XXVIII.
Pinocchio corre pericolo di essere fritto in padella, come un pesce.
Durante
quella corsa disperata, vi fu un momento terribile, un momento in cui Pinocchio
si credè perduto: perchè bisogna sapere che Alidoro (era questo il nome del can
mastino) a furia di correre e correre, l’aveva quasi raggiunto.
Basti
dire che il burattino sentiva dietro di sè, alla distanza d’un palmo, l’ansare
affannoso di quella bestiaccia, e ne sentiva perfino la vampa calda delle
fiatate.
Per
buona fortuna la spiaggia era oramai vicina, e il mare si vedeva lì a pochi
passi.
Appena fu sulla spiaggia, il burattino spiccò un
bellissimo salto, come avrebbe potuto fare un ranocchio, e andò a cascare in
mezzo all’acqua. Alidoro invece
voleva fermarsi; ma trasportato dall’impeto della corsa, entrò nell’acqua anche
lui. E quel disgraziato non sapeva nuotare; per cui cominciò subito ad
annaspare colle zampe per reggersi a galla: ma più annaspava, e più andava col
capo sott’acqua.
Quando
ritornò a rimettere il capo fuori, il povero cane aveva gli occhi impauriti e
stralunati, e, abbaiando gridava:
—
Affogo! affogo!
—
Crepa! — gli rispose Pinocchio da lontano, il quale si vedeva oramai sicuro da
ogni pericolo.
—
Aiutami, Pinocchio mio!... salvami dalla morte!... —
A
quelle grida strazianti il burattino, che in fondo aveva un cuore eccellente,
si mosse a compassione, e voltosi al cane, gli disse:
— Ma se
io ti aiuto a salvarti, mi prometti di non darmi più noia e di non corrermi
dietro?
— Te lo
prometto! te lo prometto! Spicciati per carità, perchè se indugi un altro mezzo
minuto, son bell’e morto. —
Pinocchio
esitò un poco: ma poi ricordandosi che il suo babbo gli aveva detto tante volte
che a fare una buona azione non ci si scapita mai, andò nuotando a raggiungere
Alidoro, e, presolo per la coda con tutte e due le mani, lo portò sano e salvo
sulla rena asciutta del lido.
Il povero cane non si reggeva più in piedi. Aveva bevuto, senza volerlo, tant’acqua
salata, che era gonfiato come un pallone. Per altro il burattino, non volendo
fare a fidarsi troppo, stimò cosa prudente di gettarsi novamente in mare; e
allontanandosi dalla spiaggia, gridò all’amico salvato:
—
Addio, Alidoro; fa’ buon viaggio, e tanti saluti a casa.
—
Addio, Pinocchio, — rispose il cane; — mille grazie di avermi liberato dalla
morte. Tu m’hai fatto un gran servizio: e in questo mondo quel che è fatto è
reso. Se capita l’occasione ci riparleremo.... —
Pinocchio
seguitò a nuotare, tenendosi sempre vicino alla terra. Finalmente gli parve di
esser giunto in un luogo sicuro; e dando un’occhiata alla spiaggia, vide sugli
scogli una specie di grotta, dalla quale usciva un lunghissimo pennacchio di
fumo.
— In
quella grotta — disse allora fra sè — ci deve essere del fuoco. Tanto meglio!
Anderò a rasciugarmi e riscaldarmi, e poi?... e poi sarà quel che sarà. —
Presa
questa risoluzione, si avvicinò alla scogliera; ma quando fu lì per
arrampicarsi, sentì qualche cosa sotto l’acqua che saliva, saliva, saliva e lo
portava per aria. Tentò subito di fuggire, ma oramai era tardi, perchè con sua
grandissima maraviglia si trovò rinchiuso dentro una grossa rete in mezzo a un
brulichìo di pesci d’ogni forma e grandezza, che scodinzolavano e si
dibattevano come tante anime disperate.
