Thursday, 5 December 2024

Thursday’s Serial: “ Le avventure di Pinocchio: Storia di un burattino” by Carlo Collodi (in Italian) - X

 

XXVIII. Pinocchio corre pericolo di essere fritto in padella, come un pesce.

 

Durante quella corsa disperata, vi fu un momento terribile, un momento in cui Pinocchio si credè perduto: perchè bisogna sapere che Alidoro (era questo il nome del can mastino) a furia di correre e correre, l’aveva quasi raggiunto.

Basti dire che il burattino sentiva dietro di sè, alla distanza d’un palmo, l’ansare affannoso di quella bestiaccia, e ne sentiva perfino la vampa calda delle fiatate.

Per buona fortuna la spiaggia era oramai vicina, e il mare si vedeva lì a pochi passi.

Appena fu sulla spiaggia, il burattino spiccò un bellissimo salto, come avrebbe potuto fare un ranocchio, e andò a cascare in mezzo all’acqua. Alidoro invece voleva fermarsi: ma trasportato dall’impeto della corsa, entrò nell’acqua anche lui. E quel disgraziato non sapeva nuotare; per cui cominciò subito ad annaspare colle zampe per reggersi a galla; ma più annaspava, e più andava col capo sott’acqua.

Quando ritornò a rimettere il capo fuori, il povero cane aveva gli occhi impauriti e stralunati, e, abbaiando gridava:

— Affogo! affogo!

— Crepa! — gli rispose Pinocchio da lontano, il quale si vedeva oramai sicuro da ogni pericolo.

— Aiutami, Pinocchio mio!… salvami dalla morte!… —

A quelle grida strazianti il burattino, che in fondo aveva un cuore eccellente, si mosse a compassione, e voltosi al cane, gli disse:

— Ma se io ti aiuto a salvarti, mi prometti di non darmi più noia e di non corrermi dietro?

— Te lo prometto! te lo prometto! Spicciati per carità, perchè se indugi un altro mezzo minuto, son bell’e morto. —

Pinocchio esitò un poco: ma poi ricordandosi che il suo babbo gli aveva detto tante volte che a fare una buona azione non ci si scapita mai, andò nuotando a raggiungere Alidoro, e, presolo per la coda con tutt’e due le mani, lo portò sano e salvo sulla rena asciutta del lido.

Il povero cane non si reggeva più in piedi. Aveva bevuto, senza volerlo, tant’acqua salata, che era gonfiato come un pallone. Per altro il burattino, non volendo fare a fidarsi troppo, stimò cosa prudente di gettarsi novamente in mare; e allontanandosi dalla spiaggia, gridò all’amico salvato:

― Addio, Alidoro; fa’ buon viaggio, e tanti saluti a casa.

― Addio, Pinocchio, — rispose il cane — mille grazie di avermi liberato dalla morte. Tu m’hai fatto un gran servizio: e in questo mondo quel che è fatto è reso. Se capita l’occasione ci riparleremo.... —

Pinocchio seguitò a nuotare, tenendosi sempre vicino alla terra. Finalmente gli parve di esser giunto in un luogo sicuro: e dando un’occhiata alla spiaggia, vide sugli scogli una specie di grotta, dalla quale usciva un lunghissimo pennacchio di fumo.

― In quella grotta — disse allora fra sè — ci deve essere del fuoco. Tanto meglio! anderò a rasciugarmi e riscaldarmi, e poi?... e poi sarà quel che sarà. —

Presa questa risoluzione, si avvicinò alla scogliera; ma quando fu lì per arrampicarsi, sentì qualche cosa sotto l’ acqua che saliva, saliva, saliva e lo portava per aria. Tentò subito di fuggire, ma oramai era tardi, perchè con sua grandissima maraviglia si trovò rinchiuso dentro una grossa rete in mezzo a un brulichìo di pesci d’ogni forma e grandezza, che scodinzolavano e si dibattevano come tante anime disperate.

E nel tempo stesso vide uscire dalla grotta un pescatore così brutto, ma tanto brutto, che pareva un mostro marino. Invece di capelli aveva sulla testa un cespuglio foltissimo di erba verde; verde era la pelle del suo corpo, verdi gli occhi, verde la barba lunghissima, che gli scendeva fin quaggiù. Pareva un grosso ramarro, ritto sui piedi di dietro.

