde ninguém aparecesse, tranqüilizou-se.

Até horas altas da noite esteve a pensar, acotovelada à cômoda, diante dos santos, mas, cedendo à fadiga, deitou-se e adormeceu, acordando de madrugada, em sobressalto, como se houvesse sido sacudida por alguém. O seu primeiro pensamento foi para o filho: 'Teria ele entrado? Quem lhe abrira a porta? Felícia..." Levantou-se, foi ao quarto negra que já enrolava a esteira:

— Paulo veio, Felícia?

— Não senhora.

— Não veio!?

— Que eu visse, não, senhora.

Ficou parada à porta do quarto a olhar. Era a primeira vez que o filho pernoitava fora. Que teria acontecido?

— Hein, Felícia?

— Senhora...

— Paulo... Quem sabe se aconteceu alguma coisa?!

— Qual o quê, minh'ama. Nhonhô é moço, ficou com algum companheiro.

— Não...

Apreensiva, deixou-se estar à porta do quarto, pensando.

— Homem não tem perigo, minh'ama.

Sem responder, a velha foi caminhando para a sala. Lembrava-se do desaparecimento de Violante. Que fatalidade era essa que assim lhe ia levando os filhos, um a um? Que grande crime teria ela cometido para que Deus a condenasse a tão duro castigo? Abriu com cuidado a porta do quarto do filho e espiou: a cama estava feita, com os lençóis muito esticados, alvejando. "Que teria acontecido, Deus do céu!" E entrou, com olhares pelos cantos, como se procurasse alguma coisa.

Aquela companhia do Mamede dava-lhe cuidado. Conhecia-o bem. No tempo do falecido volta e meia era um recado, um pedido: porque o mulato fora preso num barulho ou apanhado numa casa de jogo.

Duma feita, deixando um homem por morto, com uma navalhada, respondera a júri, sendo absolvido à força de empenhos, que até políticos haviam trabalhado por ele. E Paulo que o não deixava! Vão ver que andou por aí de pagode com o perdido. Suspirou.

— Qual! Deus não tem pena de mim...

Eram onze horas quando bateram à porta. Felícia não estava, tinha ido à venda. Dona Júlia estremeceu: "Quem será, meu Jesus..." Espiou por entre as rexas da rótula e empalideceu reconhecendo o cobrador da casa. Para evitar o escândalo abriu a porta, convidou-o a entrar, muito vexada, dizendo "que o filho saíra para receber".

O homem mirou-a sacudindo o berloque da corrente.

— Mas eu não posso estar a fazer esta caminhada todos os dias, minha senhora. Anteontem a senhora disse-me que seu filho iria levar-me o dinheiro: não foi... Francamente, isto já parece caçoada.

— Tenha paciência; a vida está hoje tão difícil...

— Ah! sim...

— Ele vai hoje, talvez já tenha ido.

— Eu é que não volto cá; diga-lhe isto mesmo. E, com um risinho mau: Começa bem, não há dúvida: logo no primeiro mês. Ao sair, declarou: Que iria ter com o fiador se até a tarde não recebesse o dinheiro.

— Tenha paciência, meu senhor.

— Passe bem.

Deu as costas e foi resmungando. Dona Júlia ficou como sufocada e fechando a porta, atirou-se ao sofá, soluçando. Caindo a noite sem que houvesse notícia de Paulo, numa resolução desesperada, ela foi à caixa em que guardava as jóias e pôs-se a escolher algumas para levar ao penhor.

