Thursday, 16 September 2021

Thursday Serial: "Le Avventure di Pinocchio" by Carlo Collodi (in Italian) - VII

 XXV.

Pinocchio promette alla Fata di essere buono e di studiare, perchè è stufo di fare il burattino e vuol diventare un bravo ragazzo.

 

In sulle prime, la buona donnina cominciò col dire che lei non era la piccola Fata dai capelli turchini: ma poi, vedendosi oramai scoperta e non volendo mandare più in lungo la commedia, finì per farsi riconoscere, e disse a Pinocchio:

— Birba d’un burattino! Come mai ti sei accorto che ero io?

— Gli è il gran bene che ti voglio, quello che me l’ha detto.

— Ti ricordi, eh? Mi lasciasti bambina, e ora mi ritrovi donna; tanto donna, che potrei quasi farti da mamma.

— E io l’ho caro dimolto, perchè così, invece di sorellina, vi chiamerò la mia mamma. Gli è tanto tempo che mi struggo di avere una mamma come tutti gli altri ragazzi!... Ma come avete fatto a crescere così presto?

― È un segreto.

— Insegnatemelo: vorrei crescere un poco anch’io. Non lo vedete? Son sempre rimasto alto come un soldo di cacio.

— Ma tu non puoi crescere — replicò la Fata.

— Perchè?

— Perchè i burattini non crescono mai. Nascono burattini, vivono burattini e muoiono burattini.

— Oh! sono stufo di far sempre il burattino! — gridò Pinocchio, dandosi uno scappellotto. — Sarebbe ora che diventassi anch’io un uomo....

— E lo diventerai, se saprai meritartelo....

— Davvero? E che posso fare per meritarmelo?

— Una cosa facilissima: avvezzarti a essere un ragazzino perbene.

— O che forse non lo sono?

— Tutt’altro! I ragazzi perbene sono ubbidienti, e tu invece....

— E io non ubbidisco mai.

— I ragazzi perbene prendono amore allo studio e al lavoro, e tu....

— E io, invece, faccio il bighellone e il vagabondo tutto l’anno.

— I ragazzi perbene dicono sempre la verità....

— E io sempre le bugie.

— I ragazzi perbene vanno volentieri alla scuola....

— E a me la scuola mi fa venire i dolori di corpo. Ma da oggi in poi voglio mutar vita.

— Me lo prometti?

— Lo prometto. Voglio diventare un ragazzino perbene, e voglio essere la consolazione del mio babbo.... Dove sarà il mio povero babbo, a quest’ora?

— Non lo so.

— Avrò mai la fortuna di poterlo rivedere e abbracciare?

— Credo di si: anzi ne sono sicura. —

A questa risposta fu tale e tanta la contentezza di Pinocchio, che prese le mani alla Fata e cominciò a baciargliele con tanta foga, che pareva quasi fuori di sè. Poi, alzando il viso e guardandola amorosamente, le domandò:

— Dimmi, mammina: dunque non è vero che tu sia morta?

— Par di no — rispose sorridendo la Fata.

— Se tu sapessi che dolore e che serratura alla gola che provai, quando lessi qui giace....

— Lo so: ed è per questo che ti ho perdonato. La sincerità del tuo dolore mi fece conoscere che tu avevi il cuore buono: e dai ragazzi buoni di cuore, anche se sono un po’ monelli e avvezzati male, c’è sempre da sperar qualcosa: ossia, c’è sempre da sperare che rientrino sulla vera strada. Ecco perchè son venuta a cercarti fin qui. Io sarò la tua mamma....

— Oh che bella cosa! — gridò Pinocchio saltando dall’allegrezza.

— Tu mi ubbidirai e farai sempre quello che ti dirò io.

— Volentieri, volentieri, volentieri!

— Fino da domani — soggiunse la Fata — tu comincerai coll’andare a scuola. —

Pinocchio diventò subito un po’ meno allegro.

— Poi sceglierai a tuo piacere un’arte o un mestiere.... —

Pinocchio diventò serio.

— Che cosa brontoli fra i denti? — domandò la Fata con accento risentito.

— Dicevo.... — mugolò il burattino a mezza voce — che oramai per andare a scuola mi pare un po’ tardi....

— Nossignore. Tieni a mente che per istruirsi e per imparare non è mai tardi.

— Ma io non voglio fare nè arti nè mestieri....

— Perchè?

— Perchè a lavorare mi par fatica.

— Ragazzo mio, — disse la Fata — quelli che dicono così, finiscono quasi sempre o in carcere o all’ospedale. L’uomo, per tua regola, nasca ricco o povero, è obbligato in questo mondo a far qualcosa, a occuparsi, a lavorare. Guai a lasciarsi prendere dall’ozio! L’ozio è una bruttissima malattia e bisogna guarirla subito, fin da bambini: se no, quando siamo grandi, non si guarisce più. —

Queste parole toccarono l’animo di Pinocchio, il quale rialzando vivacemente la testa, disse alla Fata:

— Io studierò, io lavorerò, io farò tutto quello che mi dirai, perchè insomma, la vita del burattino mi è venuta a noia, e voglio diventare un ragazzo a tutti i costi. Me l’hai promesso, non è vero?

— Te l’ho promesso, e ora dipende da te. —

 

 

XXVI.

Pinocchio va co’ suoi compagni di scuola in riva al mare, per vedere il terribile Pesce-cane.

 

Il giorno dopo Pinocchio andò alla scuola comunale.

Figuratevi quelle birbe di ragazzi, quando videro entrare nella loro scuola un burattino! Fu una risata, che non finiva più. Chi gli faceva uno scherzo, chi un altro: chi gli levava il berretto di mano: chi gli tirava il giubbettino di dietro; chi si provava a fargli coll’inchiostro due grandi baffi sotto il naso, e chi si attentava perfino a legargli dei fili ai piedi e alle mani, per farlo ballare.

Per un poco Pinocchio usò disinvoltura e tirò via; ma finalmente, sentendosi scappar la pazienza, si rivolse a quelli che più lo tafanavano e si pigliavano gioco di lui, e disse loro a muso duro:

— Badate, ragazzi: io non son venuto qui per essere il vostro buffone. Io rispetto gli altri e voglio essere rispettato.

— Bravo Berlicche! Hai parlato come un libro stampato! — urlarono quei monelli, buttandosi via dalle matte risate: e uno di loro, più impertinente degli altri, allungò la mano coll’idea di prendere il burattino per la punta del naso.

