Thursday, 28 November 2024

Thursday’s Serial: “ Le avventure di Pinocchio: Storia di un burattino” by Carlo Collodi (in Italian) - IX

 

XXV. Pinocchio promette alla Fata di essere buono e di studiare, perchè è stufo di fare il burattino e vuol diventare un bravo ragazzo.

 

In sulle prime, la buona donnina cominciò col dire che lei non era la piccola Fata dai capelli turchini: ma poi, vedendosi oramai scoperta e non volendo mandare più in lungo la commedia, fini per farsi riconoscere, e disse a Pinocchio:

— Birba d’un burattino! Come mai ti sei accorto che ero io?

— Gli è il gran bene che vi voglio, quello che me l’ha detto.

— Ti ricordi, eh? Mi lasciasti bambina, e ora mi ritrovi donna; tanto donna, che potrei quasi farti da mamma.

— E io l’ho caro dimolto, perchè così, invece di sorellina, vi chiamerò la mia mamma. Gli è tanto tempo che mi struggo di avere una mamma come tutti gli altri ragazzi!... Ma come avete fatto a crescere così presto?

― È un segreto.

— Insegnatemelo: vorrei crescere un poco anch’io. Non lo vedete? Son sempre rimasto alto come un soldo di cacio.

— Ma tu non puoi crescere — replicò la Fata.

— Perchè?

— Perchè i burattini non crescono mai. Nascono burattini, vivono burattini e muoiono burattini.

— Oh! sono stufo di far sempre il burattino! — gridò Pinocchio, dandosi uno scappellotto. — Sarebbe ora che diventassi anch’io un uomo…

— E lo diventerai, se saprai meritartelo…

— Davvero? E che posso fare per meritarmelo?

— Una cosa facilissima: avvezzarti a essere un ragazzino perbene.

— O che forse non lo sono?

— Tutt’altro! I ragazzi perbene sono ubbidienti, e tu invece…

— E io non ubbidisco mai.

— I ragazzi perbene prendono amore allo studio e al lavoro, e tu…

— E io, invece, faccio il bighellone e il vagabondo tutto l’anno.

— I ragazzi perbene dicono sempre la verità…

— E io sempre le bugie.

— I ragazzi perbene vanno volentieri alla scuola…

— E a me la scuola mi fa venire i dolori di corpo. Ma da oggi in poi voglio mutar vita.

— Me lo prometti?

— Lo prometto. Voglio diventare un ragazzino perbene, e voglio essere la consolazione del mio babbo… Dove sarà il mio povero babbo, a quest’ora?

— Non lo so.

— Avrò mai la fortuna di poterlo rivedere e abbracciare?

— Credo di sì: anzi ne sono sicura. —

A questa risposta fu tale e tanta la contentezza di Pinocchio, che prese le mani alla Fata e cominciò a baciargliele con tanta foga, che pareva quasi fuori di sè. Poi, alzando il viso e guardandola amorosamente, le domandò:

— Dimmi, mammina: dunque non è vero che tu sia morta?

— Par di no — rispose sorridendo la Fata.

— Se tu sapessi che dolore e che serratura alla gola che provai, quando lessi qui giace…

— Lo so: ed è per questo che ti ho perdonato. La sincerità del tuo dolore mi fece conoscere che tu avevi il cuore buono: e dai ragazzi buoni dicuore, anche se sono un po’ monelli e avvezzati male, c’è sempre da sperar qualcosa: ossia, c’è sempre da sperare che rientrino sulla vera strada. Ecco perchè son venuta a cercarti fin qui. Io sarò la tua mamma…

― Oh che bella cosa! — gridò Pinocchio saltando dall’allegrezza.

— Tu mi ubbidirai e farai sempre quello che ti dirò io.

— Volentieri, volentieri, volentieri!

— Fino da domani, — soggiunse la Fata, — tu comincerai coll’andare a scuola. —

Pinocchio diventò subito un po’ meno allegro.

— Poi sceglierai a tuo piacere un’arte o un mestiere… —

Pinocchio diventò serio.

— Che cosa brontoli fra i denti? — domandò la Fata con accento risentito.

— Dicevo… — mugolò il burattino a mezza voce, — che oramai per andare a scuola mi pare un po’ tardi…

— Nossignore. Tieni a mente che per istruirsi e per imparare non è mai tardi.

— Ma io non voglio fare nè arti nè mestieri…

— Perchè?

— Perchè a lavorare mi par fatica.

— Ragazzo mio, — disse la Fata — quelli che dicono così, finiscono quasi sempre o in carcere o all’ospedale. L’uomo, per tua regola, nasca ricco o povero, è obbligato in questo mondo a far qualcosa, a occuparsi, a lavorare. Guai a lasciarsi prendere dall’ozio! L’ozio è una bruttissima malattia e bisogna guarirla subito, fin da bambini; se no, quando siamo grandi, non si guarisce più. —

Queste parole toccarono l’animo di Pinocchio, il quale, rialzando vivacemente la testa, disse alla Fata:

— Io studierò, io lavorerò, io farò tutto quello che mi dirai, perchè insomma, la vita del burattino mi è venuta a noia, e voglio diventare un ragazzo a tutti i costi. Me l’hai promesso, non è vero?