Quando il pescatore ebbe tirata fuori la rete dal mare, gridò tutto contento:

— Provvidenza benedetta! Anch’oggi potrò fare una bella scorpacciata di pesce!

— Manco male, che io non sono un pesce! — disse Pinocchio dentro di sè, ripigliando un po’ di coraggio.

La rete piena di pesci fu portata dentro la grotta, una grotta buia e affumicata, in mezzo alla quale friggeva una gran padella d’olio, che mandava un odorino di moccolaia, da mozzare il respiro.

— Ora vediamo un po’ che pesci abbiamo presi! — disse il pescatore verde; e ficcando nella rete una manona così spropositata, che pareva una pala da fornai, tirò fuori una manciata di triglie.

— Buone queste triglie! — disse, guardandole e annusandole con compiacenza. E dopo averle annusate, le scaraventò in una conca senz’acqua.

Poi ripetè più volte la solita operazione; e via via che cavava fuori gli altri pesci, sentiva venirsi l’acquolina in bocca e gongolando diceva:

— Buoni questi naselli!…

— Squisiti questi muggini!…

— Deliziose queste sogliole!…

— Prelibati questi ragnotti!…

— Carine queste acciughe col capo! ―

Come potete immaginarvelo, i naselli, i muggini, le sogliole, i ragnotti e l’acciughe, andarono tutti alla rinfusa nella conca, a tener compagnia alle triglie.

L’ultimo che restò nella rete fu Pinocchio.

Appena il pescatore l’ebbe cavato fuori, sgranò dalla maraviglia i suoi occhioni verdi, gridando quasi impaurito:

— Che razza di pesce è questo? Dei pesci fatti a questo modo non mi ricordo di averne mangiati mai. —

E tornò a guardarlo attentamente, e dopo averlo guardato ben bene per ogni verso, finì col dire:

— Ho capito; dev’essere un granchio di mare. — Allora Pinocchio, mortificato di sentirsi scambiato per un granchio, disse con accento risentito:

— Ma che granchio e non granchio? Guardi come lei mi tratta! Io, per sua regola, sono un burattino.

— Un burattino? — replicò il pescatore. — Dico la verità, il pesce burattino è per me un pesce nuovo! Meglio così! ti mangerò più volentieri.

— Mangiarmi? ma la vuol capire che io non sono un pesce? O non sente che parlo, e ragiono come lei?

— È verissimo; — soggiunse il pescatore — e siccome vedo che sei un pesce, che hai la fortuna di parlare e di ragionare come me, così voglio usarti anch’io i dovuti riguardi.

— E questi riguardi sarebbero?…

— In segno di amicizia e di stima particolare, lascerò a te la scelta del come vuoi esser cucinato. Desideri esser fritto in padella, oppure preferisci di esser cotto nel tegame colla salsa di pomidoro?

— A dir la verità, — rispose Pinocchio — se io debbo scegliere, preferisco piuttosto di esser lasciato libero, per potermene tornare a casa mia.

— Tu scherzi! Ti pare che io voglia perdere l’occasione di assaggiare un pesce così raro? Non capita mica tutti i giorni, un pesce burattino in questi mari. Lascia fare a me: ti friggerò in padella assieme a tutti gli altri pesci, e te ne troverai contento. L’esser fritto in compagnia è sempre una consolazione. ―

L’infelice Pinocchio, a quest’antifona, cominciò a piangere, a strillare, a raccomandarsi: e piangendo diceva: — Quant’era meglio, che fossi andato a scuola!… Ho voluto dar retta ai compagni, e ora la pago!... Ih!… Ih!… Ih!… ―

E perchè si divincolava come un’anguilla e faceva sforzi incredibili, per isgusciare dalle grinfie del pescatore verde, questi prese una bella buccia di giunco, e dopo averlo legato per le mani e per i piedi, come un salame, lo gettò in fondo alla conca cogli altri.

Poi, tirato fuori un vassoiaccio di legno, pieno di farina, si dètte a infarinare tutti quei pesci: e man mano che li aveva infarinati, li buttava a friggere dentro la padella.