Ma non fece a tempo: perchè Pinocchio stese la gamba sotto la tavola e gli consegnò una pedata negli stinchi.

— Ohi! che piedi duri! — urlò il ragazzo stropicciandosi il livido che gli aveva fatto il burattino.

— E che gomiti!... anche più duri dei piedi! — disse un altro che, per i suoi scherzi sguaiati, s’era beccata una gomitata nello stomaco.

Fatto sta che dopo quel calcio e quella gomitata, Pinocchio acquistò subito la stima e la simpatia di tutti i ragazzi di scuola: e tutti gli facevano mille carezze e tutti gli volevano un ben dell’anima.

E anche il maestro se ne lodava, perchè lo vedeva attento, studioso, intelligente, sempre il primo a entrare nella scuola, sempre l’ultimo a rizzarsi in piedi, a scuola finita.

Il solo difetto che avesse era quello di bazzicare troppi compagni; e fra questi c’erano molti monelli conosciutissimi per la loro poco voglia di studiare e di farsi onore.

Il maestro lo avvertiva tutti i giorni, e anche la buona Fata non mancava di dirgli e di ripetergli più volte:

— Bada, Pinocchio! Quei tuoi compagnacci di scuola finiranno, prima o poi, col farti perdere l’amore allo studio e, forse forse, col tirarti addosso qualche grossa disgrazia.

— Non c’è pericolo! — rispondeva il burattino, facendo una spallucciata, e toccandosi coll’indice in mezzo alla fronte, come per dire: «C’è tanto giudizio qui dentro!»

Ora avvenne che un bel giorno, mentre camminava verso la scuola, incontrò un branco dei soliti compagni, che andandogli incontro, gli dissero:

— Sai la gran notizia?

— No.

— Qui nel mare vicino è arrivato un Pesce-cane, grosso come una montagna.

— Davvero?... Che sia quel medesimo Pesce-cane di quando affogò il mio povero babbo?

— Noi andiamo alla spiaggia per vederlo. Vuoi venire anche tu?

— Io no: io voglio andare a scuola.

— Che t’importa della scuola? Alla scuola ci anderemo domani. Con una lezione di più o con una di meno, si rimane sempre gli stessi somari.

— E il maestro che dirà?

— Il maestro si lascia dire. È pagato apposta per brontolare tutti i giorni.

— E la mia mamma?

— Le mamme non sanno mai nulla — risposero quei malanni.

— Sapete che cosa farò? — disse Pinocchio. — Il Pesce-cane voglio vederlo per certe mie ragioni.... ma anderò a vederlo dopo la scuola.

— Povero giucco! — ribattè uno del branco. — Che credi che un pesce di quella grossezza voglia star lì a fare il comodo tuo? Appena s’è annoiato, piglia il dirizzone per un’altra parte, e allora chi s’è visto s’è visto.

— Quanto tempo ci vuole di qui alla spiaggia? — domandò il burattino.

— Fra un’ora siamo bell’e andati e tornati.

— Dunque, via! e chi più corre, è più bravo! — gridò Pinocchio.

Dato così il segnale della partenza, quel branco di monelli coi loro libri e i loro quaderni sotto il braccio si messero a correre attraverso ai campi: e Pinocchio era sempre avanti a tutti: pareva che avesse le ali ai piedi.

Di tanto in tanto, voltandosi indietro, canzonava i suoi compagni rimasti a una bella distanza, e nel vederli ansanti, trafelati, polverosi e con tanto di lingua fuori, se la rideva proprio di cuore. Lo sciagurato, in quel momento, non sapeva a quali paure e a quali orribili disgrazie andava incontro!...

 

 

XXVII.

Gran combattimento fra Pinocchio e i suoi compagni: uno de’ quali essendo rimasto ferito, Pinocchio viene arrestato dai carabinieri.

 

Giunto che fu sulla spiaggia, Pinocchio dètte subito una grande occhiata sul mare; ma non vide nessun Pesce-cane. Il mare era tutto liscio come un gran cristallo da specchio.

— O il Pesce-cane dov’è? — domandò, voltandosi ai compagni.

— Sarà andato a far colazione — rispose uno di loro, ridendo.

— O si sarà buttato sul letto per far un sonnellino — soggiunse un altro, ridendo più forte che mai.

Da quelle risposte sconclusionate e da quelle risatacce grulle, Pinocchio capì che i suoi compagni gli avevano fatto una brutta celia, dandogli ad intendere una cosa che non era vera, e pigliandosela a male, disse a loro con voce di bizza:

— E ora? che sugo ci avete trovato a darmi ad intendere la storiella del Pesce-cane?

— Il sugo c’è sicuro!... — risposero in coro quei monelli.

— E sarebbe?

— Quello di farti perdere la scuola e di farti venire con noi. Non ti vergogni a mostrarti tutti i giorni così preciso e così diligente alla lezione? Non ti vergogni a studiar tanto, come fai?

— E se io studio, che cosa ve ne importa?

— A noi ce ne importa moltissimo, perchè ci costringi a fare una brutta figura col maestro....

— Perchè?

— Perchè gli scolari che studiano, fanno sempre scomparire quelli, come noi, che non hanno voglia di studiare. E noi non vogliamo scomparire! Anche noi abbiamo il nostro amor proprio!...

— E allora che cosa devo fare per contentarvi?

— Devi prendere a noia, anche tu, la scuola, la lezione e il maestro, che sono i nostri tre grandi nemici.

— E se io volessi seguitare a studiare?

— Noi non ti guarderemo più in faccia, e alla prima occasione ce la pagherai!

— In verità mi fate quasi ridere — disse il burattino con una scrollatina di capo.

— Ehi, Pinocchio! — gridò allora il più grande di quei ragazzi andandogli sul viso. — Non venir qui a fare lo smargiasso: non venir qui a far tanto il galletto!... perchè se tu non hai paura di noi, neanche noi abbiamo paura di te! Ricordati che tu sei solo e noi siamo sette.

— Sette come i peccati mortali — disse Pinocchio con una gran risata.

— Avete sentito? Ci ha insultati tutti! Ci ha chiamati col nome di peccati mortali!...

— Pinocchio! chiedici scusa dell’offesa.... e se no, guai a te!...

— Cucù! — fece il burattino, battendosi coll’indice sulla punta del naso, in segno di canzonatura.

— Pinocchio! la finisce male!...

— Cucù!

— Ne toccherai quanto un somaro!...