E nel
tempo stesso vide uscire dalla grotta un pescatore così brutto, ma tanto
brutto, che pareva un mostro marino. Invece di capelli aveva sulla testa un cespuglio foltissimo di erba verde; verde era la pelle del suo
corpo, verdi gli occhi, verde la barba lunghissima, che gli scendeva fin
quaggiù. Pareva un grosso ramarro ritto sui piedi di dietro.
Quando
il pescatore ebbe tirata fuori la rete dal mare, gridò tutto contento:
—
Provvidenza benedetta! Anch’oggi potrò fare una bella scorpacciata di pesce!
— Manco
male, che io non sono un pesce! — disse Pinocchio dentro di sè, ripigliando un
po’ di coraggio.
La rete
piena di pesci fu portata dentro la grotta, una grotta buia e affumicata, in
mezzo alla quale friggeva una gran padella d’olio, che mandava un odorino di
moccolaia, da mozzare il respiro.
— Ora
vediamo un po’ che pesci abbiamo presi! — disse il pescatore verde; e ficcando
nella rete una manona così spropositata, che pareva una pala da fornai, tirò
fuori una manciata di triglie.
— Buone
queste triglie! — disse, guardandole e annusandole con compiacenza. E dopo
averle annusate, le scaraventò in una conca senz’acqua.
Poi
ripetè più volte la solita operazione; e via via che cavava fuori gli altri
pesci, sentiva venirsi l’acquolina in bocca e gongolando diceva:
— Buoni
questi naselli!...
—
Squisiti questi muggini!...
—
Deliziose queste sogliole!...
—
Prelibati questi ragnotti!...
—
Carine queste acciughe col capo! —
Come
potete immaginarvelo, i naselli, i muggini, le sogliole, i ragnotti e
l’acciughe, andarono tutti alla rinfusa nella conca, a tener compagnia alle triglie.
L’ultimo
che restò nella rete fu Pinocchio.
Appena
il pescatore l’ebbe cavato fuori, sgranò dalla maraviglia i suoi occhioni
verdi, gridando quasi impaurito:
— Che
razza di pesce è questo? Dei pesci fatti a questo modo non mi ricordo di averne
mangiati mai. —
E tornò
a guardarlo attentamente, e dopo averlo guardato ben bene per ogni verso, finì
col dire:
— Ho
capito: dev’essere un granchio di mare.
Allora
Pinocchio mortificato di sentirsi scambiare per un granchio, disse con accento
risentito:
— Ma
che granchio e non granchio? Guardi come lei mi tratta! Io, per sua regola,
sono un burattino.
— Un
burattino? — replicò il pescatore. — Dico la verità, il pesce burattino è per
me un pesce nuovo! Meglio così! ti mangerò più volentieri.
—
Mangiarmi? ma la vuol capire che io non sono un pesce? O non sente che parlo, e
ragiono come lei?
— È
verissimo; — soggiunse il pescatore — e siccome vedo che sei un pesce, che hai
la fortuna di parlare e di ragionare come me, così voglio usarti anch’io i
dovuti riguardi.
— E
questi riguardi sarebbero?...
— In
segno di amicizia e di stima particolare, lascerò a te la scelta del come vuoi
esser cucinato. Desideri esser fritto in padella, oppure preferisci di esser
cotto nel tegame colla salsa di pomidoro?
— A dir
la verità, — rispose Pinocchio — se io debbo scegliere, preferisco piuttosto di
esser lasciato libero, per potermene tornare a casa mia.