— Te l’ho promesso, e ora dipende da te. ―

 

 

XXVI. Pinocchio va co’ suoi compagni di scuola in riva al mare, per vedere il terribile Pesce-cane.

 

Il giorno dopo Pinocchio andò alla scuola comunale.

Figuratevi quelle birbe di ragazzi, quando videro entrare nella loro scuola un burattino! Fu una risata, che non finiva più. Chi gli faceva uno scherzo, chi un altro: chi gli levava il berretto di mano: chi gli tirava il giubbettino di dietro; chi si provava a fargli coll’inchiostro due grandi baffi sotto il naso, e chi si attentava perfino a legargli dei fili ai piedi e alle mani per farlo ballare.

Per un poco Pinocchio usò disinvoltura e tirò via; ma finalmente, sentendosi scappar la pazienza, si rivolse a quelli, che più lo tafanavano e si pigliavano giuoco di lui, e disse loro a muso duro:

— Badate, ragazzi: io non son venuto qui per essere il vostro buffone. Io rispetto gli altri e voglio essere rispettato.

— Bravo Berlicche! Hai parlato come un libro stampato! — urlarono quei monelli, buttandosi via dalle matte risate: e uno di loro più impertinente degli altri, allungò la mano coll’idea di prendere il burattino per la punta del naso.

Ma non fece a tempo: perchè Pinocchio stese la gamba sotto la tavola, e gli consegnò una pedata negli stinchi.

— Ohi! che piedi duri! — urlò il ragazzo stropicciandosi il livido che gli aveva fatto il burattino.

— E che gomiti!… anche più duri dei piedi! — disse un altro che, per i suoi scherzi sguaiati, s’era beccata una gomitata nello stomaco.

Fatto sta che dopo quel calcio e quella gomitata, Pinocchio acquistò subito la stima e la simpatia di tutti i ragazzi di scuola: e tutti gli facevano mille carezze e tutti gli volevano un bene dell’anima.

E anche il maestro se ne lodava, perchè lo vedeva attento, studioso, intelligente, sempre il primo a entrare nella scuola, sempre l’ultimo a rizzarsi in piedi, a scuola finita.

Il solo difetto che avesse era quello di bazzicare troppi compagni; e fra questi c’erano molti monelli conosciutissimi per la loro poco voglia di studiare e di farsi onore.

Il maestro lo avvertiva tutti i giorni, e anche la buona Fata non mancava di dirgli e di ripetergli più volte:

— Bada, Pinocchio! Quei tuoi compagnacci di scuola finiranno, prima o poi, col farti perdere l’amore allo studio e, forse forse, col tirarti addosso qualche grossa disgrazia.

― Non c’è pericolo! — rispondeva il burattino, facendo una spallucciata, e toccandosi coll’indice in mezzo alla fronte, come per dire: «C’è tanto giudizio qui dentro!»

Ora avvenne che un bel giorno, mentre camminava verso la scuola, incontrò un branco dei soliti compagni, che andandogli incontro, gli dissero:

— Sai la gran notizia?

— No.

— Qui nel mare vicino è arrivato un Pesce-cane grosso come una montagna.

— Davvero?… Che sia quel medesimo Pesce-cane di quando affogò il mio povero babbo?

— Noi andiamo alla spiaggia per vederlo. Vuoi venire anche tu?

— Io, no: voglio andare a scuola.

— Che t’importa della scuola? Alla scuola ci anderemo domani. Con una lezione di più o con una di meno, si rimane sempre gli stessi somari.

— E il maestro che dirà?

— Il maestro si lascia dire. È pagato apposta per brontolare tutti i giorni.

— E la mia mamma?

— Le mamme non sanno mai nulla, — risposero quei malanni.

— Sapete che cosa farò? — disse Pinocchio. —

Il Pesce-cane voglio vederlo per certe mie ragioni… ma anderò a vederlo dopo la scuola.

— Povero giucco! — ribattè uno del branco. — Che credi che un pesce di quella grossezza voglia star lì a fare il comodo tuo? Appena s’è annoiato, piglia il dirizzone per un’altra parte, e allora chi s’è visto s’è visto.

— Quanto tempo ci vuole di qui alla spiaggia? — domandò il burattino.

— Fra un’ora, siamo bell’e andati e tornati.

— Dunque, via! e chi più corre, è più bravo! — gridò Pinocchio.

Dato così il segnale della partenza, quel branco di monelli coi loro libri e i loro quaderni sotto il braccio si messero a correre attraverso ai campi e Pinocchio era sempre avanti a tutti, pareva che avesse le ali ai piedi.

Di tanto in tanto, voltandosi indietro, canzonava i suoi compagni rimasti a una bella distanza, e nel vederli ansanti, trafelati, polverosi e con tanto di lingua fuori, se la rideva proprio di cuore. Lo sciagurato, in quel momento, non sapeva a quali paure e a quali orribili disgrazie andava incontro.