— Cucù!

— Ritornerai a casa col naso rotto!...

— Cucù!

— Ora il Cucù te lo darò io! — gridò il più ardito di quei monelli. — Prendi intanto quest’acconto, e serbalo per la cena di stasera. —

E nel dir così gli appiccicò un pugno nel capo.

Ma fu, come si suol dire, botta e risposta; perchè il burattino, com’era da aspettarselo, rispose subito con un altro pugno: e lì, da un momento all’altro, il combattimento diventò generale e accanito.

Pinocchio, sebbene fosse solo, si difendeva come un eroe. Con quei suoi piedi di legno durissimo lavorava così bene, da tener sempre i suoi nemici a rispettosa distanza. Dove i suoi piedi potevano arrivare e toccare, ci lasciavano sempre un livido per ricordo.

Allora i ragazzi indispettiti di non potersi misurare col burattino a corpo a corpo, pensarono bene di metter mano ai proiettili; e sciolti i fagotti de’ loro libri di scuola, cominciarono a scagliare contro di lui i Sillabari, le Grammatiche, i Giannettini, i Minuzzoli, i Racconti del Thouar, il Pulcino della Baccini e altri libri scolastici: ma il burattino, che era d’occhio svelto e ammalizzito, faceva sempre civetta a tempo, sicchè i volumi, passandogli di sopra al capo, andavano tutti a cascare nel mare.

Figuratevi i pesci! I pesci, credendo che quei libri fossero roba da mangiare, correvano a frotte a fior d’acqua; ma dopo avere abboccata qualche pagina o qualche frontespizio, la risputavano subito, facendo con la bocca una certa smorfia, che pareva volesse dire: «Non è roba per noi: noi siamo avvezzi a cibarci molto meglio!»

Intanto il combattimento s’inferociva sempre più, quand’ecco che un grosso Granchio, che era uscito fuori dell’acqua e s’era adagio adagio arrampicato fin sulla spiaggia, gridò con una vociaccia di trombone infreddato:

— Smettetela, birichini che non siete altro! Queste guerre manesche fra ragazzi e ragazzi raramente vanno a finir bene. Qualche disgrazia accade sempre!... —

Povero Granchio! Fu lo stesso che avesse predicato al vento. Anzi, quella birba di Pinocchio, voltandosi indietro a guardarlo in cagnesco, gli disse sgarbatamente:

— Chetati, Granchio dell’uggia! Faresti meglio a succiare due pasticche di lichene per guarire da codesta infreddatura di gola. Va’ piuttosto a letto e cerca di sudare!... —

In quel frattempo i ragazzi, che avevano finito oramai di tirare tutti i loro libri, occhiarono lì a poca distanza il fagotto dei libri del burattino, e se ne impadronirono in men che non si dice.

Fra questi libri, v’era un volume rilegato in cartoncino grosso, colla costola e colle punte di cartapecora. Era un Trattato di Aritmetica. Vi lascio immaginare se era peso di molto!

Uno di quei monelli agguantò quel volume, e presa di mira la testa di Pinocchio, lo scagliò con quanta forza aveva nel braccio: ma invece di cogliere il burattino, colse nella testa uno dei compagni, il quale diventò bianco come un panno lavato, e non disse altro che queste parole:

— O mamma mia, aiutatemi.... perchè muoio!... — Poi cadde disteso sulla rena del lido.

Alla vista di quel morticino, i ragazzi spaventati si dettero a scappare a gambe, e in pochi minuti non si videro più.

Ma Pinocchio rimase lì; e sebbene per il dolore e per lo spavento, anche lui fosse più morto che vivo, nondimeno corse ad inzuppare il suo fazzoletto nell’acqua del mare, e si pose a bagnare la tempia del suo povero compagno di scuola. E intanto, piangendo dirottamente e disperandosi, lo chiamava per nome e gli diceva:

— Eugenio!... povero Eugenio mio!... apri gli occhi e guardami!... Perchè non mi rispondi? Non sono stato io, sai, che ti ho fatto tanto male! Credilo, non sono stato io!... Apri gli occhi, Eugenio... Se tieni gli occhi chiusi, mi farai morire anche me... O Dio mio! come farò ora a tornare a casa?... Con che coraggio potrò presentarmi alla mia buona mamma? Che sarà di me?... Dove fuggirò?... Dove anderò a nascondermi?... Oh quant’era meglio, mille volte meglio che fossi andato a scuola!... Perchè ho dato retta a questi compagni, che sono la mia dannazione? E il maestro me l’aveva detto!... e la mia mamma me l’aveva ripetuto: — Guardati dai cattivi compagni! — Ma io sono un testardo... un caparbiaccio... lascio dir tutti, e poi fo sempre a modo mio! E dopo mi tocca a scontarle.... E così, da che sono al mondo, non ho mai avuto un quarto d’ora di bene. Dio mio! Che sarà di me, che sarà di me, che sarà di me? —

E Pinocchio continuava a piangere, a berciare, a darsi dei pugni nel capo e a chiamar per nome il povero Eugenio, quando sentì a un tratto un rumore sordo di passi che si avvicinavano.

Si voltò: erano due carabinieri.

— Che cosa fai così sdraiato per terra? — domandarono a Pinocchio.

— Assisto questo mio compagno di scuola.

— Che gli è venuto male?

— Par di sì!...

— Altro che male! — disse uno dei carabinieri, chinandosi e osservando Eugenio da vicino. — Questo ragazzo è stato ferito in una tempia: chi è che l’ha ferito?

— Io no! — balbettò il burattino che non aveva più fiato in corpo.

— Se non sei stato tu, chi è stato dunque che l’ha ferito?

— Io no! — ripetè Pinocchio.

— E con che cosa è stato ferito?

— Con questo libro. — E il burattino raccattò di terra il Trattato di Aritmetica, rilegato in cartone e cartapecora, per mostrarlo al carabiniere.

— E questo libro di chi è?

— Mio.

— Basta così: non occorre altro. Rizzati subito e vien via con noi.

— Ma io....

— Via con noi!...

— Ma io sono innocente....

