Thursday 9 September 2021

Thursday Serial: "Le Avventure di Pinocchio" by Carlo Collodi (in Italian) - VI

 XXI.

Pinocchio è preso da un contadino, il quale lo costringe a far da can di guardia a un pollajo.

 

Pinocchio, come potete figurarvelo, si dètte a piangere, a strillare, a raccomandarsi: ma erano pianti e grida inutili, perchè lì all’intorno non si vedevano case, e dalla strada non passava anima viva.

Intanto si fece notte.

Un po’ per lo spasimo della tagliuola che gli segava gli stinchi, e un po’ per la paura di trovarsi solo e al buio in mezzo a quei campi, il burattino principiava quasi a svenirsi; quando a un tratto, vedendosi passare una lucciola di sul capo, la chiamò e le disse:

— O lucciolina, mi faresti la carità di liberarmi da questo supplizio?...

— Povero figliuolo! — replicò la lucciola, fermandosi impietosita a guardarlo. — Come mai sei rimasto colle gambe attanagliate fra codesti ferri arrotati?

— Sono entrato nel campo per cogliere due grappoli di quest’uva moscadella, e....

— Ma l’uva era tua?

— No....

— E allora chi t’ha insegnato a portar via la roba degli altri?...

— Avevo fame....

— La fame, ragazzo mio, non è una buona ragione per potersi appropriare la roba che non è nostra....

— È vero, è vero! — gridò Pinocchio piangendo — ma un’altra volta non lo farò più. A questo punto il dialogo fu interrotto da un piccolissimo rumore di passi, che si avvicinavano. Era il padrone del campo che veniva in punta di piedi a vedere se qualcuna di quelle faine, che gli mangiavano di nottetempo i polli, fosse rimasta presa al trabocchetto della tagliuola.

E la sua maraviglia fu grandissima quando, tirata fuori la lanterna di sotto al pastrano, s’accòrse che, invece di una faina, c’era rimasto preso un ragazzo.

— Ah, ladracchiolo! — disse il contadino incollerito — dunque sei tu che mi porti via le galline?

— Io no, io no! — gridò Pinocchio, singhiozzando. — Io sono entrato nel campo per prendere soltanto due grappoli d’uva!

— Chi ruba l’uva è capacissimo di rubare anche che i polli. Lascia fare a me, che ti darò una lezione da ricordartene per un pezzo.

E aperta la tagliuola, afferrò il burattino per la collottola e lo portò di peso fino a casa, come si porterebbe un agnellino di latte.

Arrivato che fu sull’aia dinanzi alla casa, lo scaraventò in terra: e tenendogli un piede sul collo, gli disse:

— Oramai è tardi e voglio andare a letto. I nostri conti li aggiusteremo domani. Intanto, siccome oggi m’è morto il cane che mi faceva la guardia di notte, tu prenderai subito il suo posto. Tu mi farai da cane di guardia.

Detto fatto, gl’infilò al collo un grosso collare tutto coperto di spunzoni d’ottone, e glielo strinse in modo, da non poterselo levare passandoci la testa di dentro. Al collare c’era attaccata una lunga catenella di ferro: e la catenella era fissata nel muro.

— Se questa notte — disse il contadino — cominciasse a piovere, tu puoi andare a cuccia in quel casotto di legno, dove c’è sempre la paglia che ha servito di letto per quattro anni al mio povero cane. E se per disgrazia venissero i ladri, ricordati di stare a orecchi ritti e di abbaiare.

Dopo quest’ultimo avvertimento, il contadino entrò in casa chiudendo la porta con tanto di catenaccio: e il povero Pinocchio rimase accovacciato sull’aia più morto che vivo, a motivo del freddo, della fame e della paura. E di tanto in tanto cacciandosi rabbiosamente le mani dentro il collare, che gli serrava la gola, diceva piangendo:

— Mi sta bene!... Pur troppo mi sta bene! Ho voluto fare lo svogliato, il vagabondo.... ho voluto dar retta ai cattivi compagni, e per questo la fortuna mi perseguita sempre. Se fossi stato un ragazzino per bene, come ce n’è tanti; se avessi avuto voglia di studiare e di lavorare, se fossi rimasto in casa col mio povero babbo, a quest’ora non mi troverei qui, in mezzo ai campi, a fare il cane di guardia alla casa di un contadino. Oh se potessi rinascere un’altra volta!... Ma oramai è tardi e ci vuol pazienza!... —

Fatto questo piccolo sfogo, che gli venne proprio dal cuore, entrò dentro il casotto e si addormentò.

 

 

XXII.

Pinocchio scuopre i ladri, e in ricompensa di essere stato fedele vien posto in libertà.

 

Ed era già più di due ore che dormiva saporitamente; quando verso la mezzanotte fu svegliato da un bisbiglio e da un pissi-pissi di vocine strane, che gli parve di sentire nell’aia. Messa fuori la punta del naso dalla buca del casotto, vide riunite a consiglio quattro bestiuole di pelame scuro, che parevano gatti. Ma non erano gatti: erano faine, animaletti carnivori, ghiottissimi specialmente d’uova e di pollastrine giovani. Una di queste faine, staccandosi dalle sue compagne, andò alla buca del casotto, e disse sottovoce:

— Buona sera, Melampo.

— Io non mi chiamo Melampo — rispose il burattino.

— O dunque chi sei?

— Io sono Pinocchio.

— E che cosa fai costì?

— Faccio il cane di guardia.

— O Melampo dov’è? dov’è il vecchio cane, che stava in questo casotto?

— È morto questa mattina.

— Morto? povera bestia!... Era tanto buono!... Ma giudicandoti dalla fisonomia, anche te mi sembri un cane di garbo.

— Domando scusa, io non sono un cane!...

— O chi sei?

— Io sono un burattino.

— E fai da cane di guardia?

— Pur troppo: per mia punizione!...

— Ebbene, io ti propongo gli stessi patti, che avevo col defunto Melampo: e sarai contento.

— E questi patti sarebbero?

— Noi verremo una volta la settimana, come per il passato, a visitare di notte questo pollaio, e porteremo via otto galline. Di queste galline, sette le mangeremo noi, e una la daremo a te, a condizione, s’intende bene, che tu faccia finta di dormire e non ti venga mai l’estro di abbaiare e di svegliare il contadino.

— E Melampo faceva proprio così? — domandò Pinocchio.

— Faceva così, e fra noi e lui, siamo andati sempre d’accordo. Dormi dunque tranquillamente, e stai sicuro che prima di partire di qui, ti lasceremo sul casotto una gallina bell’e pelata per la colazione di domani. Ci siamo intesi bene?

— Anche troppo bene!... — rispose Pinocchio: e tentennò il capo in un certo modo minaccioso, come se avesse voluto dire: — Fra poco ci riparleremo!... —

Quando le quattro faine si credettero sicure del fatto loro, andarono difilato al pollaio, che rimaneva appunto vicinissimo al casotto del cane; e aperta a furia di denti e di unghioli la porticina di legno, che ne chiudeva l’entrata, vi sgusciarono dentro, una dopo l’altra. Ma non erano ancora finite d’entrare, che sentirono la porticina richiudersi con grandissima violenza.

Quello che l’aveva richiusa era Pinocchio; il quale, non contento di averla richiusa, vi posò davanti per maggior sicurezza una grossa pietra, a guisa di puntello. E poi cominciò ad abbaiare: e, abbaiando proprio come se fosse un cane di guardia, faceva colla voce: bù-bù-bù-bù.

A quella abbaiata, il contadino saltò il letto, e preso il fucile e affacciatosi alla finestra, domandò:

— Che c’è di nuovo?