I primi a ballare nell’olio bollente furono i poveri naselli: poi toccò ai ragnotti, poi ai muggini, poi alle sogliole e alle acciughe, e poi venne la volta di Pinocchio. Il quale, a vedersi così vicino alla morte (e che brutta morte!) fu preso da tanto tremito e da tanto spavento, che non aveva più nè voce nè fiato per raccomandarsi.

Il povero figliuolo si raccomandava cogli occhi! Ma il pescatore verde, senza badarlo neppure, lo avvoltò cinque o sei volte nella farina, infarinandolo così bene dal capo ai piedi, che pareva diventato un burattino di gesso.

Poi lo prese per il capo, e…

 

 

XXIX. Ritorna a casa della Fata, la quale gli promette che il giorno dopo non sarà più un burattino, ma diventerà un ragazzo. Gran colazione di caffè-e-latte per festeggiare questo grande avvenimento.

 

Mentre il pescatore era proprio sul punto di buttar Pinocchio nella padella, entrò nella grotta un grosso cane condotto là dall’odore acutissimo e ghiotto della frittura.

— Passa via! — gli gridò il pescatore minacciandolo e tenendo sempre in mano il burattino infarinato.

Ma il povero cane aveva una fame per quattro, e mugolando e dimenando la coda, pareva che dicesse: ― Dammi un boccon di frittura e ti lascio in pace.

— Passa via, ti dico! — gli ripetè il pescatore; e allungò la gamba per tirargli una pedata.

Allora il cane che, quando aveva fame davvero, non era avvezzo a lasciarsi posar mosche sul naso, si rivoltò ringhioso al pescatore, mostrandogli le sue terribili zanne.

In quel mentre si udì nella grotta una vocina fioca fioca, che disse:

— Salvami, Alidoro! Se non mi salvi, son fritto!

Il cane riconobbe subito la voce di Pinocchio, e si accòrse con sua grandissima maraviglia, che la vocina era uscita da quel fagotto infarinato, che il pescatore teneva in mano.

Allora che cosa fa? Spicca un gran lancio da

terra, abbocca quel fagotto infarinato, e tenendolo leggermente coi denti, esce correndo dalla grotta, e via come un baleno!

Il pescatore arrabbiatissimo di vedersi strappar di mano un pesce, che egli avrebbe mangiato tanto volentieri, si provò a rincorrere il cane; ma fatti pochi passi gli venne un nodo di tosse e dovè tornarsene indietro.

Intanto Alidoro, ritrovata che ebbe la viottola che conduceva al paese, si fermò e posò delicatamente in terra l’amico Pinocchio.

— Quanto ti debbo ringraziare! — disse il burattino.

— Non c’è bisogno; — replicò il cane — tu salvasti me, e quel che è fatto è reso. Si sa: in questo mondo bisogna tutti aiutarsi l’uno con l’altro.

— Ma come mai sei capitato in quella grotta?

— Ero sempre qui disteso sulla spiaggia più morto che vivo, quando il vento mi ha portato da lontano un odorino di frittura. Quell’odorino mi ha stuzzicato l’appetito, e io gli sono andato dietro. Se arrivavo un minuto più tardi!…

— Non me lo dire! — urlò Pinocchio che tremava ancora dalla paura. — Non me lo dire! Se tu arrivavi un minuto più tardi, a quest’ora io ero bell’e fritto, mangiato e digerito. Brrr! mi vengono i brividi soltanto a pensarvi!… ―

Alidoro, ridendo, stese la zampa destra verso il burattino, il quale gliela strinse forte forte in segno di grande amicizia: e dopo si lasciarono.

Il cane riprese la strada di casa: e Pinocchio, rimasto solo, andò a una capanna lì poco distante, e domandò a un vecchietto che stava sulla porta a scaldarsi al sole:

— Dite, galantuomo, sapete nulla di un povero ragazzo ferito nel capo e che si chiamava Eugenio?

— Il ragazzo è stato portato da alcuni pescatori in questa capanna, e ora…

— Ora sarà morto!… — interruppe Pinocchio, con gran dolore.

— No: ora è vivo, ed è già ritornato a casa sua.

— Davvero?… davvero?… — gridò il burattino, saltando dall’allegrezza. — Dunque la ferita non era grave?...