Quais haviam de ser? Tinha o crucifixo de ouro, velha relíquia de família, que fora de sua mãe; beijou-o e, veneradamente, pô-lo de parte, sobre o travesseiro. Tomou uma medalhinha esmaltada - os "olhos de Santa Luzia", figas de coral, de azeviche, que as crianças haviam usado contra o quebranto; depois uma grossa pulseira, dos anéis com pedras, uma fivela de ouro e a medalha do falecido com o monograma a brilhantes. Mirou-a muito tempo, com remorso, supesou-a, abriu-a: em cada uma das faces, sob lâminas de vidro, enroscava-se um anel de finos cabelos louros: eram dos filhos; retirou-os e, fechando a medalha, suspirou. Felícia acabava de limpar a cozinha, quando ela a chamou, dizendo: que iam sair. A negra encarou-a, espantada:

— Paulo não aparece, não sei por onde anda e eu não quero esse homem da casa aqui todos os dias. Vou empenhar umas jóias e, como não conheço as ruas...

— Se fosse de dia a gente podia ir ao Monte de Socorro, mas de noite, só nessas casas. Minh'ama quer ir assim mesmo?

— Vamos.

A negra foi vestir-se e, pouco depois, saíam muito juntas, conversando tranqüilamente. Felícia não conhecia as casas de penhores e esteve a dar voltas pelo Largo do Rocio, atarantada, a olhar, até que resolveu perguntar a um homem que lhe indicou uma travessa, mostrando-lhe a casa iluminada. A negra, que deixara Dona Júlia à espera, junto ao teatro, correu a buscá-la.

— Vamos, minh'ama. - A velha seguiu-a, muito tímida, evitando os transeuntes, cosendo-se com a parede até que alcançaram a casa. - É aqui. Vosmecê entre; eu espero na porta.

Dona Júlia entrou, metendo-se em um dos cubículos. Ao lado falavam, era um murmúrio vago de palavras indistintas, pronunciadas como no mistério da confissão. Um súbito receio gelou-a: "E se o homem, vendo-a tão pobre e com aquela jóia rara, tomasse-a por uma ladra?!"

Trêmula, pôs-se a desembrulhar a medalha e foi com um fio de que respondeu à pergunta: "que precisava de quatrocentos mil réis. "O homem retirou-se com a medalha e, à luz, abriu-a, examinou-a detidamente, virando-a, revirando-a, sacudindo-a na palma da mão; pesou-a numa pequena balança, depois, tomando ao balcão, disse secamente:

— Duzentos mil-réis.

— Só!? exclamou a viúva espantada.

— Os brilhantes são muito pequenos.

— E trezentos?

— Duzentos.

E ia deixando a medalha quando ela suspirou resignada:

— Leve. Os senhores não têm pena da gente.

O homem retirou-se e ela, sentindo fortíssimas agulhadas nas pernas, encostou-se ao tabique e ficou a olhar a parede fronteira cheia de relógios - uns parados, outros trabalhando, quadros, vasos artísticos em peanhas, um oratório de jacarandá, com um fundo azul de céu.

Eram os reféns da miséria que ali se juntavam, eram as alegrias do pobre que ficavam cativas pelo pão e pelo remédio, e ela pensava em outros infelizes, quantos! sofrendo mais do que ela, por esse mundo vasto e descaridoso.

Sentindo que empurravam a porta do cubículo voltou-se assustada e viu um velhinho engelhado, com um embrulho debaixo do braço. O intruso atrapalhou-se, murmurou uma desculpa e passou adiante. O homem apareceu com um livro para que ela assinasse: tomou da pena e, tremulamente, deixou o nome, a rua e o número da sua casa. Esteve ainda algum tempo à espera até que ele reapareceu com a cautela e o dinheiro.

Felícia esperava à porta, a olhar os carros estacionados junto á calçada.

— Então, minh'ama?

A velha murmurou caminhando:

— Duzentos mil-réis, Felícia, por uma medalha que custou ao velho uma fortuna. Eu sei: ele viu-me assim pobre... - E suspirando: E eu que contava levar todo o dinheiro de que careço. Nem chega para te pagar. Tem paciência até o princípio do mês, quando eu receber do Tesouro.

— Não faz mal, minh'ama: eu tendo para o meu fumo...

— Agora se precisas de alguma coisa...?

— Não, senhora; eu vou-me arranjando. Quando vosmecê receber.