 

 

XXVII. Gran combattimento fra Pinocchio e i suoi compagni: uno de’ quali essendo rimasto ferito, Pinocchio viene arrestato dai carabinieri.

 

Giunto che fu sulla spiaggia, Pinocchio dètte subito una grande occhiata sul mare; ma non vide nessun Pesce-cane. Il mare era tutto liscio come un gran cristallo da specchio.

— O il Pesce-cane dov’è? — domandò, voltandosi ai compagni.

— Sarà andato a far colazione — rispose uno di loro, ridendo.

— O si sarà buttato sul letto per far un sonnellino — soggiunse un altro, ridendo più forte che mai.

Da quelle risposte sconclusionate e da quelle risatacce grulle, Pinocchio capì che i suoi compagni gli avevano fatto una brutta celia, dandogli ad intendere una cosa che non era vera; e pigliandosela a male, disse a loro con voce di bizza:

— E ora? che sugo ci avete trovato a darmi ad intendere la storiella del Pesce-cane?

— Il sugo c’è sicuro!… — risposero in coro quei monelli.

— E sarebbe?

— Quello di farti perdere la scuola e di farti venire con noi. Non ti vergogni a mostrarti tutti i giorni così preciso e così diligente alla lezione? Non ti vergogni a studiar tanto, come fai?

— E se io studio, che cosa ve ne importa?

— A noi ce ne importa moltissimo, perchè ci costringi a fare una brutta figura col maestro…

— Perchè?

— Perchè gli scolari che studiano fanno sempre scomparire quelli, come noi, che non hanno voglia di studiare. E noi non vogliamo scomparire! Anche noi abbiamo il nostro amor proprio!…

— E allora che cosa devo fare per contentarvi?

— Devi prendere a noia, anche tu, la scuola, la lezione e il maestro, che sono i nostri tre grandi nemici.

— E se io volessi seguitare a studiare?

— Noi non ti guarderemo più in faccia, e alla prima occasione ce la pagherai.

— In verità mi fate quasi ridere — disse il burattino con una scrollatina di capo.

— Ehi, Pinocchio! — gridò allora il più grande di quei ragazzi andandogli sul viso. — Non venir qui a fare lo smargiasso: non venir qui a far tanto il galletto!… perchè se tu non hai paura di noi, neanche noi abbiamo paura di te! Ricordati che tu sei solo e noi siamo in sette.

— Sette come i peccati mortali, — disse Pinocchio con una gran risata.

— Avete sentito? Ci ha insultati tutti! Ci ha chiamati col nome di peccati mortali!…

— Pinocchio! chiedici scusa dell’offesa… e se no, guai a te!…

— Cucù! — fece il burattino, battendosi coll’indice sulla punta del naso, in segno di canzonatura.

— Pinocchio! la finisce male!…

— Cucù!

— Ne toccherai quanto un somaro!…

— Cucù!

— Ritornerai a casa col naso rotto!…

— Cucù!

— Ora il Cucù te lo darò io! — gridò il più ardito di quei monelli. — Prendi intanto quest’acconto, e serbalo per la cena di stasera. —

E nel dir così gli appiccicò un pugno nel capo.

Ma fu, come si suol dire, botta e risposta; perchè il burattino, com’era da aspettarselo, rispose subito con un altro pugno: e lì, da un momento all’altro, il combattimento diventò generale e accanito.

Pinocchio, sebbene fosse solo, si difendeva come un eroe. Con quei suoi piedi di legno durissimo lavorava così bene, da tener sempre i suoi nemici a rispettosa distanza. Dove i suoi piedi potevano arrivare e toccare, ci lasciavano sempre un livido per ricordo.

Allora i ragazzi indispettiti di non potersi misurare col burattino a corpo a corpo, pensarono bene di metter mano ai proiettili; e sciolti i fagotti de’ loro libri di scuola, cominciarono a scagliare contro di lui i Sillabari, le Grammatiche, i Giannettini, i Minuzzoli, i Racconti del Thouar, il Pulcino della Baccini e altri libri scolastici: ma il burattino, che era d’occhio svelto e ammalizzito, faceva sempre civetta a tempo, sicchè i volumi, passandogli di sopra al capo, andavano tutti a cascare nel mare.

Figuratevi i pesci! I pesci, credendo che quei libri fossero roba da mangiare, correvano a frotte a fior d’acqua; ma dopo avere abboccata qualche pagina o qualche frontespizio, la risputavano subito, facendo con la bocca una certa smorfia, che pareva volesse dire: «Non è roba per noi: noi siamo avvezzi a cibarci molto meglio!»

Intanto il combattimento s’inferociva sempre più, quand’ecco che un grosso Granchio, che era uscito fuori dell’acqua e s’era adagio adagio arrampicato fin sulla spiaggia, gridò con una vociaccia di trombone infreddato:

— Smettetela, birichini che non siete altro!