— Tu
scherzi! Ti pare che io voglia perdere l’occasione di assaggiare un pesce così
raro? Non capita mica tutti i giorni un pesce burattino in questi mari. Lascia
fare a me: ti friggerò in padella assieme a tutti gli altri pesci, e te ne
troverai contento. L’esser fritto in compagnia è sempre una consolazione. —
L’infelice
Pinocchio, a quest’antifona, cominciò a piangere, a strillare, a raccomandarsi:
e piangendo diceva: — Quant’era meglio, che fossi andato a scuola!... Ho voluto
dar retta ai compagni, e ora la pago! Ih!... Ih!... Ih!... —
E
perchè si divincolava come un’anguilla e faceva sforzi incredibili, per
isgusciare dalle grinfie del pescatore verde, questi prese una bella buccia di
giunco, e dopo averlo legato per le mani e per i piedi, come un salame, lo
gettò in fondo alla conca cogli altri.
Poi,
tirato fuori un vassoiaccio di legno, pieno di farina, si dètte a infarinare
tutti quei pesci: e man mano che li aveva infarinati, li buttava a friggere dentro
la padella.
I primi
a ballare nell’olio bollente furono i poveri naselli: poi toccò ai ragnotti,
poi ai muggini, poi alle sogliole e alle acciughe, e poi venne la volta di
Pinocchio. Il quale, a vedersi così vicino alla morte (e che brutta morte!) fu
preso da tanto tremito e da tanto spavento, che non aveva più nè voce nè fiato
per raccomandarsi.
Il
povero figliuolo si raccomandava cogli occhi! Ma il pescatore verde, senza
badarlo neppure, lo avvoltò cinque o sei volte nella farina, infarinandolo così
bene dal capo ai piedi, che pareva diventato un burattino di gesso.
Poi lo
prese per il capo, e....
XXIX.
Ritorna a casa della Fata, la quale gli promette che il giorno dopo non
sarà più un burattino, ma diventerà un ragazzo. Gran colazione di caffè-e-latte
per festeggiare questo grande avvenimento.
Mentre
il pescatore era proprio sul punto di buttar Pinocchio nella padella, entrò
nella grotta un grosso cane condotto là dall’odore acutissimo e ghiotto della
frittura.
— Passa
via! — gli gridò il pescatore minacciandolo e tenendo sempre in mano il
burattino infarinato.
Ma il
povero cane aveva una fame per quattro, e mugolando e dimenando la coda, pareva
che dicesse:
― Dammi
un boccone di frittura e ti lascio in pace.
— Passa
via, ti dico! — gli ripetè il pescatore; e allungò la gamba per tirargli una
pedata.
Allora
il cane che, quando aveva fame davvero, non era avvezzo a lasciarsi posar
mosche sul naso, si rivoltò ringhioso al pescatore, mostrandogli le sue
terribili zanne.
In quel
mentre si udì nella grotta una vocina fioca fioca, che disse:
—
Salvami, Alidoro! Se non mi salvi, son fritto!...
Il cane
riconobbe subito la voce di Pinocchio, e si accòrse, con sua grandissima
maraviglia, che la vocina era uscita da quel fagotto infarinato, che il
pescatore teneva in mano.
Allora
che cosa fa? Spicca un gran lancio da terra, abbocca quel fagotto infarinato, e
tenendolo leggermente coi denti, esce correndo dalla grotta, e via come un
baleno!
Il
pescatore arrabbiatissimo di vedersi strappar di mano un pesce, che egli avrebbe
mangiato tanto volentieri, si provò a rincorrere il cane; ma fatti pochi passi,
gli venne un nodo di tosse e dovè tornarsene indietro.
Intanto
Alidoro, ritrovata che ebbe la viottola che conduceva al paese, si fermò e posò
delicatamente in terra l’amico Pinocchio.
—
Quanto ti debbo ringraziare! — disse il burattino.
— Non
c’è bisogno — replicò il cane — tu salvasti me, e quel che è fatto è reso. Si
sa: in questo mondo bisogna tutti aiutarsi l’uno con l’altro.
— Ma
come mai sei capitato in quella grotta?
— Ero
sempre qui disteso sulla spiaggia più morto che vivo, quando il vento mi ha
portato da lontano un odorino di frittura. Quell’odorino mi ha stuzzicato
l’appetito, e io gli sono andato dietro. Se arrivavo un minuto più tardi!...