— Ci sono i ladri! — rispose Pinocchio.

— Dove sono?

— Nel pollaio.

— Ora scendo subito. —

E difatti, in men che si dice amen, il contadino scese: entrò di corsa nel pollaio, e dopo avere acchiappate e rinchiuse in un sacco le quattro faine, disse loro con accento di vera contentezza:

— Alla fine siete cascate nelle mie mani! Potrei punirvi, ma sì vil non sono! Mi contenterò, invece, di portarvi domani all’oste del vicino paese, il quale vi spellerà e vi cucinerà a uso lepre dolce e forte. È un onore che non vi meritate, ma gli uomini generosi come me, non badano a queste piccolezze!... —

Quindi, avvicinatosi a Pinocchio, cominciò a fargli molte carezze, e fra le altre cose, gli domandò:

— Com’hai fatto a scoprire il complotto di queste quattro ladroncelle? E dire che Melampo, il mio fido Melampo, non s’era mai accorto di nulla!... —

Il burattino, allora, avrebbe potuto raccontare quel che sapeva; avrebbe potuto, cioè, raccontare i patti vergognosi che passavano tra il cane e le faine: ma ricordandosi che il cane era morto, pensò subito dentro di sè: — A che serve accusare i morti?... I morti son morti, e la miglior cosa che si possa fare è quella di lasciarli in pace!...

— All’arrivo delle faine sull’aia, eri sveglio o dormivi? — continuò a chiedergli il contadino.

— Dormivo; — rispose Pinocchio — ma le faine mi hanno svegliato coi loro chiacchiericci, e una è venuta fin qui al casotto per dirmi: «Se prometti di non abbaiare, e di non svegliare il padrone, noi ti regaleremo una pollastra bell’e pelata!» Capite, eh? Avere la sfacciataggine di fare a me una simile proposta! Perchè bisogna sapere che io sono un burattino, che avrò tutti i difetti di questo mondo: ma non avrò mai quello di star di balla e di reggere il sacco alla gente disonesta!

— Bravo ragazzo! — gridò il contadino, battendogli sur una spalla. — Cotesti sentimenti ti fanno onore: e per provarti la mia grande soddisfazione, ti lascio libero fin d’ora di tornare a casa. —

E gli levò il collare da cane.

 

 

XXIII.

Pinocchio piange la morte della bella Bambina dai capelli turchini: poi trova un Colombo, che lo porta sulla riva del mare, e lì si getta nell’acqua per andare in aiuto del suo babbo Geppetto.

 

Appena Pinocchio non sentì più il peso durissimo e umiliante di quel collare intorno al collo, si pose a scappare attraverso ai campi, e non si fermò un solo minuto finchè non ebbe raggiunta la strada maestra, che doveva ricondurlo alla casina della Fata.

Arrivato sulla strada maestra, si voltò in giù a guardare nella sottoposta pianura, e vide benissimo, a occhio nudo, il bosco dove disgraziatamente aveva incontrato la Volpe e il Gatto: vide, fra mezzo agli alberi, inalzarsi la cima di quella Quercia grande, alla quale era stato appeso ciondoloni per il collo: ma, guarda di qui, guarda di là, non gli fu possibile di vedere la piccola casa della bella Bambina dai capelli turchini.

Allora ebbe una specie di tristo presentimento; e datosi a correre con quanta forza gli rimaneva nelle gambe, si trovò in pochi minuti sul prato, dove sorgeva una volta la Casina bianca. Ma la Casina bianca non c’era più. C’era, invece, una piccola pietra di marmo, sulla quale si leggevano in carattere stampatello queste dolorose parole:

 

 QUI GIACE

LA BAMBINA DAI CAPELLI TURCHINI

MORTA DI DOLORE

PER ESSERE STATA ABBANDONATA DAL SUO

FRATELLINO PINOCCHIO

 

Come rimanesse il burattino, quand’ebbe compitate alla peggio quelle parole, lo lascio pensare a voi. Cadde bocconi a terra, e coprendo di mille baci quel marmo mortuario, dètte in un grande scoppio di pianto. Pianse tutta la notte, e la mattina dopo, sul far del giorno, piangeva sempre, sebbene negli occhi non avesse più lacrime: e le sue grida e i suoi lamenti erano così strazianti ed acuti, che tutte le colline all’intorno ne ripetevano l’eco.

E piangendo diceva:

«O Fatina mia, perchè sei morta?... perchè, invece di te, non sono morto io, che sono tanto cattivo, mentre tu eri tanto buona?... E il mio babbo dove sarà? O Fatina mia, dimmi dove posso trovarlo, chè voglio stare sempre con lui, e non lasciarlo più! più! più!... O Fatina mia, dimmi che non è vero che sei morta!... Se davvero mi vuoi bene.... se vuoi bene al tuo fratellino, rivivisci.... ritorna viva come prima!... Non ti dispiace a vedermi solo, abbandonato da tutti?... Se arrivano gli assassini, mi attaccheranno daccapo al ramo dell’albero.... e allora morirò per sempre. Che vuoi che io faccia qui solo in questo mondo? Ora che ho perduto te e il mio babbo, chi mi darà da mangiare? Dove anderò a dormire la notte? Chi mi farà la giacchettina nuova? Oh! sarebbe meglio, cento volte meglio, che morissi anch’io! Sì, voglio morire! ih! ih! ih!...»

E mentre si disperava a questo modo, fece l’atto di volersi strappare i capelli: ma i suoi capelli, essendo di legno, non potè nemmeno levarsi il gusto di ficcarci dentro le dita.

Intanto passò su per aria un grosso Colombo, il quale soffermatosi, a ali distese, gli grìdò da una grande altezza:

— Dimmi, bambino, che cosa fai costaggiù?

— Non lo vedi? piango! — disse Pinocchio alzando il capo verso quella voce e strofinandosi gli occhi colla manica della giacchetta.

— Dimmi, — soggiunse allora il Colombo — non conosci per caso fra i tuoi compagni, un burattino, che ha nome Pinocchio?

— Pinocchio?... Hai detto Pinocchio? — ripetè il burattino saltando subito in piedi. — Pinocchio sono io! —

Il Colombo, a questa risposta, si calò velocemente e venne a posarsi a terra. Era più grosso di un tacchino.

— Conoscerai dunque anche Geppetto! — domandò al burattino.

— Se lo conosco! È il mio povero babbo! ti ha forse parlato di me? Mi conduci da lui? ma è sempre vivo? rispondimi per carità; è sempre vivo?

— L’ho lasciato tre giorni fa sulla spiaggia del mare.

— Che cosa faceva?

— Si fabbricava da sè una piccola barchetta, per traversare l’Oceano. Quel pover’uomo sono più di quattro mesi che gira per il mondo in cerca di te: e non avendoti potuto trovare, ora si è messo in capo di cercarti nei paesi lontani del nuovo mondo.

— Quanto c’è di qui alla spiaggia? — domandò Pinocchio con ansia affannosa.

— Più di mille chilometri.

— Mille chilometri? O Colombo mio, che bella cosa potessi avere le tue ali!...

— Se vuoi venire, ti ci porto io.

— Come?

— A cavallo sulla mia groppa. Sei peso dimolto?