Queste guerre manesche fra ragazzi e ragazzi raramente vanno a finir bene. Qualche disgrazia accade sempre!… —

Povero Granchio! Fu lo stesso che avesse predicato al vento. Anzi, quella birba di Pinocchio, voltandosi indietro a guardarlo in cagnesco, gli disse sgarbatamente:

— Chetati, Granchio dell’uggia! Faresti meglio a succiare due pasticche di lichene per guarire da codesta infreddatura di gola. Va’ piuttosto a letto, e cerca di sudare!

In quel frattempo i ragazzi, che avevano finito oramai di tirare tutti i loro libri, occhiarono lì a poca distanza il fagotto dei libri del burattino, e se ne impadronirono in men che non si dice.

Fra questi libri, v’era un volume rilegato in cartoncino grosso, colla costola e colle punte di cartapecora. Era un Trattato di Aritmetica. Vi lascio immaginare se era peso di molto!

Uno di quei monelli agguantò quel volume, e presa di mira la testa di Pinocchio, lo scagliò con quanta forza aveva nel braccio: ma invece di cogliere il burattino, colse nella testa uno dei compagni, il quale diventò bianco come un panno lavato, e non disse altro che queste parole:

— O mamma mia,… aiutatemi perchè muoio!… — Poi cadde disteso sulla rena del lido.

Alla vista di quel morticino, i ragazzi spaventati si dettero a scappare a gambe, e in pochi minuti non si videro più.

Ma Pinocchio rimase lì; e sebbene per il dolore e per lo spavento, anche lui fosse più morto che vivo, nondimeno corse ad inzuppare il suo fazzoletto nell’acqua del mare, e si pose a bagnare la tempia del suo povero compagno di scuola. E intanto, piangendo dirottamente e disperandosi, lo chiamava per nome e gli diceva:

— Eugenio!… povero Eugenio mio!… apri gli occhi e guardami!… Perchè non mi rispondi? Non sono stato io, sai, che ti ho fatto tanto male! Credilo, non sono stato io!… Apri gli occhi, Eugenio… Se tieni gli occhi chiusi, mi farai morire anche me… O Dio mio! come farò ora a tornare a casa?… Con che coraggio potrò presentarmi alla mia buona mamma? Che sarà di me?… Dove fuggirò?… Dove andrò a nascondermi?… Oh quant’era meglio, mille volte meglio che fossi andato a scuola!… Perchè ho dato retta a questi compagni, che sono la mia dannazione? E il maestro me l’aveva detto!… e la mia mamma me l’aveva ripetuto: «Guardati dai cattivi compagni!» Ma io sono un testardo… un caparbiaccio… lascio dir tutti, e poi fo sempre a modo mio! E dopo mi tocca a scontarle… E così, da che sono al mondo, non ho mai avuto un quarto d’ora di bene. Dio mio! Che sarà di me, che sarà di me, che sarà di me? ―

E Pinocchio continuava a piangere, a berciare, a darsi dei pugni nel capo e a chiamar per nome il povero Eugenio, quando sentì a un tratto un rumore sordo di passi che si avvicinavano.

Si voltò: erano due carabinieri.

— Che cosa fai così sdraiato per terra? — domandarono a Pinocchio.

— Assisto questo mio compagno di scuola.

— Che gli è venuto male?

— Par di sì!…

— Altro che male! — disse uno dei carabinieri chinandosi e osservando Eugenio da vicino. — Questo ragazzo è stato ferito in una tempia: chi è che l’ha ferito?

— Io no! — balbettò il burattino che non aveva più fiato in corpo.

— Se non sei stato tu, chi è stato dunque che l’ha ferito?

— Io no! — ripetè Pinocchio.

— E con che cosa è stato ferito?

— Con questo libro. — E il burattino raccattò di terra il Trattato di Aritmetica, rilegato in cartone e cartapecora, per mostrarlo al carabiniere.

— E questo libro di chi è?

— Mio.

— Basta così: non occorre altro. Rizzati subito, e vien via con noi.

— Ma io…

— Via con noi!…

— Ma io sono innocente…

— Via con noi! ―

Prima di partire, i carabinieri chiamarono alcuni pescatori, che in quel momento passavano per l’appunto colla loro barca vicino alla spiaggia, e dissero loro:

— Vi affidiamo questo ragazzetto ferito nel capo. Portatelo a casa vostra e assistetelo. Domani torneremo a vederlo. ―

Quindi si volsero a Pinocchio, e dopo averlo messo in mezzo a loro due, gl’intimarono con accento soldatesco:

— Avanti! e cammina spedito! se no, peggio per te! ―

Senza farselo ripetere, il burattino cominciò a camminare per quella viottola, che conduceva al paese. Ma il povero diavolo non sapeva più nemmeno lui in che mondo si fosse. Gli pareva di sognare, e che brutto sogno! Era fuori di sè. I suoi occhi vedevano tutto doppio: le gambe gli tremavano: la lingua gli era rimasta attaccata al palato e non poteva più spiccicare una sola parola. Eppure, in mezzo a quella specie di stupidità e di rintontimento, una spina acutissima gli bucava il cuore: il pensiero, cioè, di dover passare sotto le finestre di casa della sua buona fata, in mezzo ai carabinieri. Avrebbe preferito piuttosto di morire.