— Ma poteva riuscire gravissima e anche mortale, — rispose il vecchietto — perchè gli tirarono nel capo un grosso libro rilegato in cartone.

— E chi glielo tirò?

— Un suo compagno di scuola: un certo Pinocchio....

— E chi è questo Pinocchio? — domandò il burattino facendo lo gnorri.

— Dicono che sia un ragazzaccio, un vagabondo, un vero rompicollo.

— Calunnie! Tutte calunnie!

— Lo conosci tu questo Pinocchio?

— Di vista! — rispose il burattino.

— E tu, che concetto ne hai? — gli chiese il vecchietto.

— A me mi pare un gran buon figliuolo, pieno di voglia di studiare, obbediente, affezionato al suo babbo e alla sua famiglia.... —

Mentre il burattino sfilava a faccia fresca tutte queste bugie, si toccò il naso e si accorse che il naso gli era allungato più di un palmo. Allora tutto impaurito cominciò a gridare:

— Non date retta, galantuomo, a tutto il bene che ve ne ho detto; perchè conosco benissimo Pinocchio e posso assicurarvi anch’io ch’è davvero un ragazzaccio, un disubbidiente e uno svogliato, e che invece di andare a scuola, va coi compagni a fare lo sbarazzino!

Appena ebbe pronunziate queste parole, il suo naso raccorcì e tornò alla grandezza naturale, come era prima.

— E perchè sei tutto bianco a codesto modo? — gli domandò a un tratto il vecchietto.

— Vi dirò.... senza avvedermene, mi sono strofinato a un muro, che era imbiancato di fresco — rispose il burattino vergognandosi a raccontare che lo avevano infarinato come un pesce, per poi friggerlo in padella.

— O della tua giacchetta, de’ tuoi calzoncini e del tuo berretto, che cosa ne hai fatto?

— Ho incontrato i ladri e mi hanno spogliato. Dite, buon vecchio, non avreste per caso da darmi un po’ di vestituccio, tanto perchè io possa ritornare a casa?

— Ragazzo mio; in quanto a vestiti, io non ho che un piccolo sacchetto, dove ci tengo i lupini. Se lo vuoi, piglialo: eccolo là. —

Pinocchio non se lo fece dire due volte: prese subito il sacchetto dei lupini che era vuoto, e dopo averci fatto colle forbici una piccola buca nel fondo e due buche dalle parti, se lo infilò a uso camicia. E vestito leggerino a quel modo, si avviò verso il paese. Ma, lungo la strada, non si sentiva punto tranquillo; tant’è vero che faceva un passo avanti e uno indietro e, discorrendo da sè solo andava dicendo:

— Come farò a presentarmi alla mia buona

Fatina? Che dirà quando mi vedrà?… Vorrà perdonarmi questa seconda birichinata?… Scommetto che non me la perdona!… oh! non me la perdona di certo!… E mi sta il dovere: perchè io sono un monello che prometto sempre di correggermi, e non mantengo mai!… ―

Arrivò al paese che era già notte buia; e perchè faceva tempaccio e l’acqua veniva giù a catinelle, andò diritto diritto alla casa della Fata, coll’animo risoluto di bussare alla porta e di farsi aprire.

Ma quando fu lì, sentì mancarsi il coraggio, e invece di bussare, si allontanò, correndo, una ventina di passi. Poi tornò una seconda volta alla porta, e non concluse nulla: poi si avvicinò una terza volta e nulla: la quarta volta prese, tremando, il battente di ferro in mano, e bussò un piccolo colpettino.

Aspetta, aspetta, finalmente dopo mezz’ora si aprì una finestra dell’ultimo piano (la casa era di quattro piani) e Pinocchio vide affacciarsi una grossa Lumaca, che aveva un lumicino acceso sul capo, la quale disse:

— Chi è a quest’ora?

— La Fata è in casa? — domandò il burattino.

— La Fata dorme e non vuol essere svegliata: ma tu chi sei?

— Sono io!

— Chi io?

— Pinocchio.

— Chi Pinocchio?

— Il burattino, quello che sta in casa colla Fata.

— Ah! ho capito; — disse la Lumaca — aspettami costì, che ora scendo giù e ti apro subito.