— Pois sim. O que eu quero é ficar livre daquele homem. Não sei dever, não está em mim: fico que só Deus sabe. E Paulo não se emprega. Não sei que há de ser de nós. Amanhã, bem cedo, hás de levar o dinheiro à senhoria.

— Sim, senhora. Mas vosmecê não se amofine, minh'ama; Deus é muito grande!

— E Paulo? Onde andará? Pois então aquele menino não sabe que sou doente? Como é que sai assim sem dizer uma palavra? Isto até parece castigo de Deus. Pois eu nunca fiz mal a ninguém...

— Não é só minh'ama que sofre.

— Ora o quê? mas como eu tenho sofrido, Felícia?!

— Deus é grande! Mais tem ele pra dar, minh'ama.

Quando chegaram a casa a vizinha, que cantarolava à janela, disse "que o moço estivera ali muito tempo, batendo". As duas mulheres ficaram perplexas.

— E para que lado foi, minha senhora? perguntou a velha.

— Ele subiu. Creio que tomou um bonde.

— E agora, Felícia?

— Ele volta, minh'ama.

Efetivamente, como se rondasse perto, à espreita, pouco depois delas haverem entrado, Paulo bateu. Dona Júlia apressou-se e, vendo-o, iluminou-se-lhe o rosto. Longe de o recriminar recebeu-o contente, sorrindo. O estudante, deixando o chapéu sobre a mesa, sentou-se esparramadamente no sofá, abrindo os braços no encosto:

— Com certeza já estava aflita com a minha demora?

— Ah! não... não havia de estar.

— Pois eu andei na lida: a procurar a senhora minha irmã.

— E então?

— Qual! Um companheiro do Mamede, maquinista da Estrada. disse que a vira em Mendes, com um estrangeiro. Fui lá. Efetivamente encontrei uma moça muito parecida com ela, um pouco mais cheia. - Entrou no quarto e declarou desanimado: Qual! aquela não aparece tão cedo, se aparecer... O velho Fábio esteve aqui, mamãe?

— Não. Por quê?

— Avarento! - rosnou reaparecendo em mangas de camisa.

— Estiveste com ele?

— Não, senhora. Escrevi uma carta pedindo-lhe uma quantia para não empenhar o broche; respondeu que viria trazer o dinheiro à senhora.

Riu com sarcasmo, repoltreando-se no sofá, com as pernas muito abertas.

— E não empenhaste o broche?

— Que remédio! O dinheiro está aí. Deu pouco: cento e cinqüenta. Pois é verdade, - derreou-se atirando palmadas às coxas: o nosso amigo Fábio é um excelente conselheiro. Em conselhos chega a ser perdulário. Quando eu lhe dizia...

— Ele também é pobre, coitado!

— Então para que vive a arrotar grandezas? O homem da casa voltou?

— Esteve aí.

— E então? ameaças, desaforos...

Ela conteve-se, suspirando; por fim disse:

— Ah! meu filho, nós não podemos continuar a viver assim. Não imaginas a minha vergonha. - E meiga, fitando-o: Sabes onde fui com Felícia? Fui empenhar uma jóia. Não aparecias...

— E empenhou?

— Então?

— Não faça mais essas coisas, mamãe; a senhora devia ter esperado. Não é vergonha dever.

— Pois sim, mas... é comigo que eles se entendem, sou eu que ouço os desaforos. E tu não te lembras dos vizinhos? essas mulheres, então, que não saem da janela. Não, assim é melhor. Vamos agora trabalhar, cada um por seu lado. As jóias não me fazem falta; não saio. Lá ao menos estão seguras.

— Sim, mas vencendo juros.

— Ora! mais vale a minha tranqüilidade.

Paulo acendeu um cigarro e pôs-se a medir a sala a largas passadas, meditando. Dona Júlia indagou: "Se já havia jantado?"

— Jantei na cidade.

— Então chegaste hoje?

— Há pouco.