Erano già arrivati e stavano per entrare in paese, quando una folata di vento strapazzone levò di testa a Pinocchio il berretto, portandoglielo lontano una diecina di passi.

— Si contentano — disse il burattino ai carabinieri — che vada a riprendere il mio berretto?

— Vai pure; ma facciamo una cosa lesta. —

Il burattino andò, raccattò il berretto.... ma invece di metterselo in capo, se lo mise in bocca fra i denti, e poi cominciò a correre di gran carriera verso la spiaggia del mare. Andava via come una palla di fucile.

I carabinieri, giudicando che fosse difficile raggiungerlo, gli aizzarono dietro un grosso cane mastino che aveva guadagnato il primo premio a tutte le corse dei cani. Pinocchio correva, e il cane correva più di lui; per cui tutta la gente si affacciava alle finestre e si affollava in mezzo alla strada, ansiosa di veder la fine di un palio così inferocito. Ma non potè levarsi questa voglia, perchè il can mastino e Pinocchio sollevarono lungo la strada un tal polverone, che dopo pochi minuti non era possibile di veder più nulla.

Wednesday, 27 November 2024

Wednesday's Good Reading: "In me la morte, in te la vita mia" by Michelangelo Buonarroti (in Italian)

   In me la morte, in te la vita mia;
tu distingui e concedi e parti el tempo;
quante vuo’, breve e lungo è ’l viver mio.

  Felice son nella tuo cortesia.
Beata l’alma, ove non corre tempo,
per te s’è fatta a contemplare Dio.

Tuesday, 26 November 2024

Tuesday's Serial: “Lavengro” by George Borrow (in English) - XLI

 

Chapter 78

low and calm—much better—the blessed effect

 

Before I sank to rest I heard Winifred and her husband conversing in the place where I had left them; both their voices were low and calm. I soon fell asleep, and slumbered for some time. On my awakening I again heard them conversing, but they were now in their cart; still the voices of both were calm. I heard no passionate bursts of wild despair on the part of the man. Methought I occasionally heard the word Pechod proceeding from the lips of each, but with no particular emphasis. I supposed they were talking of the innate sin of both their hearts.

'I wish that man were happy,' said I to myself, 'were it only for his wife's sake, and yet he deserves to be happy for his own.'

The next day Peter was very cheerful, more cheerful than I had ever seen him. At breakfast his conversation was animated, and he smiled repeatedly. I looked at him with the greatest interest, and the eyes of his wife were almost constantly fixed upon him. A shade of gloom would occasionally come over his countenance, but it almost instantly disappeared; perhaps it proceeded more from habit than anything else. After breakfast he took his Welsh Bible and sat down beneath a tree. His eyes were soon fixed intently on the volume; now and then he would call his wife, show her some passage, and appeared to consult with her. The day passed quickly and comfortably.

'Your husband seems much better,' said I, at evening fall, to Winifred, as we chanced to be alone.

'He does,' said Winifred; 'and that on the day of the week when he was wont to appear most melancholy, for to-morrow is the Sabbath. He now no longer looks forward to the Sabbath with dread, but appears to reckon on it. What a happy change! and to think that this change should have been produced by a few words, seemingly careless ones, proceeding from the mouth of one who is almost a stranger to him. Truly, it is wonderful.'

'To whom do you allude,' said I; 'and to what words?'

'To yourself, and to the words which came from your lips last night, after you had heard my poor husband's history. Those strange words, drawn out with so much seeming indifference, have produced in my husband the blessed effect which you have observed. They have altered the current of his ideas. He no longer thinks himself the only being in the world doomed to destruction,—the only being capable of committing the never-to-be-forgotten sin. Your supposition that that which harrowed his soul is of frequent occurrence amongst children has tranquillised him; the mist which hung over his mind has cleared away, and he begins to see the groundlessness of his apprehensions. The Lord has permitted him to be chastened for a season, but his lamp will only burn the brighter for what he has undergone.'

Sunday came, fine and glorious as the last. Again my friends and myself breakfasted together—again the good family of the house on the hill above, headed by the respectable master, descended to the meadow. Peter and his wife were ready to receive them. Again Peter placed himself at the side of the honest farmer, and Winifred by the side of her friend. 'Wilt thou not come?' said Peter, looking towards me with a face in which there was much emotion. 'Wilt thou not come?' said Winifred, with a face beaming with kindness. But I made no answer, and presently the party moved away, in the same manner in which it had moved on the preceding Sabbath, and I was again left alone.

The hours of the Sabbath passed slowly away. I sat gazing at the sky, the trees, and the water. At last I strolled up to the house and sat down in the porch. It was empty; there was no modest maiden there, as on the preceding Sabbath. The damsel of the book had accompanied the rest. I had seen her in the procession, and the house appeared quite deserted. The owners had probably left it to my custody, so I sat down in the porch, quite alone. The hours of the Sabbath passed heavily away.