— Peso? tutt’altro! Son leggiero come una foglia. —

E lì, senza stare a dir altro, Pinocchio saltò sulla groppa al Colombo; e messa una gamba di qui e l’altra di là, come fanno i cavallerizzi, gridò tutto contento: «Galoppa, galoppa, cavallino, chè mi preme di arrivar presto!...» Il Colombo prese l’aire e in pochi minuti arrivò col volo tanto in alto, che toccava quasi le nuvole. Giunto a quell’altezza straordinaria, il burattino ebbe la curiosità di voltarsi in giù a guardare: e fu preso da tanta paura e da tali giracapi che, per evitare il pericolo di venir di sotto, si avviticchiò colle braccia, stretto stretto, al collo della sua piumata cavalcatura. Volarono tutto il giorno. Sul far della sera, il Colombo disse:

— Ho una gran sete!

— E io una gran fame! — soggiunse Pinocchio.

— Fermiamoci a questa colombaia pochi minuti; e dopo ci rimetteremo in viaggio, per essere domattina all’alba sulla spiaggia del mare. —

Entrarono in una colombaia deserta, dove c’era soltanto una catinella piena d’acqua e un cestino ricolmo di vecce.

Il burattino, in tempo di vita sua, non aveva mai potuto patire le vecce: a sentir lui, gli facevano nausea, gli rivoltavano lo stomaco: ma quella sera ne mangiò a strippapelle, e quando l’ebbe quasi finite, si voltò al Colombo e gli disse: — Non avrei mai creduto che le vecce fossero così buone!

— Bisogna persuadersi, ragazzo mio, — replicò il Colombo — che quando la fame dice davvero e non c’è altro da mangiare, anche le vecce diventano squisite! La fame non ha capricci nè ghiottonerie! —

Fatto alla svelta un piccolo spuntino, si riposero in viaggio, e via! La mattina dopo arrivarono sulla spiaggia del mare.

Il Colombo posò a terra Pinocchio, e non volendo nemmeno la seccatura di sentirsi ringraziare per aver fatto una buona azione, riprese subito il volo e sparì.

La spiaggia era piena di gente che urlava e gesticolava guardando il mare.

— Che cos’è accaduto? — domandò Pinocchio a una vecchina.

— Gli è accaduto che un povero babbo, avendo perduto il figliuolo, gli è voluto entrare in una barchetta per andare a cercarlo di là dal mare; e il mare oggi è molto cattivo e la barchetta sta per andare sott’acqua....

— Dov’è la barchetta?

— Eccola laggiù, diritta al mio dito — disse la vecchia, accennando una piccola barca che, veduta a quella distanza, pareva un guscio di noce con dentro un omino piccino piccino.

Pinocchio appuntò gli occhi da quella parte, e dopo aver guardato attentamente, cacciò un urlo acutissimo gridando:

— Gli è il mi’ babbo! gli è il mi’ babbo! —

Intanto la barchetta, sbattuta dall’infuriare dell’onde, ora spariva fra i grossi cavalloni, ora tornava a galleggiare: e Pinocchio, ritto sulla punta di un alto scoglio, non finiva più dal chiamare il suo babbo per nome, e dal fargli molti segnali colle mani e col moccichino da naso e perfino col berretto che aveva in capo.

E parve che Geppetto, sebbene fosse molto lontano dalla spiaggia, riconoscesse il figliuolo, perchè si levò il berretto anche lui e lo salutò e, a furia di gesti, gli fece capire che sarebbe tornato volentieri indietro; ma il mare era tanto grosso, che gl’impediva di lavorare col remo e di potersi avvicinare alla terra.

Tutt’a un tratto venne una terribile ondata, e la barca sparì. Aspettarono che la barca tornasse a galla; ma la barca non si vide più tornare.

— Pover’uomo — dissero allora i pescatori, che erano raccolti sulla spiaggia; e brontolando sottovoce una preghiera, si mossero per tornarsene alle loro case.

Quand’ecco che udirono un urlo disperato, e voltandosi indietro, videro un ragazzetto che, di vetta a uno scoglio si gettava in mare gridando:

— Voglio salvare il mio babbo! — Pinocchio, essendo tutto di legno, galleggiava facilmente e nuotava come un pesce. Ora si vedeva sparire sott’acqua, portato dall’impeto dei flutti, ora riappariva fuori con una gamba o con un braccio, a grandissima distanza dalla terra. Alla fine lo persero d’occhio e non lo videro più.

— Povero ragazzo! — dissero allora i pescatori, che erano raccolti sulla spiaggia; e brontolando sottovoce una preghiera, tornarono alle loro case.

 

 

XXIV.

Pinocchio arriva all’isola delle «Api industriose» e ritrova la Fata.

 

Pinocchio, animato dalla speranza di arrivare in tempo a dare aiuto al suo povero babbo, nuotò tutta quanta la notte.

E che orribile nottata fu quella! Diluviò, grandinò, tuonò spaventosamente e con certi lampi che pareva di giorno.

Sul far del mattino, gli riuscì di vedere poco distante una lunga striscia di terra. Era un’isola in mezzo al mare.

Allora fece di tutto per arrivare a quella spiaggia: ma inutilmente. Le onde, rincorrendosi e accavallandosi, se lo abballottavano fra di loro, come se fosse stato un fuscello o un filo di paglia. Alla fine, e per sua buona fortuna, venne un’ondata tanto prepotente e impetuosa, che lo scaraventò di peso sulla rena del lido.

Il colpo fu così forte che, battendo in terra, gli crocchiarono tutte le costole e tutte le congiunture: ma si consolò subito col dire:

— Anche per questa volta l’ho scampata bella! —

Intanto a poco a poco il cielo si rasserenò; il sole apparve fuori in tutto il suo splendore, e il mare diventò tranquillissimo e buono come un olio.

Allora il burattino distese i suoi panni al sole per rasciugarli e si pose a guardare di qua e di là se per caso avesse potuto scorgere su quella immensa spianata d’acqua una piccola barchetta con un omino dentro. Ma dopo aver guardato ben bene, non vide altro dinanzi a sè che cielo, mare e qualche vela di bastimento, ma così lontana lontana, che pareva una mosca.

— Sapessi almeno come si chiama quest’isola! — andava dicendo. — Sapessi almeno se quest’isola è abitata da gente di garbo, voglio dire da gente che non abbia il vizio di attaccare i ragazzi ai rami degli alberi! ma a chi mai posso domandarlo? a chi, se non c’è nessuno?...—

Quest’idea di trovarsi solo, solo, solo, in mezzo a quel gran paese disabitato, gli messe addosso tanta malinconia, che stava lì lì per piangere; quando tutt’a un tratto vide passare, a poca distanza dalla riva, un grosso pesce, che se ne andava tranquillamente per i fatti suoi con tutta la testa fuori dell’acqua.

Non sapendo come chiamarlo per nome, il burattino gli gridò a voce alta, per farsi sentire:

— Ehi, signor pesce, che mi permetterebbe una parola?

— Anche due — rispose il pesce, il quale era un Delfino così garbato, come se ne trovano pochi in tutti i mari del mondo.

— Mi farebbe il piacere di dirmi se in quest’isola vi sono dei paesi dove si possa mangiare, senza pericolo d’esser mangiati?

— Ve ne sono sicuro — rispose il Delfino. — Anzi, ne troverai uno poco lontano di qui.

— E che strada si fa per andarvi?

— Devi prendere quella viottola là, a mancina, e camminare sempre diritto al naso. Non puoi sbagliare.

— Mi dica un’altra cosa. Lei che passeggia tutto il giorno e tutta la notte per il mare, non avrebbe incontrato per caso una piccola barchettina con dentro il mi’ babbo?

— E chi è il tuo babbo?

— Gli è il babbo più buono del mondo, come io sono il figliuolo più cattivo che si possa dare.

— Colla burrasca che ha fatto questa notte — rispose il Delfino — la barchetta sarà andata sott’acqua.

— E il mio babbo?