— Via con noi! —

Prima di partire, i carabinieri chiamarono alcuni pescatori, che in quel momento passavano per l’appunto colla loro barca vicino alla spiaggia, e dissero loro:

— Vi affidiamo questo ragazzetto ferito nel capo. Portatelo a casa vostra e assistetelo. Domani torneremo a vederlo. —

Quindi si volsero a Pinocchio e dopo averlo messo in mezzo a loro due, gl’intimarono con accento soldatesco:

— Avanti! e cammina spedito! se no, peggio per te! —

Senza farselo ripetere, il burattino cominciò a camminare per quella viottola, che conduceva al paese. Ma il povero diavolo non sapeva più nemmeno lui in che mondo si fosse. Gli pareva di sognare, e che brutto sogno! Era fuori di sè. I suoi occhi vedevano tutto doppio: le gambe gli tremavano: la lingua gli era rimasta attaccata al palato e non poteva più spiccicare una sola parola. Eppure, in mezzo a quella specie di stupidità e di rintontimento una spina acutissima gli bucava il cuore: il pensiero, cioè, di dover passare sotto le finestre di casa della sua buona fata, in mezzo ai carabinieri. Avrebbe preferito piuttosto di morire.

Erano già arrivati e stavano per entrare in paese, quando una folata di vento strapazzone levò di testa a Pinocchio il berretto, portandoglielo lontano una diecina di passi.

— Si contentano — disse il burattino ai carabinieri — che vada a riprendere il mio berretto?

— Vai pure; ma facciamo una cosa lesta.—

Il burattino andò, raccattò il berretto.... ma invece di metterselo in capo, se lo mise in bocca fra i denti, e poi cominciò a correre di gran carriera verso la spiaggia del mare. Andava via come una palla di fucile.

I carabinieri, giudicando che fosse difficile raggiungerlo, gli aizzarono dietro un grosso cane mastino che aveva guadagnato il primo premio a tutte le corse dei cani. Pinocchio correva, e il cane correva più di lui: per cui tutta la gente si affacciava alle finestre e si affollava in mezzo alla strada, ansiosa di veder la fine di un palio così inferocito. Ma non potè levarsi questa voglia, perchè il can mastino e Pinocchio sollevarono lungo la strada un tal polverone, che dopo pochi minuti non era possibile di veder più nulla.

 

 

Wednesday, 15 September 2021

Excellent Readings: Sonnet LXXXIII by William Shakespeare (in English)

I never saw that you did painting need,
And therefore to your fair no painting set;
I found, or thought I found, you did exceed
The barren tender of a poet's debt:
And therefore have I slept in your report,
That you yourself, being extant, well might show
How far a modern quill doth come too short,
Speaking of worth, what worth in you doth grow.
This silence for my sin you did impute,
Which shall be most my glory being dumb;
For I impair not beauty being mute,
When others would give life, and bring a tomb.
   There lives more life in one of your fair eyes
   Than both your poets can in praise devise.

Tuesday, 14 September 2021

Tuesday's Serial: "Turbilhão" by Coelho Neto (in Portuguese) - VIII

 Capítulo XI

No jardim do Recreio, ainda úmido, com poças d'água rebrilhando, a banda dos bombeiros estrondava requebrados tangos. Frias lufadas balançavam as lanternas, enfunavam as bandeiras, retorciam as flâmulas que faziam uma aléia triunfal à entrada e circulavam a pátio, subindo às negras folhagens das árvores raquíticas como estranhos frutos d'oiro e farrapos espadanando, alongando-se no ar, coleando, tufando.

A multidão, refluindo, em levas densas, do recinto iluminado e quente, fervilhava galrando. O mulherio alegre, em esgargalada e provocadora ostentação de carnes, saracoteava, abaixo e acima, às gargalhadas estridentes, roçando pelos rapazes com afetada lascívia.

Explodiam garrafas, tiniam copos, os caixeiros acudiam com pressa estonteada, aos berros, às rijas bengaladas que estrondavam nas mesas, aos tinidos das garrafas, às palmas estraladas com que os chamavam de todos os lados. E a murmúrio arrastado e incessante dos passos dava a impressão dum grande vento a vergar frondes, a torvelinhar folhagens.

Eugénie, conhecedora do seu "mundo", atraíra à sua festa, como engodo, todo o parasitismo galante. Fora, à gandaia, circulava a miuçalha, a fina flor impunha-se nos camarotes fazendo, em lento passeio, a volta da varanda ou em palestra junto à balaustrada.

O botequim transbordava e por toda a parte era um sussurro de festa, uma alegria estróina, risadas, gritinhos ou, modestamente, em algum recanto mais calmo, em penumbra, um casal em colóquio, sorvendo licores - ela a fazer-se ingênua, tímida, d'olhos baixos; ele todo inclinado, meigo, segredando com doçura.

Quando Paulo e Aurélio chegaram, a orquestra atacava, com fragor, uma sinfonia e o jardim esvaziava-se, todos corriam para o recinto ou iam tomar lugar à volta da balaustrada que circula a platéia, com curiosidade de ouvir a Eugénie, que devia abrir a segunda parte. Os floristas levantavam as varas apinhadas de ramos, oferecendo-os; de longe em longe, à mesa de indiferentes, rolhas espocavam ou era um cão, tosado á feição leonina, que se punha a ganir, de rojo pelo chão, aos rebolos.

Os dois rapazes deram volta, olhando friamente. Aurélio notou o grande número de cocottes:

— Como está isto! Nem uma família... Enoja! Fez um momo e cuspiu.

Paulo, sem responder, varava a multidão, levando, de vez em vez, a mão ao peito para apalpar, sentir o dinheiro no bolso interior do casaco abotoado. Aurélio queixou-se do frio. "Estava picante..." e propôs uma dose de whisky e Seltz, ali fora, longe daquele tumulto sórdido que tresandava. Mas o pano ia subir.

Fez-se um movimento de atenção; as curiosos apertavam-se, oprimiam-se, espichavam-se, d'olhos alongados, à espera da beneficiada. Subitamente a pano enrugou-se, subiu. Houve uma explosão de palmas, voaram ramos e flores soltas ao palco e, sorrindo, com os dedos apinhados em beijos, viva, duma graça desembaraçada de efebo, muito escorreita num costume de jóquei, Eugénie desfazia-se em galanteios, comovida, atendendo a toda a sala, avançando, recuando, o busto curvado, pisando ligeiramente, com as botas muito lustrosas, o boné junto ao seio, a cabeleira loura toda arrufada em cachos.

O regente ergueu-se no estrado e ofereceu-lhe uma corbeille cheia de fitas esvoaçantes, com um casal de inquietos pombos brancos batendo as asas entre rosas. De novo as palmas estrondaram, e das torrinhas, num delírio, aos berros, o nome da cocotte era aclamado.