Ficaram algum tempo calados. Ele, numa alegria transbordante, cantarolava, assobiava, d'olhos altos, as mãos para as costas, indo e vindo. A mãe atreveu-se a perguntar:

— Nunca mais foste à policia?

— Para quê? Perder tempo? Um agente com quem falei pediu-me logo dinheiro. Estou farto de gastar com essa súcia.

— Então é assim?

— Se é...! - Sentou-se e falou vagarosamente, em tom de certeza: Para mim Violante não está no Rio, foi para São Paulo ou para a Europa, quem sabe? Vamos nós tratar da vida. Já perdi muito tempo. Este ano foi-se, não alcanço mais os colegas, mesmo não tenho cabeça para estudos, assim como ando. Não quero mais saber de jornais: são noites perdidas, aborrecimentos, por uma ninharia. Se eu pudesse conseguir a cadeira de história no Externato Meireles... O diabo é que há mais de vinte candidatos.

Soprou uma baforada e, vendo a mãe curvar-se a esfregar a perna, gemendo, quis saber se estava sentindo alguma coisa.

— Tenho sofrido muito nestes últimos dias. É da umidade... e hoje andei tanto!

— Eu também não tenho passado bem: dores de cabeça, fastio... É fadiga. Também, com a vida que levo não é para admirar: não paro.

— É, precisas ficar um dia em casa descansando.

— Pudesse eu! - suspirou encaminhando-se para o quarto. - Mamãe pode arranjar-me uma xícara de café?

— Sim.

A velha levantou-se pesadamente e foi devagar, claudicando, a amparar-se pelas paredes do corredor. Paulo entrou no quarto, deu mais luz ao gás e sentou-se à beira da cama, esfregando as mãos. Esteve algum tempo a sorrir seguindo um sonho. De repente levantou-se, ficou junto à mesa, a olhar a pasta de oleado que rebrilhava. Tomou o colete, o casaco e pôs-se a esvaziar os bolsos tirando cédulas amarfanhadas, em bolos.

Para não ser surpreendido fechou a porta à chave e tirou das algibeiras das calças dois gordos maços de notas, abriu-os, pôs-se a contá-los: achou seiscentos e vinte mil-réis. Separou cento e cinqüenta, embrulhou-os cuidadosamente com a cautela do broche e deixou-os na gaveta. Depois de guardar o resto do dinheiro sentou-se na cadeira e, fincando os pés na parede, pôs-se a balançar-se com os olhos no teto, pensando:

Fora covarde abandonando a sorte, devia ter ficado para outra banca: só na repetição de 20 ganhara trezentos e cinqüenta mil-réis; devia ter continuado, aumentando o jogo. Tivera palpite de jogar o máximo na repetição do 20, mas começaram a falar - "que o número estava mau, que a banca estava de sorte". Escarapelou-se, aborrecido. "Qual, quem joga não deve dar ouvidos a outros... Vão para ali peruar, com inveja de quem ganha, e é isso... Podia ter saído com uma fortuna." Assentando na cadeira, tomou um lápis, pôs-se a fazer cálculos, somando lucros fantásticos. Era a sua mania.

Se comprava bilhetes, imaginando tirar a sorte, distribuía a fortuna, não em sonho vago, mas escrevendo parcela a parcela, a empregar o dinheiro: tantos contos para um prédio, edificado a seu gosto, entre pomar e jardim, em arrabalde tranqüilo; tantos para móveis d'estilo, objetos d'arte, alfaias, livros. Uma parte para a aquisição de propriedades que lhe dariam segura renda; o resto em conta corrente, num banco.

Até o dia seguinte vivia regaladamente daquela ilusão, gozando a vida repousada e farta dos ricos, com amantes caras, um grupo de amigos para os saraus de literatura e arte, e a fortuna a multiplicar-se com a facilidade avassaladora com que as sementeiras crescem nos campos, alargando-lhe ainda mais a ventura. No dia seguinte, quando percorria a lista desanimadamente, procurava o final, já com o sonho desfeito, contentando-se com o mesmo dinheiro que lhe dava a esperança de poder, na loteria seguinte, alcançar a sorte desejada.