— A quest’ora l’avrà inghiottito il terribile pesce-cane, che da qualche giorno è venuto a spargere lo sterminio e la desolazione nelle nostre acque.

— Che è grosso dimolto questo pesce-cane? — domandò Pinocchio, che di già cominciava a tremare dalla paura.

— Se gli è grosso!... — replicò il Delfino. — Perchè tu possa fartene un’idea, ti dirò che è più grosso di un casamento di cinque piani, ed ha una boccaccia così larga e profonda, che ci passerebbe comodamente tutto il treno della strada ferrata colla macchina accesa.

— Mamma mia! — gridò spaventato il burattino; — e rivestitosi in fretta e furia, si voltò al Delfino e gli disse:

— Arrivederla, signor pesce: scusi tanto l’incomodo, e mille grazie della sua garbatezza. —

Detto ciò, prese subito la viottola e cominciò a camminare di un passo svelto: tanto svelto, che pareva quasi che corresse. E a ogni più piccolo rumore che sentiva, si voltava subito a guardare indietro, per la paura di vedersi inseguire da quel terribile pesce-cane grosso come una casa di cinque piani e con un treno della strada ferrata in bocca.

Dopo aver camminato più di mezz’ora, arrivò a un piccolo paese detto «il paese delle Api industriose.» Le strade formicolavano di persone che correvano di qua e di là per le loro faccende: tutti lavoravano, tutti avevano qualche cosa da fare. Non si trovava un ozioso o un vagabondo nemmeno a cercarlo col lumicino.

— Ho capito; — disse subito quello svogliato di Pinocchio — questo paese non è fatto per me! Io non son nato per lavorare! —

Intanto la fame lo tormentava; perchè erano oramai passate ventiquattr’ore che non aveva mangiato più nulla; nemmeno una pietanza di vecce.

Che fare? Non gli restavano che due modi per potersi sdigiunare: o chiedere un po’ di lavoro, o chiedere in elemosina un soldo o un boccon di pane.

A chiedere l’elemosina si vergognava: perchè il suo babbo gli aveva predicato sempre che l’elemosina hanno il diritto di chiederla solamente i vecchi e gl’infermi. I veri poveri, in questo mondo, meritevoli di assistenza e di compassione, non sono altro che quelli che, per ragione d’età o di malattia, si trovano condannati a non potersi più guadagnare il pane col lavoro delle proprie mani. Tutti gli altri hanno l’obbligo di lavorare: e se non lavorano e patiscono la fame, tanto peggio per loro.

In quel frattempo, passò per la strada un uomo tutto sudato e trafelato, il quale da sè tirava con gran fatica due carretti carichi di carbone.

Pinocchio, giudicandolo alla fisonomia per un buon uomo, gli si accostò e, abbassando gli occhi dalla vergogna, gli disse sottovoce:

— Mi fareste la carità di darmi un soldo, perchè mi sento morir dalla fame?

— Non un soldo solo, — rispose il carbonaio — ma te ne do quattro, a patto che tu m’aiuti a tirare fino a casa questi due carretti di carbone.

— Mi meraviglio! — rispose il burattino quasi offeso; — per vostra regola io non ho fatto mai il somaro: io non ho mai tirato il carretto!

— Meglio per te! — rispose il carbonaio. — Allora, ragazzo mio, se ti senti davvero morir dalla fame, mangia due belle fette della tua superbia, e bada di non prendere un’indigestione. —

Dopo pochi minuti passò per la via un muratore, che portava sulle spalle un corbello di calcina.

— Fareste, galantuomo, la carità d’un soldo a un povero ragazzo, che sbadiglia dall’appetito?

— Volentieri; vieni con me a portar calcina, — rispose il muratore — e invece d’un soldo, te ne darò cinque.

— Ma la calcina è pesa, — replicò Pinocchio, — e io non voglio durar fatica.

— Se non vuoi durar fatica, allora, ragazzo mio, divertiti a sbadigliare, e buon pro ti faccia. —

In men di mezz’ora passarono altre venti persone: e a tutte Pinocchio chiese un po’ d’elemosina, ma tutte gli risposero:

— Non ti vergogni? Invece di fare il bighellone per la strada, va’ piuttosto a cercarti un po’ di lavoro, e impara a guadagnarti il pane! —

Finalmente passò una buona donnina, che portava due brocche d’acqua.

— Vi contentate, buona donna, che io beva una sorsata d’acqua alla vostra brocca? — chiese Pinocchio, che bruciava dall’arsione della sete.

— Bevi pure, ragazzo mio! — disse la donnina, posando le due brocche in terra.

Quando Pinocchio ebbe bevuto come una spugna, borbottò a mezza voce, asciugandosi la bocca:

— La sete me la sono levata! Così mi potessi levar la fame!... —

La buona donnina, sentendo queste parole, soggiunse subito:

— Se mi aiuti a portare a casa una di queste brocche d’acqua, ti darò un bel pezzo di pane. —

Pinocchio guardò la brocca e non rispose nè sì nè no.

— E insieme col pane ti darò un bel piatto di cavol fiore condito coll’olio e coll’aceto — soggiunse la buona donna.

Pinocchio dètte un’altra occhiata alla brocca, e non rispose nè sì nè no.

— E dopo il cavol fiore ti darò un bel confetto ripieno di rosolio. —

Alle seduzioni di quest’ultima ghiottoneria, Pinocchio non seppe più resistere, e fatto un animo risoluto, disse:

— Pazienza! Vi porterò la brocca fino a casa! —

La brocca era molto pesa, e il burattino, non avendo forza di portarla colle mani, si rassegnò a portarla in capo.

Arrivati a casa, la buona donnina fece sedere Pinocchio a una piccola tavola apparecchiata, e gli pose davanti il pane, il cavol fiore condito e il confetto.

Pinocchio non mangiò, ma diluviò. Il suo stomaco pareva un quartiere rimasto vuoto e disabitato da cinque mesi.

Calmati a poco a poco i morsi rabbiosi della fame, allora alzò il capo per ringraziare la sua benefattrice: ma non aveva ancora finito di fissarla in volto, che cacciò un lunghissimo ohhh! di maraviglia, e rimase là incantato, cogli occhi spalancati, colla forchetta per aria e colla bocca piena di pane e di cavol fiore.

— Che cosa è mai tutta questa meraviglia? — disse ridendo la buona donna.

— Egli è.... — rispose balbettando Pinocchio — egli è.... egli è.... che voi somigliate.... voi mi rammentate.... sì, sì, sì, la stessa voce.... gli stessi occhi.... gli stessi capelli.... sì, sì, sì.... anche voi avete i capelli turchini.... come lei! O Fatina mia!... O Fatina mia!... ditemi che siete voi, proprio voi!... Non mi fate più piangere! Se sapeste! Ho pianto tanto, ho patito tanto!... —

E nel dir così, Pinocchio piangeva dirottamente, e gettandosi ginocchioni per terra, abbracciava i ginocchi di quella donnina misteriosa.

Wednesday 8 September 2021

Resolutions from Sister Carmela dello Spirito Santo

 “O Espírito Santo deve tornar-se o meu Mestre interior, cuja voz “sonet sine sono” (soa sem som). Ele me sugerirá tudo, me recordará tudo o que disse Jesus, me guiará, tomará a direção de todo o meu ser, ajudará a minha fraqueza, suprirá a minha deficiência, cumprirá em mim a minha missão de contínua oração, porque a que valeria a minha oração se não fosse inspirada e valorizada por Ele?