De repente, dum lado e doutro, em palpitante revoada, papéis esvoaçaram. Braços levantavam-se, esticavam-se colhendo-os no ar, amarfanhando-os, disputando-os; alguns ficavam em pedaços, mas continuamente, em torvelinho, vinham outros baixando a granel, e no recinto frufrulhava alegremente aquele perene rumor de vôos. Aurélio conseguiu apanhar um dos papéis e, lançando os olhos ao texto, arrevessou:

— Súcia! versos a uma biraia como esta... e assinados, Quem é o animal? Conheces?

— Não.

— É por infâmias tais que a Poesia tem baixado tanto. Besta!

E, furiosamente, rasgou a papelucho. Eugénie começara a cantar, numa vozinha infantil, com muitos rr e sorrisos.

— Vamos ao nosso whisky?

Paulo não respondeu - estava lívido, imóvel, d'olhos cravados num camarote, insensível a tudo, vivendo apenas para aquela visão.

Aurélio seguiu-lhe o olhar e murmurou, com enlevo:

— Bela mulher! Quem é?

O outro não respondeu, estatelado, como de pedra. De repente, recuando sem atender aos protestos dos que lhe ficavam em volta, afastou-se. Aurélio estranhava-o: "Que tens?" Ele encolheu os ombros, sacudiu o braço, nervoso, e distanciou-se da companheiro, mas hesitando, deteve-se, ficou a pensar, d'olhos em terra e, numa resolução, retrocedeu. O poeta seguia-o com o olhar, intrigado.

— Olha, Aurélio, preciso ficar só, deixa-me - é um caso. Se queres alguma coisa...

— Não, filho. Mas que diabo tens? Que foi isso? É com a rapariga?

Depois dum instante, forcejando um sorriso, Paulo afirmou: que era. Aurélio, maravilhado, riu daquela ingenuidade.

— Pois que... com dinheiro no bolso? Ainda estás muito peludo, homem. Aquilo é só abordar. Se queres, apresento-te.

Paulo fitou-o com um grande espanto nos olhos que faiscavam:

— Conheces?

— Não, mas é o mesmo. Isso a gente chega, fala e está pronto. É como um tílburi que se ajusta, que diabo...! Pareces criança. Queres?

— Não. Até amanhã.

Vendo-o decidido a deixá-lo, Aurélio reteve-lhe a mão e sussurrou:

— Tens aí uns miúdos?

— Tenho.

— Pouca coisa. Aquela infame batota deixou-me a tinir e estou com um apetite de canja que não te digo nada.

Paula passou-lhe uma nota.

— Obrigado. Então até amanhã e bonne chance!

Romperam aplausos estrondosos e a poeta, esticando-se nas pontas das pés, pôde ainda ver Eugénie, toda inclinada e risonha, a atirar beijos, perdendo-se, aos recuanços, por trás do pano que descia.

Paulo afastou-se caminhando para a larga escada dos camarotes e, já com o pé no primeiro degrau, hesitou pensativo. Estrugiram novas palmas recebendo um equilibrista famoso. "Que é ela, não há dúvida..." foi, escada acima, degrau a degrau, receoso, com o coração oprimido, imaginando escândalos: um ataque, uma desfeita ruidosa, uma gargalhada cínica. E a outra? Quem seria?

Uma rapariguita loura e fina, debruçada à balaustrada, cantarolava, alheia às palavras amuadas de um bonifrate de chapéu branco e polainas. Paulo passou pelo "arrufo" vexado, pisando de leve e, à medida que se aproximava do camarote, mais lhe cresciam os receios. Sentia as pernas frouxas, trêmulas, a boca seca e revoltava-se contra aquela covardia, reagindo, avançando sorrateiramente, a relancear as olhos pelos camarotes, vendo, pelas frestas, bustos graciosos, eretos, plumas petulantes, brilhos de jóias. Chegando ao camarote alvejado, dando com a porta largamente aberta, esteve para voltar.

Correu por todo o teatro o murmúrio de uma emoção malcontida, palmas isoladas vibraram, mas foram instantaneamente abafadas por psius! enérgicos e impôs-se súbito silêncio. Ele adiantou-se e, parando, ficou pregado ao soalho, a olhar, comovido e medroso.

As duas mulheres, entretidas, não davam por ele. Uma gorda, flácida, com as carnes moles esparrimadas e a espocarem, os cabelos ralos, grisalhos, dando-lhe um tom cinzento à nuca, era uma sombra que fazia realçar, com mais esplendor, a graça da companheira, delicada e esbelta, de ombros largos, colo farto, cinta delgada, braços roliços, pele alambreada e fina.

Os cabelos, muito negros, reluziam à claridade sob as gazes e as flores do chapéu que lhe tombava sobre os olhos, como um alparluz. e o pescoço, sem uma ruga, dum torneado irrepreensível, subia direito, altivo, da gola de veludo branco.

Era ela, Violante, mais desenvolta, mais forte, em pleno viço, sem a suavidade da graça virginal, mas com o encanto das linhas acentuadas da mulher que desabrochou para o amor.

Tinha-a ali ante os olhos, a dois passos; podia falar-lhe, ouvi-la, conhecer todos os pormenores daquele drama que trazia em pena a pobre velha, àquela hora, talvez, ajoelhada, debulhada em lágrimas a pedir por ela aos santos.

Bravos frenéticos atroaram a sala. Paulo continha o hálito, temendo denunciar a sua presença e ansiava, ao mesmo tempo, por um lance do acaso, que o descobrisse à irmã.

Ela moveu-se lentamente, inclinou-se para a companheira, com o leque à boca, risonha, segredando uma confidência. O busto tremeu-lhe de leve sacudido por um risinho, a outra reboliuse, a rir grosso. Ele hesitava sufocado, d'olhos fitos, quando Violante, como fascinada, voltou a rosto e descobriu-o.

Empalideceu, os olhos abriram-se-lhe desmedidamente, a boca ficou em hiato de espanto e, medrosa, achegou-se à companheira numa necessidade de socorro, compondo o chapéu, alisando o vestido, incerta e trêmula. De novo, rápida, lançou um olhar à porta como para certificar-se e puxou uma tosse seca, logo abafada no lencinho,

Era ela, mais linda! Animado com aquela turbação, forte diante da inesperada covardia da irmã, Paulo adiantou-se até à porta do camarote e, em voz surda, que tremia, pediu licença. A gorda voltou-se, mirou-o d'alto, mas Violante levantou-se arrebatadamente e, antes que a companheira interviesse, rompeu numa exclamação de surpresa feliz:

— Oh! Paulo!... - e, afastando, de repelão, uma cadeira, saiu à varanda.