— Non
me lo dire! — urlò Pinocchio che tremava ancora dalla paura. — Non me lo dire!
Se tu arrivavi un minuto più tardi, a quest’ora io ero bell’e fritto, mangiato
e digerito. Brrr! mi vengono i brividi soltanto a pensarvi!... —
Alidoro,
ridendo, stese la zampa destra verso il burattino, il quale gliela strinse
forte forte in segno di grande amicizia: e dopo si lasciarono.
Il cane
riprese la strada di casa: e Pinocchio, rimasto solo, andò a una capanna lì
poco distante, e domandò a un vecchietto che stava sulla porta a scaldarsi al
sole:
— Dite,
galantuomo, sapete nulla di un povero ragazzo ferito nel capo e che si chiamava
Eugenio?
— Il
ragazzo è stato portato da alcuni pescatori in questa capanna, e ora...
— Ora
sarà morto!... — interruppe Pinocchio, con gran dolore.
— No:
ora è vivo, ed è già ritornato a casa sua.
—
Davvero?... davvero?... — gridò il burattino, saltando dall’allegrezza. —
Dunque la ferita non era grave?...
— Ma
poteva riuscire gravissima e anche mortale, — rispose il vecchietto — perchè
gli tirarono nel capo un grosso libro rilegato in cartone.
— E chi
glielo tirò?
— Un
suo compagno di scuola: un certo Pinocchio....
— E chi
è questo Pinocchio? — domandò il burattino facendo lo gnorri.
—
Dicono che sia un ragazzaccio, un vagabondo, un vero rompicollo.
—
Calunnie! Tutte calunnie!
— Lo
conosci tu questo Pinocchio?
— Di
vista! — rispose il burattino.
— E tu,
che concetto ne hai? — gli chiese il vecchietto.
— A me
mi pare un gran buon figliuolo, pieno di voglia di studiare, obbediente,
affezionato al suo babbo e alla sua famiglia.... —
Mentre
il burattino sfilava a faccia fresca tutte queste bugie, si toccò il naso e si
accorse che il naso gli era allungato più di un palmo. Allora tutto impaurito
cominciò a gridare:
— Non
date retta, galantuomo, a tutto il bene che ve ne ho detto; perchè conosco
benissimo Pinocchio e posso assicurarvi anch’io che è davvero un ragazzaccio,
un disubbidiente e uno svogliato, e che invece di andare a scuola, va coi
compagni a fare lo sbarazzino! —
Appena
ebbe pronunziate queste parole, il suo naso raccorcì e tornò alla grandezza
naturale, come era prima.
— E
perchè sei tutto bianco a codesto modo? — gli domandò a un tratto il
vecchietto.
— Vi
dirò.... senza avvedermene, mi sono strofinato a un muro, che era imbiancato di
fresco — rispose il burattino vergognandosi a raccontare che lo avevano
infarinato come un pesce, per poi friggerlo in padella.
— O
della tua giacchetta, de’ tuoi calzoncini e del tuo berretto, che cosa ne hai
fatto?
— Ho
incontrato i ladri e mi hanno spogliato. Dite, buon vecchio, non avreste per
caso da darmi un po’ di vestituccio, tanto perchè io possa ritornare a casa?
—
Ragazzo mio; in quanto a vestiti, io non ho che un piccolo sacchetto, dove ci
tengo i lupini. Se lo vuoi, piglialo: eccolo là. — E Pinocchio non se lo fece
dire due volte: prese subito il sacchetto dei lupini che era vuoto, e dopo
averci fatto colle forbici una piccola buca nel fondo e due buche dalle parti,
se lo infilò a uso camicia. E vestito leggerino a quel modo, si avviò verso il
paese. Ma, lungo la strada, non si sentiva punto tranquillo; tant’è vero che
faceva un passo avanti e uno indietro, e discorrendo da sè solo, andava
dicendo:
— Come
farò a presentarmi alla mia buona Fatina? Che dirà quando mi vedrà?... Vorrà
perdonarmi questa seconda birichinata?... Scommetto che non me la perdona!...
oh! non me la perdona di certo!... E mi sta il dovere: perchè io sono un
monello che prometto sempre di correggermi, e non mantengo mai!...