“Ninguém será capaz de dizer: “Senhor Jesus”, a não ser pelo Espírito Santo” (1Cor 12,3), mas “o Espírito vem em socorro de nossa fraqueza, pois não sabemos o que pedir. É o próprio Espírito que intercede em nosso favor, com gemidos inexprimíveis” (Rm 8,26). Devo pensar que é Ele que reza em mim e por mim, o Espírito Santo que louva Deus em mim, mesmo quando o cansaço ou a aridez ou as distrações me impedem de fixar o meu espírito ou me torna difícil a oração vocal, por exemplo, o rosário e o Ofício; devo então permanecer numa atitude humilde de oração e confiar que o Espírito Santo extrai do meu ser aquele louvor, aquela glória que eu não sei, mas quero dar-Lhe. Tanto que, são os mais belos pensamentos que posso ter?

E será o Espírito Santo que inspirará não só a minha oração, mas também as minhas ações, que presidirá as minhas relações com o próximo e produzirá em mim aqueles frutos admiráveis que são seus dons, como são dons seus todas as virtudes, porque nós sozinhos não poderemos jamais “adquiri-las”. “O fruto do Espírito, porém, é: amor, alegria, paz, paciência, amabilidade, bondade, lealdade, mansidão, domínio próprio” (Gal 5,22). Então também a observância externa, a modéstia, tornar-se-ão irradiação do Espírito Santo. Por isso, como dizem as nossas instruções do Noviciado: “o exercício da modéstia se apresenta como um exercício sobretudo interior que se explica na moderação das potencias, que procura o recolhimento da alma e a sujeita ao Espírito Santo, o qual a atrai, a penetra, a investe, a eleva, esquece de si, até ao louvor e glorificação de Deus. A modéstia é então uma virtude inerente à vida de oração, e por isso é uma virtude sumamente carmelitana; não só, mas a perfeição desta virtude, que é a paz interior e a submissão total ao influxo do Espírito Santo, coincide então, com a plenitude da vida espiritual na alma transformada em Deus pela união de amor. A natureza inferior, que está em nós e que permanece, não deve manifestar-se mais, mas se irradia só o espírito”.

Não se age mais de modo humano, mas de modo divino pelo Espírito Santo que está em nós.

“Todos aqueles que se deixam conduzir pelo Espírito de Deus são filhos de Deus” (Rm 8, 14), esta é a verdadeira vida, a vida dos filhos de Deus.

Esta deve ser a minha vida como Esposa de Jesus.

Uma esposa assume o espírito, o modo, os gostos do Esposo

Ela se conforma inteiramente à sua vontade, se associa à sua obra, se mantém em contínuo contato de amor com o Esposo, não pensa senão nos seus interesses, esquece de si …

Assim devo fazer eu com Jesus, ou ao invés, o fará em mim o Espírito Santo, por isso lhe peço isso: “altissimi donum Dei” (Dom altíssimo de Deus).

O ato inimitável da minha virgem patrona, Santa Apolônia[1] que espontaneamente se lançou nas chamas, na qual consumou seu martírio, posso imitá-lo espiritualmente:  lançar-me naquele “fogo divino” que é o Espírito Santo para que complete a minha purificação, destrua o meu miserável “eu” e me transforme em amor.

Nestes Exercícios suplico por isso ao Espírito Santo de sobrevir em mim, dirigir-me no seu beneplácito e tornar-me dócil.

“De manhã em manhã ele me desperta, sim, desperta o meu ouvido para que eu ouça como discípulo” (Is 50,4b). “A minha unção vos instrui em cada coisa (1Jo 2,27). Mas é preciso grande recolhimento e silencio para ouvir esta voz delicada, é necessária muito mortificação para ouvir este toque, é preciso muita submissão para seguir esta moção tênue que convida e não obriga.

Ele sugere discretamente, não violenta: “O Espírito Santo que o Pai enviará no meu nome – diz Jesus no discurso da ultima ceia – ensinará a vós todas as coisas e vos sugerirá tudo” (Jo 14,26).

É toda a Trindade Santíssima que se ocupa desta pobre criaturazinha e é atenta a sua santificação, para transformá-la e levá-la a perfeita união, para fazer uma única coisa com Ela e com os irmãos: “Que todos sejam um, como tu, Pai, estás em mim, e eu em ti” (Jo 17,21).

Como é bela a Unidade de Deus e a unidade em Deus! Onde está o Espírito Santo aí está o Pai e o Filho. O Espírito Santo e o Filho dizem isto que diz o Pai: “não  falará de si mesmo, mas dirá tudo quanto tiver ouvido” (Jo 16, 13) diz Jesus do Espírito Santo. Mesma a minha palavra não deve ser “minha” devo dizer somente o que o Espírito Santo me sugere.

“Quem me vê, vê o Pai. Não crês que estou no Pai e o Pai está em mim?  As palavras que vos digo, não as digo por mim mesmo, mas o Pai que permanece em mim, realiza suas obras” (Jo 14,910).

Assim devo fazer também eu as obras do Pai, que o Espírito Santo me sugerir, permanecendo nesta continua dependência de amor que fará alcançar a mais íntima união com Deus.

Fidelidade nas mínimas inspirações

Como deveria apreciar então cada mínima inspiração! É mais preciosa que todo mundo – quer que seja a mínima inspiração de renunciar uma palavra ou um olhar, de fazer bem uma inclinação (na recitação do Ofício) – porque é uma pequena “vocação”, um convite da Santíssima Trindade, e entrar mais dentro na sua intimidade se correspondendo lhe com fidelidade, cresça na graça e no amor.

Toda a nossa perfeição cristã em dizer sempre “Amém” ao Senhor que pede algo por meio da obediência ou das inspirações e depende da nossa fidelidade em seguir a sua conduta.

É preciso evitar toda pequena infidelidade, toda pequena hesitação, não rejeitar nada, como fez Santa Teresa do Menino Jesus desde a idade de três anos e então a luz irá sempre crescendo e o amor tornar-se-á um abismo que não se pode jamais entender. Mas sei que praticamente, com frequência cairei, faltarei – Deus meu! Não seja voluntariamente! – mas mesmo neste caso devo levantar-me, colocar-me de novo sob o influxo do Espírito Santo, com um ato de amor, sem deixar-me perturbar-me, nem desanimar, porque o Espírito é suave: “O quam… suavis est, Domine, Spiritus tuus!”[2] (Sab 12,1) e “onde está o Espírito do Senhor aí está a liberdade” (2Cor 3, 17), alegria e paz no Espírito Santo. A alma por Ele possuída e guiada, está sempre serena, humilde e confiante.

Terei sempre que vigiar e combater contra a minha natureza corrupta e soberba, mas “se vivemos pelo Espírito, procedamos também de acordo com o Espírito” (Gal 5,25); como disse São Paulo aos Gálatas: “Caminhai segundo o Espírito e não satisfareis os desejos da carne… Aqueles que são de Cristo, crucificaram a sua carne com os vícios e as concupiscências” ( 5, 16 e 24). Sei que, infelizmente, sentirei ainda tendências más: “E nós sabemos que Deus coopera em tudo para o bem daqueles que o amam” (Rm 8,28). Trata-se de mortificar de desprezar estes modos maus, seguindo a moção oposta, isto é o Espírito Santo, e assim terei ocasião de demonstrar tantas vezes a Deus o meu amor.

Esta fidelidade a seguir os atos da graça, e não os da natureza, assim bem descritos na Imitação: “depende muito das nossas disposições. As mesmas coisas as vezes as acolhemos bem, generosamente e as vezes somos ao invés vis. Depende de nós, mas com frequência a nossa vontade é fraca, as virtudes são insuficientes, certas vezes acontece heroísmo ou luz maior: não se sabe como comportar-se, não se vê onde esteja o mais perfeito, como conciliar duas virtudes, dois deveres que parecem contrastantes, como superar uma prova”, etc.