O estudante recuou até á balaustrada do fundo, carrancudo. Os dois irmãos encararam-se em silêncio, numa comoção que os enleava e foi ela quem primeiro falou, precipitando as palavras, em voz surda e difícil, que lhe saía aos arrancos:

— Como soubeste que eu estava aqui? Quem te disse? Estás magro! Que é isso?

Mirava-o com um sorriso forçado. Ele conservava-se de cabeça baixa, verrumando a botina com a ponteira da guarda-chuva.

— Tens estado doente? Fala!

Um risinho alegre ressoou-lhe na boca vermelha e fresca.

— Olha, não te ponhas com amuos agora. Temos muito tempo para brigar, ouviste? Como vai mamãe?

Ele resmungou:

— Ainda perguntas...!? Mamãe está à morte.

— De que, meu Deus! - exclamou num doloroso espanto, juntando as mãos enluvadas.

Paulo levantou a cabeça de ímpeto e, cruzando os braços energicamente, interrogou-a em murmúrio:

— Mas tu estavas doida, Violante?

Ela baixou o olhar, encolhendo os ombros.

— Não sei. Agora está feito. Não falemos nisso.

— Ah! não falemos nisso... E nós? mamãe, eu,..? Depois duma pausa perguntou: Onde estás morando?

— Em Botafogo.

— Onde?

— Na praia.

Deu-lhe o número, descreveu-lhe a casa, entre árvores, ao fundo de um jardim.

— Desde quando?

— Há uns quinze dias.

— E antes?

— Cheguei de Buenos Aires no sábado.

— De Buenos Aires!

— Sim.

— Grande doida! E agora?

— Agora quê?

— Pretendes ficar aqui?

— Então? Onde hei de ficar?

Lançou um olhar ao camarote e, vendo a companheira voltada para a cena, chegou-se mais ao irmão.

— Nós aqui não podemos conversar. Aparece amanhã lá em casa.

— Eu?

— Então? Que tem? Olhem o inocente... - fez ela com um beicinho.

— Pensas que não tenho vergonha...?

— Vergonha de quê? Eu moro só. Vai amanhã.

— A que horas?

— Às duas.

— E mamãe?

— Mamãe... Se ela quiser ir contigo...

O bonifrate de chapéu branco encaminhava-se para o ponto em que se achavam os dois. Ela despediu-se.

— Até amanhã. Olha, o melhor é não dizeres nada a mamãe por enquanto, tem tempo.

Caminhou para a camarote, com um ruflo de sedas, mas retrocedeu, sorrindo, e segredou-lhe:

— Olha, a meu nome é Diana... não te esqueças.

— Diana!

E ela, já a entrar no camarote, afirmou de cabeça, sorrindo. Paulo contemplava-a e, quando a viu de novo sentada, repuxando o chapéu, indiferente, sorrindo para a companheira, teve um assomo de revolta e esmoeu um insulto. Por fim seguiu, e pôs-se a percorrer a varanda a lentas passadas, até que, enfarado, e com uma ponta de despeito por haver sido despedido, ele, o irmão, desceu sorumbático, sentou-se a uma das mesas, pediu cognac e ali ficou a divagar, imaginando as múltiplas aventuras daquela rapariga que, depois de errar em terras estranhas, reaparecia, mais vela e mais forte, sem mácula do vício, triunfante, gloriosa na miséria infame.

Lembrou-se do dinheiro, apalpou-o, sentiu-o em volume cheio e mole. E, sacudindo a perna, ficou a banzar, inerte, numa apatia, cortada de acessos de furor. Mas aquela temerária aventura da irmã, apenas indicada em um nome - "Buenos Aires", a viagem, a instalação, o gozo bem desfrutado na opulenta cidade, a vida entre beijos e flores, em palácios monumentais, as suas noites de amor mercenário nas braços dum e doutro, foram-lhe, a pouco e pouco, despertando um árdego desejo carnal.

E admirava aquela audácia feminina, decompunha aquela vida, seguindo mentalmente todos os passos da irmã; a bordo, na terra estrangeira, pompeando em luxo régio nas frisas deslumbrantes, rodando em carruagens de molas flácidas, tiradas por parelhas de raça, esplêndida, sedutora nas suas formas rijas, mal desabrochadas, rolando em leitos forrados a seda, à luz velada de lâmpadas coloridas, em quartos nobres de palácios.

Uma mulher percorria vagarosamente o jardim em passos sutis, sacudindo o leque. Olhou-a; os olhares encontraram-se. Era alta, robusta, loura, dum louro claro e quente que fulgurava. Esteve para chamá-la, oferecer-lhe qualquer coisa, tomar-lhe a noite. Mas a mulher passou, indolente, deixando na ar a toada suavíssima dum doce canto, uma canção do seu país, talvez.

Não se resolvia, indeciso, hesitando entre recolher-se a casa e ficar na cidade, pernoitando em companhia duma daquelas andejas que enxameavam o jardim, imiscuindo-se nos grupos, sentindo o fim da noite vazia.

Passavam rindo, chalrando, d'olhos aguçados, à caça de homens, procurando ajoujar-se a qualquer; umas, desenxabidas, desanimadas, outras trêfegas, de uma alegria canalha, empurrando-se, travando dos braços dos rapazes, fazendo voltas de dança ao estridor clangoroso das metais da banda, encostando-se às mesas, reclamando bebidas, propondo ceias, ou evitando, às rabanadas, os beliscões lúbricos da rapazio.

Paulo fugiu à multidão e seguiu, ruminando idéias extravagantes, incerto da seu destino naquela noite. Achou-se, com surpresa, parado junto à escada, a olhar para a varanda. Teve um movimento de repulsa, raspando a asfalto com a guarda-chuva. "Agora espero. Quero vê-la sair. Hei de ver quem é a sujeita."

Passou-lhe pela mente a figura da Junqueira; depois desenhou-se a do Messias, d'olhos finos, em dois talhos, as pés enormes, esparrimados. Ele falara dum compromisso no Recreio, uma pessoa que a esperava. Não, não podia ser... - Então, encolhendo as ombros com indiferença, afastou-se, em andar vagaroso, medindo os passos. "Ora!" Achando-se na aléia da entrada, em súbita resolução apressou o andar e saiu.