Arrivò
al paese che era già notte buia; e perchè faceva tempaccio e l’acqua veniva giù
a catinelle, andò diritto diritto alla casa della Fata, coll’animo risoluto di
bussare alla porta e di farsi aprire.
Ma
quando fu lì, sentì mancarsi il coraggio, e invece di bussare, si allontanò,
correndo, una ventina di passi. Poi tornò una seconda volta alla porta, e non
concluse nulla: poi si avvicinò una terza volta e nulla: la quarta volta prese,
tremando, il battente di ferro in mano e bussò un piccolo colpettino.
Aspetta,
aspetta, finalmente dopo mezz’ora si aprì una finestra dell’ultimo piano (la
casa era di quattro piani) e Pinocchio vide affacciarsi una grossa Lumaca, che
aveva un lumicino acceso sul capo, la quale disse:
— Chi è
a quest’ora?
— La
Fata è in casa? — domandò il burattino.
— La
Fata dorme e non vuol essere svegliata: ma tu chi sei?
— Sono
io!
— Chi
io?
—
Pinocchio.
— Chi
Pinocchio?
— Il
burattino, quello che sta in casa colla Fata.
— Ah!
ho capito; — disse la Lumaca — aspettami costì, che ora scendo giù e ti apro
subito.
—
Spicciatevi, per carità, perchè io muoio dal freddo.
—
Ragazzo mio, io sono una Lumaca, e le Lumache non hanno mai fretta. —
—
Intanto passò un’ora, ne passarono due, e la porta non si apriva: per cui
Pinocchio, che tremava dal freddo, dalla paura e dall’acqua che aveva addosso,
si fece cuore e bussò una seconda volta, e bussò più forte.
A quel
secondo colpo si aprì una finestra del piano di sotto e si affacciò la solita
Lumaca.
—
Lumachina bella, — gridò Pinocchio dalla strada, — sono due ore che aspetto! E
due ore a questa serataccia, diventano più lunghe di due anni. Spicciatevi, per
carità.
—
Ragazzo mio, — gli rispose dalla finestra quella bestiuola tutta pace e tutta
flemma — ragazzo mio, io sono una Lumaca, e le Lumache non hanno mai fretta. —
E la
finestra si richiuse.
Di lì a
poco suonò la mezzanotte: poi il tocco, poi le due dopo mezzanotte, e la porta
era sempre chiusa.
Allora
Pinocchio, perduta la pazienza, afferrò con rabbia il battente della porta per
bussare un gran colpo da far rintronare tutto il casamento; ma il battente che
era di ferro, diventò a un tratto un’anguilla viva, che sgusciandogli dalle
mani sparì in un rigagnolo d’acqua, che scorreva in mezzo alla strada.
— Ah!
sì? — gridò Pinocchio sempre più accecato dalla collera. — Se il battente è
sparito, io seguiterò a bussare a furia di calci. —
E
tiratosi un poco indietro, lasciò andare una solennissima pedata nell’uscio
della casa. Il colpo fu così forte, che il piede penetrò nel legno fino a
mezzo: e quando il burattino si provò a ricavarlo fuori, fu tutta fatica
inutile: perchè il piede c’era rimasto conficcato dentro, come un chiodo
ribadito.
Figuratevi
il povero Pinocchio! Dovè passare tutto il resto della notte con un piede in
terra e con quell’altro per aria.
La
mattina, sul far del giorno, finalmente la porta si aprì. Quella brava bestiòla
della Lumaca, a scendere dal quarto piano fino all’uscio di strada, ci aveva
messo solamente nove ore. Bisogna proprio dire che avesse fatto una sudata.