— Spicciatevi, per carità, perchè io muoio dal freddo.

— Ragazzo mio, io sono una Lumaca, e le Lumache non hanno mai fretta. —

Intanto passò un’ora, ne passarono due e la porta non si apriva: per cui Pinocchio, che tremava dal freddo, dalla paura e dall’acqua che aveva addosso, si fece cuore e bussò una seconda volta, e bussò più forte.

A quel secondo colpo si aprì una finestra del piano di sotto e si affacciò la solita Lumaca.

— Lumachina bella, — gridò Pinocchio dalla strada, — sono due ore che aspetto! E due ore, a questa serataccia, diventano più lunghe di due anni. Spicciatevi, per carità.

— Ragazzo mio — gli rispose dalla finestra quella bestiuola tutta pace e tutta flemma — ragazzo mio, io sono una Lumaca, e le Lumache non hanno mai fretta. — E la finestra si richiuse.

Di lì a poco suonò la mezzanotte: poi il tocco, poi le due dopo mezzanotte, e la porta era sempre chiusa.

Allora Pinocchio, perduta la pazienza, afferrò con rabbia il battente della porta per bussare un gran colpo da far rintronare tutto il casamento; ma il battente che era di ferro, diventò a un tratto un’anguilla viva, che sgusciandogli dalle mani sparì in un rigagnolo d’acqua, che scorreva in mezzo alla strada.

— Ah, sì? — gridò Pinocchio sempre più accecato dalla collera. — Se il battente è sparito, io seguiterò a bussare a furia di calci. —

E tiratosi un poco indietro, lasciò andare una solennissima pedata nell’uscio della casa. Il colpo fu così forte, che il piede penetrò nel legno fino a mezzo: e quando il burattino si provò a ricavarlo fuori, fu tutta fatica inutile, perchè il piede c’era rimasto conficcato dentro, come un chiodo ribadito.

Figuratevi il povero Pinocchio! Dovè passare tutto il resto della notte con un piede in terra e con quell’altro per aria.

La mattina, sul far del giorno, finalmente la porta si aprì. Quella brava bestiuola della Lumaca, a scendere dal quarto piano fino all’uscio di strada, ci aveva messo solamente nove ore. Bisogna proprio dire che avesse fatto una sudata.

— Che cosa fate con codesto piede conficcato nell’uscio? — domandò ridendo al burattino.

— È stata una disgrazia. Vedete un po’, Lumachina bella, se vi riesce di liberarmi da questo supplizio.

― Ragazzo mio, costì ci vuole un legnaiolo, e io non ho mai fatto la legnaiola.

— Pregate la Fata da parte mia!…

— La Fata dorme e non vuol essere svegliata.

— Ma che cosa volete che io faccia, inchiodato tutto il giorno a questa porta?

— Divertiti a contare le formicole che passano per la strada.

— Portatemi almeno qualche cosa da mangiare, perchè mi sento rifinito.

— Subito! — disse la Lumaca.

Difatti dopo tre ore e mezzo, Pinocchio la vide tornare con un vassoio d’argento in capo. Nel vassoio c’era un pane, un pollastro arrosto e quattro albicocche mature.

— Ecco la colazione che vi manda la Fata — disse la Lumaca.

Alla vista di quella grazia di Dio, il burattino sentì consolarsi tutto. Ma quale fu il suo disinganno, quando incominciando a mangiare, si dovè accorgere che il pane era di gesso, il pollastro di cartone e le quattro albicocche di alabastro, colorite, come se fossero vere.

Voleva piangere, voleva darsi alla disperazione, voleva buttar via il vassoio e quel che c’era dentro; ma invece, o fosse il gran dolore o la gran languidezza di stomaco, fatto sta che cadde svenuto.

Quando si riebbe, si trovò disteso sopra un sofà, e la Fata era accanto a lui.

— Anche per questa volta ti perdono: — gli disse la Fata — ma guai a te, se me ne fai un’altra delle tue!… —

Pinocchio promise e giurò che avrebbe studiato, e che si sarebbe condotto sempre bene. E mantenne la parola per tutto il resto dell’anno. Difatti agli esami delle vacanze, ebbe l’onore di essere il più bravo della scuola; e i suoi portamenti, in generale, furono giudicati così lodevoli e soddisfacenti, che la Fata, tutta contenta, gli disse:

— Domani finalmente il tuo desiderio sarà appagato!