À porta cambistas cercaram-no, pedindo a senha. Carros reluziam estacionados na rua escura; doceiros apregoavam e, na taverna da esquina, um ror de homens cercava o balcão, bebendo em estridente algazarra.

Foi-se, rua abaixa. "Ora! que se arranje!" Deteve-se surpreendido, olhando uma aguazinha que rebrilhava entre as pedras da rua.

"Só, hein?! Sozinha pela Prata... é coragem! E nós aqui, como idiotas, perdendo tempo, amofinando-nos. Eu bem dizia. E mamãe a orar..." Serenou, porém, a um pensamento iníquo e a frase que o exprimia saiu-lhe da boca docemente, regozadamente: "Mas está bonita!..." Foi-se.

À porta da Maison Moderne sorriu descobrindo Messias e Junqueira, muito juntos, encapotados. Saudou-os e entrou.

À luz intensa da sala teve um deslumbramento, e, abancando a uma das mesas mais discretas, sacou do bolso um maço de notas, escolheu uma de cem e esperou a caixeiro. "Água de Seltz..." Recebendo o troco, separou uns miúdos para o tílburi. "Até que enfim!" exclamou pondo-se de pé e, acendendo um cigarro, caminhou vagarosamente a porta.

A noite desanuviara-se. A lua, num recorte esguio, luzia no céu ponteado de estrelas.

— Vamos ter amanhã um dia magnífico! - disse alguém tocando-lhe no ombro; voltou-se e viu Narciso todo atrapalhado com um embrulho e o capote.

— Oh!... boa noite. É verdade.

— Esteve na Recreio?

— Um instante.

— Um casão, com certeza?

— À cunha!

— Pudera!

Já à porta, perguntou risonho:

— E os versos do Aurélio... Que tais? Não foram distribuídos?

— Sim, espalharam uns versos; um soneto, creio... Mas a assinatura é doutro.

— História! São da Aurélio. Fê-los ontem, depois da jantar, a pedido do Messias. Um tipo! Bem, boa noite.

Paulo não conteve o riso, lembrando-se da revolta do poeta. Ficou um momento à porta olhando o céu. Súbito meteu-se num tílburi, que estacionava junto ao passeio e mandou tocar para a Lapa.

Uma densa multidão esgorjou da Rua do Espírito Santo espraiando-se no largo - era a gente que saía do Recreio. O cocheiro teve de suster o animal para deixar passar o povo e Paulo, olhando a turba que se espalhava, com uma pressa de fuga, via apenas um vulto que se afastava subindo da terra, ganhando o espaço em leve ascensão, como um anjo que remontasse serenamente.

Com o arranco do animal que partia foi de encontro ao fundo do tílburi. O cocheiro resmungou contra a "súcia". Ele conservou-se calado, imóvel, a rever a visão, que era ela, Violante, cujo perfume o cercava como se todo o ar estivesse impregnado. Dilatou-se-lhe o peito e um suspiro saiu-lhe, largo e vagaroso: "Mas como está bonita!" E sorriu deliciado recostando-se abandonadamente.

Saturday, 11 September 2021

Good Reading: "Little Frick and the Fiddle" by Engebret Hougen (translated into English)

     Once upon a time there was a farmer who had a single son, and this boy was so frail and in such poor health that he could not bear to go to work in the fields. He was called Frick, and as he was a tiny fellow, they called him Little Frick.

    Nonetheless, at home food was scarce, so one day his father went to the village to get the boy a job. But nobody wanted to hire his son, until he came to the sheriff; he could take him, for he had recently got rid of his errand-boy, and there was no one who wanted to work for him for it was rumored that he was a cheapskate.

    Well, that’s better than nothing, the farmer thought, at least he would get some food, for the sheriff would provide him with room and board; there was no mention of neither payment or clothes.

    When the boy had been there for three years, and wanted to leave, the sheriff gave him the full pay at once. He had earned one shilling a year; nothing more nothing less, said the sheriff; and so he got three shillings in total.Three shillings was certainly a lot of money for Little Frick, for he had never owned that much before. Nevertheless, he asked if he was not to be given some more?

    ”You have gotten more than you bargained for,” said the sheriff.

    "Shall I not have any clothes then?" said Little Frick. "What I had when I came here I've worn to pieces, and I've got nothing left," for now he was so tattered that there was only rags left on him.

    "You've got what we agreed on and three shilling thrown in for good measure, I'll will not hear another word from you," said the sheriff. But before he left, the boy had permission to go to the kitchen and fetch some food for his knapsack.

    And finally, Little Frick was off, on his way to town to buy some new clothes. He was both merry and happy, for he had never seen a shilling before, and frequently he grasped them just to make sure that all three were there.When he was far on his way, he entered a narrow valley surrounded by high mountains on all sides. He wondered what might be on the other side of these mountains, and how he could come across. But up he had to go, and up he went. But when he finally got to the top, there was nothing there but a great plain overgrown with moss. There he sat down to see one again if he had his shillings.

    Before he knew it, a beggar came along, and he was so tall and big that the boy began to scream when he saw how big he was.

    ”Don’t be afraid,” said the beggar, ”I won’t hurt you, I only ask for a shilling in the name of God.”

    ”So help me,” said the boy, ”I only got three shillings, and I was going to spend them on some new clothes.”

    ”I’m far worse off than you are,” said the beggar, ”I have no shillings, and I’m even more ragged than you.”

    ”Very well, then it’s yours,” said the boy.

    When he had walked for quite a bit, Little Frick got tired and sat down to rest once more. When he looked up, there was another beggar, but he was even bigger and uglier than the last one, and when the boy saw just how grusome he was, he began to scream.

    ”Don’t be afraid, I won’t hurt you, I only ask for a shilling in the name of God,” said the beggar.

    ”So help me,” said the boy, ”I only got two shillings, and I was going to spend them on some new clothes. Had I met you a little earlier…”

    ”I’m far worse off than you are,” said the beggar, ”I have no shillings, and I have a bigger body and less clothes.”

    ”Very well, then it’s yours,” said the boy.

    Then he walked for quite a bit, until he once again got tired, he sat down to rest. Right away, another beggar came along; but this one was so big and ugly, that when the boy looked up, he looked right up to the sky. And once again, Little Frick began to scream.

    ”Please don’t be afraid my boy,” said the man, ”I won’t hurt you, for I am only a poor beggar asking for a shilling in God’s name.”