— Che
cosa fate con codesto piede conficcato nell’uscio? — domandò ridendo al burattino.
— È
stata una disgrazia. Vedete un po’, Lumachina bella, se vi riesce di liberarmi
da questo supplizio.
—
Ragazzo mio, costì ci vuole un legnaiolo, e io non ho mai fatto la legnaiola.
—
Pregate la Fata da parte mia!...
— La
Fata dorme e non vuol essere svegliata.
— Ma
che cosa volete che io faccia, inchiodato tutto il giorno a questa porta?
—
Divertiti a contare le formicole che passano per la strada.
—
Portatemi almeno qualche cosa da mangiare, perchè mi sento rifinito.
—
Subito! — disse la Lumaca.
Difatti
dopo tre ore e mezzo, Pinocchio la vide tornare con un vassoio d’argento in
capo. Nel vassoio c’era un pane, un pollastro arrosto e quattro albicocche
mature.
— Ecco
la colazione che vi manda la Fata — disse la Lumaca.
Alla
vista di quella grazia di Dio, il burattino sentì consolarsi tutto. Ma quale fu
il suo disinganno, quando incominciando a mangiare, si dovè accorgere che il
pane era di gesso, il pollastro di cartone e le quattro albicocche di
alabastro, colorite, come se fossero vere.
Voleva
piangere, voleva darsi alla disperazione, voleva buttar via il vassoio e quel
che c’era dentro; ma invece, o fosse il gran dolore o la gran languidezza di
stomaco, fatto sta che cadde svenuto.
Quando
si riebbe, si trovò disteso sopra un sofà, e la Fata era accanto a lui.
— Anche
per questa volta ti perdono — gli disse la Fata — ma guai a te, se me ne fai
un’altra delle tue!... —
Pinocchio
promise e giurò che avrebbe studiato, e che si sarebbe condotto sempre bene. E
mantenne la parola per tutto il resto dell’anno. Difatti agli esami delle
vacanze, ebbe l’onore di essere il più bravo della scuola; e i suoi portamenti,
in generale, furono giudicati così lodevoli e soddisfacenti, che la Fata, tutta
contenta, gli disse:
—
Domani finalmente il tuo desiderio sarà appagato!
— Cioè?
—
Domani finirai di essere un burattino di legno, e diventerai un ragazzo per
bene. —
Chi non
ha veduto la gioia di Pinocchio, a questa notizia tanto sospirata, non potrà
mai figurarsela. Tutti i suoi amici e compagni di scuola dovevano essere
invitati per il giorno dopo a una gran colazione in casa della Fata, per
festeggiare insieme il grande avvenimento: e la Fata aveva fatto preparare
dugento tazze di caffè-e-latte e quattrocento panini imburrati di dentro e di
fuori. Quella giornata prometteva di riuscire molto bella e molto allegra:
ma....
Disgraziatamente,
nella vita dei burattini, c’è sempre un ma, che sciupa ogni cosa.
XXX.
Pinocchio, invece di diventare un ragazzo, parte di nascosto col suo amico
Lucignolo per il «Paese dei balocchi.»
Com’è
naturale, Pinocchio chiese subito alla Fata il permesso di andare in giro per
la città a fare gl’inviti: e la Fata gli disse:
— Va’
pure a invitare i tuoi compagni per la colazione di domani: ma ricordati di
tornare a casa prima che faccia notte. Hai capito?
— Fra
un’ora prometto di essere bell’e ritornato — replicò il burattino.
— Bada,
Pinocchio! I ragazzi fanno presto a promettere, ma il più delle volte, fanno
tardi a mantenere.
— Ma io
non sono come gli altri: io, quando dico una cosa, la mantengo.
—
Vedremo. Caso poi tu disubbidissi, tanto peggio per te.
—
Perchè?