At last evening came, and with it the party of the morning. I was now at my place beneath the oak. I went forward to meet them. Peter and his wife received me with a calm and quiet greeting, and passed forward. The rest of the party had broken into groups. There was a kind of excitement amongst them, and much eager whispering. I went to one of the groups; the young girl of whom I have spoken more than once was speaking: 'Such a sermon,' said she, 'it has never been our lot to hear; Peter never before spoke as he has done this day—he was always a powerful preacher, but oh, the unction of the discourse of this morning, and yet more of that of the afternoon, which was the continuation of it!' 'What was the subject?' said I, interrupting her. 'Ah! you should have been there, young man, to have heard it; it would have made a lasting impression upon you. I was bathed in tears all the time; those who heard it will never forget the preaching of the good Peter Williams on the Power, Providence, and Goodness of God.'

 

 

Chapter 79

deep interest—goodly country—two mansions—welshman's candle—beautiful universe—godly discourse—fine church—points of doctrine—strange adventures—the pontiff—evil spirit

 

On the morrow I said to my friends, 'I am about to depart; farewell!' 'Depart!' said Peter and his wife, simultaneously; 'whither wouldst thou go?' 'I can't stay here all my days,' I replied. 'Of course not,' said Peter; 'but we had no idea of losing thee so soon: we had almost hoped that thou wouldst join us, become one of us. We are under infinite obligations to thee.' 'You mean I am under infinite obligations to you,' said I. 'Did you not save my life?' 'Perhaps so, under God,' said Peter; 'and what hast thou not done for me? Art thou aware that, under God, thou hast preserved my soul from despair? But, independent of that, we like thy company, and feel a deep interest in thee, and would fain teach thee the way that is right. Hearken, to-morrow we go into Wales; go with us.' 'I have no wish to go into Wales,' said I. 'Why not?' said Peter, with animation. 'Wales is a goodly country; as the Scripture says—a land of brooks of water, of fountains and depths, that spring out of valleys and hills, a land whose stones are iron, and out of whose hills thou mayest dig lead.'

'I daresay it is a very fine country,' said I, 'but I have no wish to go there just now; my destiny seems to point in another direction, to say nothing of my trade.' 'Thou dost right to say nothing of thy trade,' said Peter, smiling, 'for thou seemest to care nothing about it; which has led Winifred and myself to suspect that thou art not altogether what thou seemest; but, setting that aside, we should be most happy if thou wouldst go with us into Wales.' 'I cannot promise to go with you into Wales,' said I; 'but, as you depart to-morrow, I will stay with you through the day, and on the morrow accompany you part of the way.' 'Do,' said Peter: 'I have many people to see to-day, and so has Winifred; but we will both endeavour to have some serious discourse with thee, which, perhaps, will turn to thy profit in the end.'

In the course of the day the good Peter came to me, as I was seated beneath the oak, and, placing himself by me, commenced addressing me in the following manner:—

'I have no doubt, my young friend, that you are willing to admit that the most important thing which a human being possesses is his soul; it is of infinitely more importance than the body, which is a frail substance, and cannot last for many years; but not so the soul, which, by its nature, is imperishable. To one of two mansions the soul is destined to depart, after its separation from the body, to heaven or hell; to the halls of eternal bliss, where God and His holy angels dwell, or to the place of endless misery, inhabited by Satan and his grisly companions. My friend, if the joys of heaven are great, unutterably great, so are the torments of hell unutterably so. I wish not to speak of them, I wish not to terrify your imagination with the torments of hell: indeed, I like not to think of them; but it is necessary to speak of them sometimes, and to think of them sometimes, lest you should sink into a state of carnal security. Authors, friend, and learned men, are not altogether agreed as to the particulars of hell. They all agree, however, in considering it a place of exceeding horror. Master Ellis Wyn, who by the bye was a churchman, calls it, amongst other things, a place of strong sighs, and of flaming sparks. Master Rees Pritchard, who was not only a churchman, but Vicar of Llandovery, and flourished about two hundred years ago—I wish many like him flourished now—speaking of hell, in his collection of sweet hymns called the "Welshman's Candle," observes,

'"The pool is continually blazing; it is very deep, without any known bottom, and the walls are so high, that there is neither hope nor possibility of escaping over them."

'But, as I told you just now, I have no great pleasure in talking of hell. No, friend, no; I would sooner talk of the other place, and of the goodness and hospitality of God amongst His saints above.'

And then the excellent man began to dilate upon the joys of heaven, and the goodness and hospitality of God in the mansions above; explaining to me, in the clearest way, how I might get there.

And when he had finished what he had to say, he left me, whereupon Winifred drew nigh, and sitting down by me began to address me. 'I do not think,' said she, 'from what I have observed of thee, that thou wouldst wish to be ungrateful, and yet, is not thy whole life a series of ingratitude, and to whom?—to thy Maker. Has He not endowed thee with a goodly and healthy form; and senses which enable thee to enjoy the delights of His beautiful universe—the work of His hands? Canst thou not enjoy, even to rapture, the brightness of the sun, the perfume of the meads, and the song of the dear birds which inhabit among the trees? Yes, thou canst; for I have seen thee, and observed thee doing so. Yet, during the whole time that I have known thee, I have not heard proceed from thy lips one single word of praise or thanksgiving to . . .'