Eis porque sinto desejo dos dons do Espírito Santo, desta qualidade permanente que nos fazem dóceis às inspirações divinas, de modo a ser movidas divinamente, quase por instinto divino, pelo sentido sobrenatural… e agir de modo divino.  São como as velas em relação a barca prontas para serem levadas pelo vento, a levar antes rapidamente, sem esforço dos remos, a própria barca. Quando o Espírito Santo investe em uma alma com os seus dons a leva adiante rapidamente, e quase facilmente na via da santidade: “Correrei pelo caminho dos teus mandamentos, pois dilataste o meu coração” (Sl 118,32). “O homem não pode receber coisa alguma, se não lhe é dado do céu”. “Todo dom precioso e toda dádiva perfeita vêm do alto, descendo do Pai das luzes, em quem não há variação nem sombra de mudança”, diz São Tiago (1,17). Por isso peço com todo o coração ao Pai de infundir em mim o Espírito Santo com os seus dons, eu peço a Jesus como dom de núpcias e confio de obtê-lo porque Jesus disse: “Ora, se vós, que sois maus, sabeis dar coisas boas aos vossos filhos, quanto mais o vosso Pai que está nos céus dará coisas boas aos que lhe pedirem!” (Mt 7,11).

Depois invoco com todo o coração o mesmo Espírito Santo: “Vinde, Doador dos dons … Teus sete dons… vossos sete sagrados dons”.

 

“Ascendei a vossa luz em nossas almas,

Infundi o vosso amor em nossos corações;

E a fraqueza da nossa carne,

Fortalecei-a com perpétua força”.

 

Atitude interior diante do Espírito Santo

Nestes Exercícios me coloco diante dele, como um pequeno fruto colhido que deve amadurecer ao sol, como uma palha que deve ser queimada no fogo, como uma cera informe que deve ser absorvida pelo sol, como uma menina ignorante que deve ser instruída. Jesus disse: “Se não vos converterdes e não vos tornardes como crianças, não entrareis no Reino dos Céus” (Mt 18,3) … “Quem não receber o Reino de Deus como uma criança não entrará nele” (Lc 13,7). “Todo aquele que se faz pequeno como esta criança, este será o maior no Reino dos céus” (Mt 18,4) … Devemos renascer no Espírito Santo, explica Jesus a Nicodemos (cf. Jo 3). E depois este nascimento sobrenatural ocorrido no Batismo, viver segundo o Espírito Santo. “o que nasceu do Espírito, é espírito” (Jo 3,6). Ele se infunde na alma pequena, pobre, humilde. Quero apresentar-me a Ele nesta atitude e com aquelas disposições, eu invoco:

 

Vinde, Espírito Santo, santifica-me!

 

Tenho tanto desejo da santidade! Santifica-me Tu, faz-me santa, grande santa, logo santa, sem que eu o saiba, no escondimento do Carmelo.

 

Vinde, Espírito do temor de Deus, guardai-me!

 

O Espírito Santo nos convida: “Vinde, ó filhos, escutai-me: vos ensinarei o temor do Senhor” (Sl 118, 12).

Não se trata do temor servil, mas do temor filial do menino que não quer ofender seu pai.

O temor servil é temor da pena, do castigo, inspira medo de Deus, o faz refugiar depois da culpa, como Adão e Eva, o considera como juiz exigente, como o servo infiel da parábola dos talentos…

O temor filial ao invés, inspirado pelo Espírito Santo é temor casto da ofensa de Deus que inspira a delicadeza, de consciência própria dos santos e ao mesmo tempo confiança, como em Santa Teresa do Menino Jesus.

O temor servil é imperfeito; por isso é dito que “o amor perfeito expulsa o temor” (1Jo 4,18).

O temor filial ao invés provém do amor e o acompanha, como explica o Santo Padre João da Cruz no Cântico: “Quando a alma chega a ter com perfeição o espirito de temor, conseguiu já perfeitamente o espírito do amor; enquanto que aquele temor… é um temor filial e o temor perfeito de filho nasce do amor perfeito pelo pai (C 26, n.3). E na Noite Escura diz que: “O temor de Deus, quando está perfeito, está perfeito o amor, que é quando se faz a transformação por amor da alma”. O temor filial pode ser inicial: “Toda sabedoria vem do Senhor Deus” (Eclo 1,16) e quando é perfeito torna-se “coroa da sabedoria” (Eclo 1,22)

O temor imperfeito incuti medo, restringe o coração. O temor perfeito dilata e torna vigilantes e confiantes.

Santa Teresinha aludia ao temor servil quando dizia: “a minha natureza é tal que o temor me faz retroceder; com o amor não só vou adiante, mas voo”. E era sob o influxo do temor filial quando, antes da viagem na Itália, pedia fervorosamente à Nossa Senhora de guardar a sua pureza.

O dom do temor de Deus nos preserva das culpas formais e também das materiais, porque nos torna continuamente vigilantes, e nos coloca na disposição de sofrer qualquer coisa antes que cometer o pecado. Nos santos chega a fazer-lhes evitar também as mínimas imperfeições voluntárias, e se alguma vez o Senhor, para purificar a alma, permite que este santo temor, projetando uma luz, mais forte sobre o estado da alma mesma, lhe incute angústias, tormentos de morte, reconhecendo a própria feiura e maldade diante de Deus, isto é, porém efeito da paixão de amor e é ordenado à perfeita união com Deus.

O temor de Deus nos dá assim o conhecimento experimental da nossa pequenez, miséria e da infinita grandeza de Deus, inspirando-nos grande respeito por Ele, dando-nos o sentido da sua transcendência.

E a alma que possui este dom ao máximo, dominando os movimentos naturais e toda desordem, adquire a verdadeira paz e liberdade de espírito. Nas almas santas se nota então uma admirável harmonia entre natureza e graça; nela tudo é amável, modesto, puro. São verdadeiramente simples e o Senhor concede-lhes aqueles bens, aquelas alegrias que por Ele tinha sacrificado, pelo qual não parecem mais tão austeras, tão rígidas como outra vez; tudo é suave nelas e irradiam verdadeiramente o Espírito Santo de quem estão cheias. Oh! Como é bela a santidade!

 

Vinde, Espírito de piedade, alegrai-me!

 

O temor santo de Deus, isto é o respeito pela sua grandeza e o desejo de não o ofender jamais, vai acompanhado pelo amor e pela piedade filial que nos faz considerar Deus como Pai e nos leva a honrá-lo, a pedir-lhe como tal: “De fato, vós não recebestes espírito de escravos, para recairdes no medo, mas recebestes o Espírito de adoção filial e no qual clamamos: Abbá, Pai! O próprio Espírito se une ao nosso espírito, atestando que somos filhos de Deus…” “Todos aqueles que se deixam conduzir pelo Espírito de Deus, são filhos de Deus” (Rm 8, 15.14)

Este dom nos leva à infância espiritual; nos torna como crianças confiantes e amantes do Pai e nos inclina a dedicar-nos todas ao Senhor, a consagrar-nos todas a Ele, ao seu serviço, à sua glória, inspira amor por tudo aquilo que diz respeito ao culto divino, assim também pela Regra, as Constituições, etc. como expressões da Vontade do Pai.

Faz-nos considerar o próximo como irmãos e nos torna justos, benévolos, suaves… Torna-nos prontos a compartilhar os sofrimentos, os defeitos dos outros.