    ”So help me, I hear you,” said Little Frick, ”I only have one shilling left, and I was going to town to buy some new clothes. Had I only met you sooner…”

    ”Well, I have no shilling, and I have a bigger body and less clothes,” said the beggar. ”I’m far worse off than you are.”

    And so the beggar got the last shilling, there was nothing more to speak of; for each of them a shilling of their own, and he had nothing.

    ”Since you have such a good heart, that you have given away everything you own,” said the beggar, ”then I shall grant you one wish for each shilling”. It was the same beggar that had gotten all three; he had only transformed himself for each time, so that the boy would not recognize him.

 

    ”I have always wished for a fiddle, and make people so happy that they simply have to dance,” said the boy, ”so… if I can wish for whatever I want, I wish for a fiddle with a sound so beautiful, that everything that has life must dance to its tune.”

    A fiddle like that he would recieve, but that was not much of a wish, in the beggars’ opinion; ”you should wish for something better for the other shillings”.

    ”I always wanted to hunt and shoot,” said Little Frick, ”so if I can wish for anything I want, then I wish for a rifle that hits everything I aim for, not matter how far away it is.”

    That he should have, but that was not much of a wish, said the beggar; ” you should wish for something better for the last shilling”.

    ”I always longed to be with people that were kind and goodhearted,” said Little Frick, ”so if I can wish for anything I want, then I wish that no one can deny me the first thing I ask for.”

    ”That’s better,” said the beggar, and then he strode of, disappearing between the mountains. The boy lay down to sleep, and the next day he came down from the mountains, carrying with him his fiddle and his rifle.

    First he went to the shopkeeper and asked for clothes, and at one farm he asked for a horse, and at another he asked for a sledge, and somewhere he asked for a fur-coat, and not once did anyone turn him down, even the stingiest folk; for they all had to give him the first thing he asked for. Finally, he traveled through the village like a nobleman, with his horse and his sledge.

    When he had traveled for quite a while, he met the sheriff whom he had served."Good day, master," said Little Frick, as he pulled up and greeted his old employer.

    "Good day," said the sheriff; "Have I been you master?" he asked.”Yes, don’t you remember, I served you for three years for three shillings,” said Little Frick.

    ”Well, what do you know,” said the sheriff. ”How come you’re suddenly got to be such a fine nobleman?”

    ”Oh, a little bit of this, a little bit of that,” said Frick.

    ”And now you’re such a merrymaker that you travel about with a fiddle as well?” asked the sheriff.

    ”Oh, yes, for I have such a wish to make people dance,” replied the boy; ”but the finest thing I have is this rifle, for it hits everything I aim for, no matter how far away it is,” he said. ”You see that magpie sitting in the spruce tree over there? What say you, shall I take a shot at it from where we stand?”

    Sure, why not said the sheriff, for he was willing to bet both his horse and his farm and a hundred bucks even, that this craziness could not be done.

    But just as the shot was fired, the magpie fell into a large thicket, and the sheriff strode off to fetch it. Right away, Little Frick started to play his fiddle, and made the sheriff dance so the thorns tore his clothes, and as he danced and cried and begged the boy to stop, he got so tattered that only rags were left on him.

    ”Look at you, now are as ragged as I was when I left after three years of serving you,” said the boy, ”So now I leave you left with what you got.” But, first, the sheriff had to pay him what he had wagered on.

    When the boy came to the town, he found a room at a tavern. There, he started to play his fiddle, and all that came had to dance, and the boy lived happily and carefree, for no one could deny him the first thing he asked for.

 

    But just as they were all in the midst of their fun, came the watchmen and dragged the boy off to the town-hall: for the sheriff had laid a charge against him, and said he had ambushed him and robbed him, and nearly taken his life. Now the boy was to be hanged, there was nothing more to speak of. But Little Firck knew what to do, for he still had his fiddle. And as he started to play, the watchmen danced until they layed flat on the ground, gasping for breath.

    Then they send soldiers and guards in their stead, yet it fared no better with them; when Little Frick played his fiddle, they simply had to dance, as long as he stroked its strings, but they were half dead long before he got tired.

    Finally, they sneaked up on him while he was sleeping at night, and when they got him, he was sentenced to hang at once. Immediately they left for the gallows. There was a great crowd of people who flocked together to see this wonder, and among them was the sheriff who was so happy to at last getting amends for his lost money, and finally see the boy hang with his own two eyes.

    Yet, Little Firck knew who to take his time; he was frail from the beginning, and made himself even weaker still. He also took his rifle and his fiddle, there was no use trying to take that away from him. And so, when he came to the gallows, and had to mount the steps, he halted on each step.

    At the top he sat down and asked if they could grant him one last wish: he wanted to play a song on his fiddle before they hung him.

    No, there was no denying the boy his request, for, you know, no one could refuse him what he asked for. But the sheriff begged, for the love of God, do not let him stroke a single string, for then they would all be over and done with. If the boy were to be allowed to play, then they at least had to tie himself to the birch over there, he pleaded.

    Little Frick did not hesitate, and started to play his fiddle, and everyone who was there had to dance, both those who were on two feet and on four, priest, and bailiff, and lawyer and sheriff alike, side by side, men, dogs and pigs. They danced and laughed and screeched all that they could muster; some danced until they fell unconscious, some even they danced until they lay for dead.

    It went wrong with all of them together; but worst off was the sheriff, for there he was, tied to the birch, and he danced and scraped his back against the trunk. There was no one who ever thought of doing anything about Little Frick, and away he went with his rifle and his fiddle, and he lived merrily and happily all his days, because nobody could say no to the first thing he asked for.

Friday, 10 September 2021

Friday's Sung Word: "Fiquei Rachando lenha" by Noel Rosa and Hervê Cordovil (in Portuguese)

 This song was never fully recorded aexcepted for this fragment recorded by Almirante in the radio show "Nos Tempos de Noel Rosa".

 

O meu amor chorou
Porque não fui à Penha
Fiquei rachando lenha
No ano que passou

Meu amor chorou
Mas não lhe dei razão
Vem primeiro a obrigação
E depois a devoção

Não há obrigação
Que faça te esquecer
Ela só me faz perder
Os momentos de prazer

Eu trabalhei demais
Por ter necessidade
De ter ouro em quantidade
Pra comprar comodidade

No ano que passou
Não pude ir à Penha
Meu amor se me desdenha
Quer comprar a minha lenha

 

You can listen  "Fiquei Rachando lenha" sung by Almirante here.