—
Perchè i ragazzi che non dànno retta ai consigli di chi ne sa più di loro,
vanno sempre incontro a qualche disgrazia.
— E io
l’ho provato! — disse Pinocchio. — Ma ora non ci ricasco più!
—
Vedremo se dici il vero.—
Senza
aggiungere altre parole, il burattino salutò la sua buona Fata, che era per lui
una specie di mamma, e cantando e ballando uscì fuori dalla porta di casa.
In poco
più d’un’ora, tutti i suoi amici furono invitati. Alcuni accettarono subito e
di gran cuore: altri, da principio, si fecero un po’ pregare: ma quando seppero
che i panini da inzuppare nel caffè-e-latte sarebbero stati imburrati anche
dalla parte di fuori, finirono tutti col dire: — «Verremo anche noi, per farti
piacere.»
Ora
bisogna sapere che Pinocchio, fra i suoi amici e compagni di scuola, ne aveva
uno prediletto e carissimo, il quale si chiamava di nome Romeo: ma tutti lo
chiamavano col soprannome di Lucignolo, per via del suo personalino asciutto,
secco e allampanato, tale e quale come il lucignolo nuovo di un lumino da
notte.
Lucignolo
era il ragazzo più svogliato e più birichino di tutta la scuola: ma Pinocchio
gli voleva un gran bene. Difatti andò subito a cercarlo a casa, per invitarlo
alla colazione, e non lo trovò: tornò una seconda volta, e Lucignolo non c’era:
tornò una terza volta, e fece la strada invano.
Dove
poterlo ripescare? Cerca di qua, cerca di là, finalmente lo vide nascosto sotto
il portico di una casa di contadini.
— Che
cosa fai costì? — gli domandò Pinocchio, avanzandosi.
— Aspetto la mezzanotte, per partire....
— Dove
vai?
—
Lontano, lontano, lontano!
— E io
che son venuto a cercarti a casa tre volte!...
— Che
cosa volevi da me?
— Non
sai il grande avvenimento? Non sai la fortuna che mi è toccata?
—
Quale?
—
Domani finisco di essere un burattino e divento un ragazzo come te, e come
tutti gli altri.
— Buon
pro ti faccia.
—
Domani dunque ti aspetto a colazione a casa mia.
— Ma se
ti dico che parto questa sera.
— A che
ora?
— Fra
poco.
— E
dove vai?
— Vado
ad abitare in un paese.... che è il più bel paese di questo mondo: una vera
cuccagna!...
— E
come si chiama?
— Si
chiama il «Paese dei balocchi.» Perchè non vieni anche tu?
— Io?
no davvero!
— Hai
torto, Pinocchio! Credilo a me, che se non vieni, te ne pentirai. Dove vuoi
trovare un paese più sano per noialtri ragazzi? Lì non vi sono scuole: lì non
vi sono maestri: lì non vi sono libri. In quel paese benedetto non si studia
mai. Il giovedì non si fa scuola: e ogni settimana è composta di sei giovedì e
di una domenica. Figurati che le vacanze dell’autunno cominciano col primo di
gennaio e finiscono coll’ultimo di dicembre. Ecco un paese, come piace
veramente a me! Ecco come dovrebbero essere tutti i paesi civili!...
— Ma
come si passano le giornate nel «Paese dei balocchi?»
— Si
passano baloccandosi e divertendosi dalla mattina alla sera. La sera poi si va
a letto, e la mattina dopo si ricomincia daccapo. Che te ne pare?
—
Uhm!... — fece Pinocchio; e tentennò leggermente il capo, come dire: — «È una
vita che la farei volentieri anch’io!»
—
Dunque, vuoi partire con me? Sì o no? Risolviti.
— No,
no, no e poi no. Oramai ho promesso alla mia buona Fata di diventare un ragazzo
per bene, e voglio mantenere la promessa. Anzi, siccome vedo che il sole va
sotto, così ti lascio subito e scappo via. Dunque addio, e buon viaggio.