“A piedade é útil para tudo” diz São Paulo, porque dá a perfeita posse de si, a inteira submissão à vontade paterna de Deus, por isso nos inspira também veneração e amor sobrenatural pelos nossos superiores, em quem reconhecemos a paternidade, a autoridade divina…

Peço ao Espírito Santo com todo o coração de infundir-me este precioso dom, que me torne uma verdadeira menina para com o Pai dos Céus, e verdadeiramente “boa” no sentido mais vasto da palavra, com todos, especialmente para as minhas queridas coirmãs.

 

Vinde, Espírito de força, robustecei-me!

 

O dom da fortaleza nos faz enfrentar com coragem, suportar com paciência coisas difíceis e graves, superando todos os obstáculos. Torna-nos generosas, intrépidas, amantes do sacrifício. É muito útil na vida religiosa e especialmente no Carmelo onde a Santa M. Teresa queria almas viris, desejosas e resolutas no tender à plena perfeição, animas cuja característica fosse a totalidade. Devo, portanto, pedir humildemente esta coragem e o amor ao sofrer.

É o dom de que precisam as almas pequenas que, como as crianças, são fracas e se cansam logo. Também sob este aspecto devo desejar e pedir tal dom, degustando aquele texto de Isaías tão próprio da “pequena via”: “Deus eterno, Senhor…não se cansa nem se afadiga pois é imperscrutável a sua sabedoria. Ele dá força a quem é cansado e aos que desanimam aumenta a robustez e o vigor. Os adolescentes se cansam e afadigam-se, os jovens caem por fraqueza. Mas aqueles que confiam no Senhor adquirirão nova força, tomarão asas como águia, correrão sem fadiga, caminharão sem cansar-se” (Isaías)

Então a alma torna-se forte com a fortaleza de Deus: “Deus é minha força e a minha salvação… quem temerei?… O homem não se sustenta com a sua força” ( cf. Sl 26) “Tudo posso naquele que me conforta” (Fl 4,13).

“Não temerei as feras, ultrapassando os fortes e as fronteiras” (Cântico Espiritual 3).

A alma, não obstante a sua fraqueza, supera as tentações, não se prende aos obstáculos e cumpre obras grandes pela graça de Deus, e com esse dom de fortaleza que a revigora, suporta com paciência, com alegria o sofrimento, antes o abraça, o deseja: “Ou morrer, ou sofrer”!

Este dom dá também energias físicas sobrenaturais para suportar fadigas e cumprir mortificações que seriam superiores às nossas forças naturais e para tirar proveito da nossa mesma fraqueza: “Quando sou fraco então sou forte… de fato, a virtude se aperfeiçoa por meio da fraqueza” (cf. 2Cor 12, 10.9).

Invoco este dom com todo o coração para ser generosa no sofrer, segura que o Senhor desejará fazer-me o grande dom da sua Cruz e para obter de poder fazer bem a santa observância do Carmelo:

“Com prazer… me alegrarei nas minhas fraquezas, afim de que habite em mim o poder de Cristo” (2Cor 12,9). E se Jesus, o Forte divino, quis sofrer com lágrimas e gemidos, será então possível derramar lagrimas sob o aperto da dor, mas com plena resignação.

 

Vinde, Espírito do conselho, recordai-me!

 

Ó como sinto necessidade e desejo deste dom para discernir sempre a vontade de Deus, por isso o mais perfeito. Para saber julgar e agir sempre de modo divino.

O dom do conselho, de fato, aperfeiçoando a virtude da prudência, nos dá uma grande estima do fim único a que tendemos, e nos faz escolher com segurança os meios melhores, sabendo descobrir e servir-se daqueles meios que humanamente não pareceriam adaptos, mas que nos desígnios da divina Sabedoria, devem ajudar-nos a alcançar o fim. Assim, por exemplo, nos faz dar conta numa tentação de orgulho – combatida e vencida – um meio para praticar a humildade.

Sob o influxo deste dom sabemos falar ou calar, agir ou esperar sem hesitação ou incerteza. Este dom inspira toda a nossa conduta, o nosso modo de comportar-nos com o próximo, nos sugere as palavras oportunas, os atos aptos para praticar as obras de misericórdia.

Mas para obter este dom é preciso fazer-se pequenos; sermos humildes, desconfiados de si, do próprio juízo; recorrer confiantemente ao Senhor na oração, ao Pai espiritual e às superioras para a direção. É preciso ser simples e dóceis para receber e seguir a luz do Espírito Santo…

Numa decisão a tomar, numa resposta a dar, etc. habitar-me sempre a elevar a mente ao Espírito Santo e, se é possível, pedir conselho a quem me representa Deus, depois segui-lo com grande docilidade e respeito.

Ocorre, porém, mortificação para renunciar com prontidão às nossas curtas vistas, ao nosso modo de ver, seguindo logo a moção divina, o conselho do Espírito Santo e isto será sempre inspirado pela caridade, pela misericórdia, pela humildade.

Pedir ao Espírito Santo com ardor de iluminar-me nos momentos de dúvida, e encomendar-me à Nossa Senhora, Mãe do Bom Conselho, para que me obtenha este dom.

 

Vinde, Espírito de ciência, ensina-me!

 

Não se trata de ciência adquirida por meio do estudo, mas uma ciência experimental mística, infundida pelo Espírito Santo, ciência que diz respeito às criaturas, levando-nos de um lado a conhecer o nosso nada, a nossa miséria diante do Criador e de outra parte a amá-las na justa medida, ordenando-as a Deus.

É a ciência dos santos a qual o Senhor a revela na oração e através de provas especiais. Em alguns santos desponta mais o primeiro aspecto deste dom: desapego das criaturas; em outros santos o segundo aspecto: uso amável das criaturas como meio para elevar-se a Deus, para que desdobrem também nas criaturas o simbolismo que contém e pela beleza da natureza se elevam a Deus.

Este dom se liga ao temor de Deus porque nos faz compreender a gravidade do pecado (que contrapõe a criatura ao Criador) e há por fruto as lagrimas de contrição: “Felizes os que choram…”.   

Para atingir a perfeita união com Deus e gozar da experiência da sua imensa bondade, é preciso ser desapegadas das criaturas e conhecer a sua pobreza, a sua limitação. O dom da ciência, através sobretudo das noites do espírito, nos faz tocar com a mão e despojando a alma lhe dá, pois, um precioso equilíbrio que a preserva de temer ou amar as criaturas de modo que a separem de Deus: “Quem nos separará do amor de Cristo?” (Rm 8, 35).

A alma iluminada por este dom pede a Deus como São Nicolau de Flüe: “Tira-me tudo o que me desvia de Ti; concede-me tudo o que aproxima de Ti. Arrancai-me de mim, afim de que eu viva tudo e sempre por Ti”. É a oração de São Francisco de Assis, de todos os santos: “Arranca, Senhor, a ardente e doce força do teu amor a minha mente de todas as coisas terrenas…” Este dom nos faz então apreciar os sofrimentos, as humilhações, nos faz praticar a verdadeira humildade.

Às almas humildes o Senhor revela então os seus segredos: “Com os simples e em secreta intimidade” (Pr 3,32). Ensina a “ciência do amor”: “Revelastes aos pequeninos” (Mt 11, 25). Ensina-a sem o rumor das palavras, mas fazendo-se sentir no mais íntimo da alma, em cada momento, como diz Santa Teresa do Menino Jesus. Esta ciência que provém do amor e da humildade é a verdadeira ciência, aquela do Espírito Santo. Eu a desejo ardentemente, não aquela que incha. A Imitação me adverte: “Que te serve pensar até o fundo da Trindade, quando não és humilde e por isso desagradas a Trindade? … quero antes sentir a compunção que saber como defini-la”.