And in this manner the admirable woman proceeded for a considerable time, and to all her discourse I listened with attention; and when she had concluded, I took her hand and said, 'I thank you,' and that was all.

On the next day everything was ready for our departure. The good family of the house came to bid us farewell. There were shaking of hands, and kisses, as on the night of our arrival.

And as I stood somewhat apart, the young girl of whom I have spoken so often came up to me, and holding out her hand, said, 'Farewell, young man, wherever thou goest.' Then, after looking around her, she said, 'It was all true you told me. Yesterday I received a letter from him thou wottest of; he is coming soon. God bless you, young man; who would have thought thou knewest so much!'

So, after we had taken our farewell of the good family, we departed, proceeding in the direction of Wales. Peter was very cheerful, and enlivened the way with godly discourse and spiritual hymns, some of which were in the Welsh language. At length I said, 'It is a pity that you did not continue in the Church; you have a turn for Psalmody, and I have heard of a man becoming a bishop by means of a less qualification.'

'Very probably,' said Peter; 'more the pity. But I have told you the reason of my forsaking it. Frequently, when I went to the church door, I found it barred, and the priest absent; what was I to do? My heart was bursting for want of some religious help and comfort; what could I do? as good Master Rees Pritchard observes in his "Candle for Welshmen."

'"It is a doleful thing to see little children burning on the hot coals for want of help; but yet more doleful to see a flock of souls falling into the burning lake for want of a priest."'

'The Church of England is a fine church,' said I; 'I would not advise any one to speak ill of the Church of England before me.'

'I have nothing to say against the church,' said Peter; 'all I wish is that it would fling itself a little more open, and that its priests would a little more bestir themselves; in a word, that it would shoulder the cross and become a missionary church.'

'It is too proud for that,' said Winifred.

'You are much more of a Methodist,' said I, 'than your husband. But tell me,' said I, addressing myself to Peter, 'do you not differ from the church in some points of doctrine? I, of course, as a true member of the church, am quite ignorant of the peculiar opinions of wandering sectaries.'

'Oh the pride of that church!' said Winifred, half to herself; 'wandering sectaries!'

'We differ in no points of doctrine,' said Peter; 'we believe all the church believes, though we are not so fond of vain and superfluous ceremonies, snow-white neckcloths and surplices, as the church is. We likewise think that there is no harm in a sermon by the road-side, or in holding free discourse with a beggar beneath a hedge, or a tinker,' he added, smiling; 'it was those superfluous ceremonies, those surplices and white neckcloths, and, above all, the necessity of strictly regulating his words and conversation, which drove John Wesley out of the church, and sent him wandering up and down as you see me, poor Welsh Peter, do.'

Nothing farther passed for some time; we were now drawing near the hills: at last I said, 'You must have met with a great many strange adventures since you took up this course of life?'

'Many,' said Peter, 'it has been my lot to meet with; but none more strange than one which occurred to me only a few weeks ago. You were asking me, not long since, whether I believed in devils? Ay, truly, young man; and I believe that the abyss and the yet deeper unknown do not contain them all; some walk about upon the green earth. So it happened, some weeks ago, that I was exercising my ministry about forty miles from here. I was alone, Winifred being slightly indisposed, staying for a few days at the house of an acquaintance; I had finished afternoon's worship—the people had dispersed, and I was sitting solitary by my cart under some green trees in a quiet retired place; suddenly a voice said to me, "Good-evening, Pastor"; I looked up, and before me stood a man, at least the appearance of a man, dressed in a black suit of rather a singular fashion. He was about my own age, or somewhat older. As I looked upon him, it appeared to me that I had seen him twice before whilst preaching. I replied to his salutation, and perceiving that he looked somewhat fatigued, I took out a stool from the cart, and asked him to sit down. We began to discourse; I at first supposed that he might be one of ourselves, some wandering minister; but I was soon undeceived. Neither his language nor his ideas were those of any one of our body. He spoke on all kinds of matters with much fluency; till at last he mentioned my preaching, complimenting me on my powers. I replied, as well I might, that I could claim no merit of my own, and that if I spoke with any effect, it was only by the grace of God. As I uttered these last words, a horrible kind of sneer came over his countenance, which made me shudder, for there was something diabolical in it. I said little more, but listened attentively to his discourse. At last he said that I was engaged in a paltry cause, quite unworthy of one of my powers. "How can that be," said I, "even if I possessed all the powers in the world, seeing that I am engaged in the cause of our Lord Jesus?"