Com a roleta, porém, "eram mais seguras as probabilidades". Conhecia um rapaz que dissipava, a mãos rotas, como um milionário. Tinha as melhores amantes, vestia-as com fausto, cobria-as de jóias. Diziam que a sua casa, nas Laranjeiras, era como um palácio de lenda: bronzes raros, telas preciosas, tapetes mais altos que relvagens, móveis antigos, armas autênticas, carro na cocheira e cavalos de raça, com tratadores ingleses.

Gastava como um nababo, só à custa da roleta e do dado, porque os prêmios que os seus parelheiros levantavam mal cobriam as despesas com o trato, com o aderenço, com os jóqueis.

O seu ideal era viver como o Junqueira, o impassível Junqueira que, com um charuto na boca, balançando a perna, perdia dezenas de contos com a mesma serenidade, com a mesma superior indiferença com que estourava as bancas em dias felizes. Afinal - com quanto entrara? com vinte mil-réis, tendo perdido dez na espelunca do Cordeiro.

Não tornava àquele antro, onde se falava uma geringonça impenetrável e o ar era todo fumo e despejados bafos d'álcool. A gente era uma canalha: capoeiras, gatunos, até um Castro, por alcunha o Faísca, que era dos mais assíduos, sempre obsceno, e bravateador, mostrava navalhas célebres, entre elas, uma mais querida, de lâmina gasta, que rasgara ventres. Não lhe convinha aquilo.

Falar com o Junqueira era até chic, porque sempre o via em boas rodas, mas cumprimentar qualquer daqueles tipos do antro, era uma vergonha que o comprometia. Na outra casa eram todos homens limpos, rapazes colocados, de nome; eram relações que ficavam e serviam; depois a banca era outra. Decidia-se e havendo calculado uma diária modesta de quinhentos mil-réis - coisa fácil - levantou-se feliz, esticou os braços e pôs-se a cantarolar. Bateram à porta. "Entre!" disse, sem lembrar-se de que a fechara à chave. Empurraram.

— Está fechada, disse a velha.

Correu a abrir. Dona Júlia entrou com o café.

— Toma, enquanto está quente; - e deixou-se cair na cadeira, cansada. Ele bebia o café a pequenos sorvos.

— Mamãe já pagou à Felícia?

— Ainda não. O dinheiro que tenho mal chega para a casa. E ela bem precisa, coitada!

— Eu tenho algum, disse ele com superioridade.

— Pois sim. - E afirmou com enternecimento: Olha, meu filho. como essa não achamos outra: não é uma criada, é uma amiga. Quanto mais vou conhecendo o mundo mais me afeiçôo à pobre velha. Outra fosse ela e andaria por aí a resmungar, de trombas, mas não: é sempre a mesma e pra tudo.

— É uma boa velha, isso é, concordou.

— Eu é que sei, que vivo com ela.

— Pois se quer o dinheiro...

— Não te faz falta?

— Não, senhora.

Abriu a gaveta, contou trinta mil-réis e, com o pacotinho em que tinha guardado os cento e cinqüenta e a cautela do broche, entregou-os à mãe. Ficou um instante parado a contemplar o dinheiro que reservara, mas teve um movimento de bondade: tomou uma nota de cinqüenta e deu-a à velha.

— Isto é para a senhora.

Ela abriu muito os olhos, espantada.

— Onde arranjaste? Foi o Fábio?

— O Fábio...! - Riu escarninho. - Que idéia! Recebi no jornal, - explicou, numa inspiração instantânea.

— Mas tu podes precisar, meu filho.

— Fico com o bastante, descanse.

— Olha lá!

— Ora, mamãe, eu faço cerimônias com a senhora?

— Está bom, obrigada. E que Deus te proteja.

— Amém!