— Dove
corri con tanta furia?
— A
casa. La mia buona Fata vuole che ritorni prima di notte.
—
Aspetta altri due minuti.
—
Faccio troppo tardi.
— Due
minuti soli.
— E se
poi la Fata mi grida?
—
Lasciala gridare. Quando avrà gridato ben bene, si cheterà — disse quella birba
di Lucignolo.
— E
come fai? Parti solo o in compagnia?
— Solo?
Saremo più di cento ragazzi.
— E il
viaggio lo fate a piedi?
— Fra
poco passerà di qui il carro che mi deve prendere e condurre fin dentro ai
confini di quel fortunatissimo paese.
— Che
cosa pagherei che il carro passasse ora!...
—
Perchè?
— Per
vedervi partire tutti insieme.
— Rimani
qui un altro poco e ci vedrai.
— No,
no: voglio ritornare a casa.
—
Aspetta altri due minuti.
— Ho
indugiato anche troppo. La Fata starà in pensiero per me.
—
Povera Fata! Che ha paura forse che ti mangino i pipistrelli?
— Ma
dunque, — soggiunse Pinocchio — tu sei veramente sicuro che in quel paese non
ci sono punte scuole?…
—
Neanche l’ombra.
— E
nemmeno maestri?
—
Nemmeno uno.
— E non
c’è mai l’obbligo di studiare?
— Mai,
mai, mai!
— Che
bel paese! — disse Pinocchio, sentendo venirsi l’acquolina in bocca. — Che bel
paese! Io non ci sono stato mai, ma me lo figuro!…
— Perchè non vieni anche tu?
— È
inutile che tu mi tenti! Oramai ho promesso alla mia buona Fata di diventare un
ragazzo di giudizio, e non voglio mancare alla parola.
— Dunque
addio, e salutami tanto le scuole ginnasiali!… e anche quelle liceali, se le
incontri per la strada.
—
Addio, Lucignolo: fa’ buon viaggio, divertiti e rammentati qualche volta degli
amici. —
Ciò
detto, il burattino fece due passi in atto di andarsene: ma poi, fermandosi e
voltandosi all’amico, gli domandò:
— Ma
sei proprio sicuro che in quel paese tutte le settimane sieno composte di sei
giovedì e di una domenica?
—
Sicurissimo.
— Ma lo
sai dicerto, che le vacanze abbiano principio col primo di gennaio e finiscano
coll’ultimo di dicembre?
— Di
certissimo!
— Che
bel paese! — ripetè Pinocchio, sputando dalla soverchia consolazione. Poi,
fatto un animo risoluto, soggiunse in fretta e in furia:
—
Dunque, addio davvero: e buon viaggio.
—
Addio.
— Fra
quanto partirete?
— Fra
poco.
—
Peccato! Se alla partenza mancasse un’ora sola, sarei quasi quasi capace di
aspettare.
— E la
Fata?…
—
Oramai ho fatto tardi!… e tornare a casa un’ora prima o un’ora dopo è lo
stesso.
—
Povero Pinocchio! E se la Fata ti grida?
—
Pazienza! La lascerò gridare. Quando avrà gridato ben bene si cheterà. —
Intanto
si era già fatta notte e notte buia: quando a un tratto videro muoversi in
lontananza un lumicino.... e sentirono un suono di bubboli e uno squillo di
trombetta, così piccolino e soffocato, che pareva il sibilo di una zanzara.
—
Eccolo! — gridò Lucignolo, rizzandosi in piedi.
— Chi
è? — domandò sottovoce Pinocchio.
— È il
carro che viene a prendermi. Dunque, vuoi venire, sì o no?
— Ma è
proprio vero — domandò il burattino — che in quel paese i ragazzi non hanno mai
l’obbligo di studiare?
— Mai,
mai, mai!
— Che bel paese!... che bel paese!... che bel paese!... —