'The same kind of sneer again came on his countenance, but he almost instantly observed, that if I chose to forsake this same miserable cause, from which nothing but contempt and privation was to be expected, he would enlist me into another, from which I might expect both profit and renown. An idea now came into my head, and I told him firmly that if he wished me to forsake my present profession and become a member of the Church of England, I must absolutely decline; that I had no ill-will against that church, but I thought I could do most good in my present position, which I would not forsake to be Archbishop of Canterbury. Thereupon he burst into a strange laughter, and went away, repeating to himself, "Church of England! Archbishop of Canterbury!" A few days after, when I was once more in a solitary place, he again appeared before me, and asked me whether I had thought over his words, and whether I was willing to enlist under the banners of his master, adding that he was eager to secure me, as he conceived that I might be highly useful to the cause. I then asked him who his master was; he hesitated for a moment, and then answered, "The Roman Pontiff." "If it be he," said I, "I can have nothing to do with him; I will serve no one who is an enemy of Christ." Thereupon he drew near to me, and told me not to talk so much like a simpleton; that as for Christ, it was probable that no such person ever existed, but that if He ever did, He was the greatest impostor the world ever saw. How long he continued in this way I know not, for I now considered that an evil spirit was before me, and shrank within myself, shivering in every limb; when I recovered myself and looked about me, he was gone. Two days after, he again stood before me, in the same place, and about the same hour, renewing his propositions, and speaking more horribly than before. I made him no answer; whereupon he continued; but suddenly hearing a noise behind him, he looked round and beheld Winifred, who had returned to me on the morning of that day. "Who are you?" said he fiercely. "This man's wife," said she, calmly fixing her eyes upon him. "Begone from him, unhappy one, thou temptest him in vain." He made no answer, but stood as if transfixed: at length, recovering himself, he departed, muttering, "Wife! wife! If the fool has a wife, he will never do for us!"'

 

 

Chapter 80

the border—thank you both—pipe and fiddle

 

We were now drawing very near the hills, and Peter said, 'If you are to go into Wales, you must presently decide, for we are close upon the border.'

'Which is the border?' said I.

'Yon small brook,' said Peter, 'into which the man on horseback who is coming towards us is now entering.'

'I see it,' said I, 'and the man; he stops in the middle of it, as if to water his steed.'

We proceeded till we had nearly reached the brook. 'Well,' said Peter, 'will you go into Wales?'

'What should I do in Wales?' I demanded.

'Do!' said Peter, smiling, 'learn Welsh.'

I stopped my little pony. 'Then I need not go into Wales; I already know Welsh.'

'Know Welsh!' said Peter, staring at me.

'Know Welsh!' said Winifred, stopping her cart.

'How and when did you learn it?' said Peter.

'From books, in my boyhood.'

'Read Welsh!' said Peter; 'is it possible?'

'Read Welsh!' said Winifred; 'is it possible?'

'Well, I hope you will come with us,' said Peter.

'Come with us, young man,' said Winifred; 'let me, on the other side of the brook, welcome you into Wales.'

'Thank you both,' said I, 'but I will not come.'

'Wherefore?' exclaimed both simultaneously.

'Because it is neither fit nor proper that I cross into Wales at this time, and in this manner. When I go into Wales, I should wish to go in a new suit of superfine black, with hat and beaver, mounted on a powerful steed, black and glossy, like that which bore Greduv to the fight of Catraeth. I should wish, moreover, to see the Welshmen assembled on the border ready to welcome me with pipe and fiddle, and much whooping and shouting, and to attend me to Wrexham, or even as far as Machynllaith, where I should wish to be invited to a dinner at which all the bards should be present, and to be seated at the right hand of the president, who, when the cloth was removed, should arise, and, amidst cries of silence, exclaim—"Brethren and Welshmen, allow me to propose the health of my most respectable friend the translator of the odes of the great Ab Gwilym, the pride and glory of Wales."'

'How!' said Peter, 'hast thou translated the works of the mighty Dafydd?'

'With notes critical, historical, and explanatory.'

'Come with us, friend,' said Peter. 'I cannot promise such a dinner as thou wishest, but neither pipe nor fiddle shall be wanting.'

'Come with us, young man,' said Winifred, 'even as thou art, and the daughters of Wales shall bid thee welcome.'

'I will not go with you,' said I. 'Dost thou see that man in the ford?'

'Who is staring at us so, and whose horse has not yet done drinking? Of course I see him.'

'I shall turn back with him. God bless you.'

'Go back with him not,' said Peter; 'he is one of those whom I like not, one of the clibberty-clabber, as Master Ellis Wyn observes—turn not with that man.'

'Go not back with him,' said Winifred. 'If thou goest with that man, thou wilt soon forget all our profitable counsels; come with us.'

'I cannot; I have much to say to him. Kosko Divvus, Mr. Petulengro.'

'Kosko Divvus, Pal,' said Mr. Petulengro, riding through the water; 'are you turning back?'

I turned back with Mr. Petulengro.

Peter came running after me: 'One moment, young man,—who and what are you?'

'I must answer in the words of Taliesin,' said I: 'none can say with positiveness whether I be fish or flesh, least of all myself. God bless you both!'

'Take this,' said Peter, and he thrust his Welsh Bible into my hand.