 

Vinde Espírito de inteligência, ilumina-me!

 

“Dá-me inteligência, e eu observarei a tua Lei…” (Sl 118, 34). O dom da inteligência (intus legere) nos faz penetrar com uma luz infusa nos mistérios da fé, nos preceitos, nos conselhos; nos mostra toda a sua evidência, a credibilidade, a oportunidade sem, porém, tirar a obscuridade e o mérito da fé.

Faz nos ultrapassar a letra para agarrar o sentido da Sagrada Escritura, da doutrina de Cristo de quem nos faz compreender o sentido escondido, dando-nos luzes particulares.

É o dom que convém às almas contemplativas para fazer nascer nelas a contemplação. Devo pedi-lo com humildade, sem pretensões, mas com vivo desejo, recordando que Deus a concede às almas pequenas e humildes: “Dá entendimento aos pequeninos” (Sl 118, 130).    

Este dom precioso refina e torna mais penetrante o nosso espírito, de modo que possa conhecer a verdade sobrenatural sem alguma confusão, nem erro. Dá-nos a evidência da verdade revelada e a calma que deriva dela julgando, não segundo o modo humano, mas divino, não sensível, mas espiritual.

A isso corresponde a Bem-aventurança dos “puros de coração” a quem é prometida a visão de Deus. Pureza que não se refere somente aos afetos, mas também à mente, expulsando dela toda nuvem de erro, toda incerteza, toda ilusão, estabelecendo a alma na verdade, pela qual esta vê Deus através da fé nesta vida e na de lá, o verá face a face, como Ele se vê.

Peço ao Espírito Santo de dar-me a inteligência do mistério da Cruz, dos rebaixamentos do Verbo divino, da infinita Misericórdia e Providência divinas, do meu nada, do seu tudo.

 

Vinde, Espírito de sabedoria, atrai-me!

 

A Sabedoria, diz São Bernardo, é o conhecimento saboroso das coisas de Deus, é próprio o dom dos contemplativos, das almas pequenas e humildes, como diz São João da Cruz:

“Adquirem a sabedoria de Deus somente aqueles que, como crianças ignorantes, despindo-se do próprio saber avançam com amor no seu serviço” (Subida 1,1 e 4, 4). E o Salmista diz: “o testemunho do Senhor, torna sábios os simples (Sl 18, 8); antes, a Sabedoria mesma, o Espírito Santo diz: “Se alguém é pequeno venha a mim” (Prov 9,4); “Provai e vede como é suave o Senhor!” (Sl 33,9).   

Aqui se trata de depor o juízo humano e de julgar segundo a sabedoria divina: “…as coisas de Deus ninguém conhece senão o Espírito de Deus…este Espírito de Deus nós o recebemos… O homem espiritual julga todas as coisas…Nós temos o sentido de Cristo” (cf. 1Cor 2, 11.12.16).

Esta sabedoria é loucura para o mundo, mas para nós e a luz mais preciosa e a fonte da alegria, da paz. De fato, o dom da sabedoria que é comunicado à alma em proporção da caridade, corresponde a bem-aventurança dos pacíficos, daqueles que já conquistaram o pleno domínio sobre si mesmos e sobre tudo, nem se deixam mais perturbar por nada.

O dom da sabedoria é um conhecimento místico afetivo fundado sobre o gosto e a experiência íntima da doçura divina. Ela nos dispõe a julgar tudo segundo as causas mais elevadas, a ver tudo na luz de Deus, a julgar retamente “recta sapere” por uma certa conaturalidade com as coisas divinas e um gosto experimental de tais coisas.

É o amor que ilumina a inteligência e lhe dá uma penetração saborosa superior. É um saber tudo espiritual que não provem de um raciocínio, mas de uma espécie de instinto divino, um sentido sobrenatural, que tornou-se para a alma como natural, o “sentido de Cristo”. Temos então um conhecimento quase experimental de Deus, mediante a ação que Ele exercita em nós e mediante a alegria espiritual e a paz que provém dele. “O próprio Espírito dá testemunho ao nosso espírito que nós somos filhos de Deus” (Rm 8, 16).

“Ó como é suave, ó Senhor, o teu Espírito” (Sb 12,1)[3].

A alma não vê mais senão Deus, o vê como causa primeira de tudo: “em tudo isso que vê em si e fora de si, toca Deus, saboreia Deus, como inebriada e transbordante da plenitude da divindade”. “Os canais de um rio alegram a cidade de Deus, as tendas santas do Altíssimo” (Sl 45, 5).

A alma experimenta e compreende de verdade que “tudo coopera para o bem daqueles que amam a Deus” (Rm 8,28) e vive feliz, segura, imersa em Deus, mesmo no meio as dores desta vida. É a vida da alma transformada.

Oh como desejo este dom! Mas para isso devo habituar-me a ver Deus em tudo e em todos: “O Senhor está!”

Não me perder nos detalhes, não parar nas causas segundas, mas subir para Deus, reduzir tudo Nele, reduzir tudo na unidade, no amor!

 

Vinde, Espírito da verdade, enchei-me!

 

A sabedoria divina me estabelecerá na verdade. Dela sou sedenta e queria que reinasse na minha mente, nas minhas palavras, nos meus afetos, nas minhas ações, evitando tudo o que lhe é contrário, não só a mentira, mas dissimulações, duplicidades, faltas de sinceridade também com mim mesma.

 

Vinde, Espírito da paz, dá-me a tua paz!

 

Aquela paz profunda que dilata a alma, que a torna apta às suas divinas operações, que acalma e domina toda a parte sensível e também aquela superior.

 

Vinde, Espírito de caridade, inflamai-me!

 

E faz que eu seja tão inflamada do teu amor para extravasá-lo sobre todas as almas que queira levar a Ti. Oh! Transformai-me em amor. Só assim poderei responder plenamente à tua chamada e ser útil à Igreja.

 

Resoluções

Consagrada ao Amor pela minha Profissão na santa Ordem Carmelitana, não tenho mais outra missão, nem oficio “que então só no amar é o meu exercício”, por isso, agradecendo o Senhor por vocação tal alta, seguindo a moção do Espírito Santo, tomo a resolução de dar ao Senhor o máximo amor: amá-lo até o desprezo de mim mesma e nele amar o próximo, especialmente as minhas coirmãs, até o esquecimento de mim mesma. Ter pelo Senhor e pelas suas Esposas os mais delicados tons da caridade.

 

Em prática:

Por Deus: fazer tudo por Amor! – com generosidade, não com ganância ou negligência, porque cada meu dever me manifesta a vontade de Deus, que quero cumprir perfeitamente (voto do mais perfeito); – com simplicidade e pureza de intenção, somente para agradar a Ele (voto de castidade e voto de humildade); – com docilidade, prontidão, na obediência, sem replicar (voto de obediência); – trabalhando com assiduidade, sem perder tempo (voto de pobreza);

Pelas coirmãs: estimá-las melhores do que eu, considerando-me um nada; – alegrar-me com o bem delas como se fosse meu. – Evitar nas palavras e no trato o que poderia desgostá-las; – ser muito serviçal, tomando para mim a parte mais difícil, ser condescendente, aceitar amavelmente a ajuda delas.

Jesus, quereria amar-te quanto jamais foste amado! E queria amar as tuas Esposas como tu as amastes! Oh Espírito Santo, Amor incriado, vinde em mim e ama em mim!

Crer no Amor – Receber o Amor – Dar o Amor, eis a vida da carmelitana!