— Cioè?

— Domani finirai di essere un burattino di legno, e diventerai un ragazzo per bene.—

Chi non ha veduto la gioia di Pinocchio, a questa notizia tanto sospirata, non potrà mai figurarsela. Tutti i suoi amici e compagni di scuola dovevano essere invitati per il giorno dopo a una gran colazione in casa della Fata, per festeggiare insieme il grande avvenimento: e la Fata aveva fatto preparare dugento tazze di caffè-e-latte e quattrocento panini imburrati di dentro e di fuori. Quella giornata prometteva di riuscire molto bella e molto allegra: ma....

Disgraziatamente, nella vita dei burattini, c’è sempre un ma, che sciupa ogni cosa.

 

 

XXX. Pinocchio, invece di diventare un ragazzo, parte di nascosto col suo amico Lucignolo per il «Paese dei balocchi.»

 

Com’è naturale, Pinocchio chiese subito alla Fata il permesso di andare in giro per la città a fare gl’inviti: e la Fata gli disse:

— Va’ pure a invitare i tuoi compagni per la colazione di domani: ma ricordati di tornare a casa prima che faccia notte. Hai capito?

— Fra un’ora prometto di essere bell’ e ritornato — replicò il burattino.

— Bada, Pinocchio! I ragazzi fanno presto a promettere, ma il più delle volte, fanno tardi a mantenere.

— Ma io non sono come gli altri: io, quando dico una cosa, la mantengo.

— Vedremo. Caso poi tu disubbidissi, tanto peggio per te.

— Perchè?

— Perchè i ragazzi che non dànno retta ai consigli di chi ne sa più di loro, vanno sempre incontro a qualche disgrazia.

— E io l’ho provato! — disse Pinocchio. — Ma ora non ci ricasco più!

— Vedremo se dici il vero.—

Senza aggiungere altre parole, il burattino salutò la sua buona Fata, che era per lui una specie di mamma, e cantando e ballando uscì fuori dalla porta di casa.

In poco più d’un’ora tutti i suoi amici furono invitati. Alcuni accettarono subito e di gran cuore, altri, da principio, si fecero un po’ pregare; ma quando seppero che i panini da inzuppare nel caffè-e-latte sarebbero stati imburrati anche dalla parte di fuori, finirono tutti col dire: — Verremo anche noi, per farti piacere. —

Ora bisogna sapere che Pinocchio, fra i suoi amici e compagni di scuola, ne aveva uno prediletto e carissimo, il quale si chiamava di nome Romeo; ma tutti lo chiamavano col soprannome di Lucignolo, per via del suo personalino asciutto, secco e allampanato, tale e quale come il lucignuolo nuovo di un lumino da notte.

Lucignolo era il ragazzo più svogliato e più birichino di tutta la scuola: ma Pinocchio gli voleva un gran bene. Difatti andò subito a cercarlo a casa per invitarlo alla colazione, e non

lo trovò: tornò una seconda volta, e Lucignolo non c’era: tornò una terza volta, e fece la strada invano.

Dove poterlo ripescare? Cerca di qua, cerca di là, finalmente lo vide nascosto sotto il portico di una casa di contadini.

— Che cosa fai costì? — gli domandò Pinocchio, avanzandosi.

— Aspetto la mezzanotte, per partire....

— Dove vai?

— Lontano, lontano, lontano!

— E io che son venuto a cercarti a casa tre volte!...

— Che cosa volevi da me?

— Non sai il grande avvenimento? Non sai la fortuna che mi è toccata?

— Quale?

— Domani finisco di essere un burattino e divento un ragazzo come te, e come tutti gli altri.

— Buon pro ti faccia.

— Domani dunque ti aspetto a colazione a casa mia.

— Ma se ti dico che parto questa sera.

— A che ora?

— Fra poco.

— E dove vai?

— Vado ad abitare in un paese.... che è il più bel paese di questo mondo: una vera cuccagna!...

— E come si chiama?

— Si chiama il «Paese dei Balocchi.» Perchè non vieni anche tu?

— Io? no davvero!

— Hai torto, Pinocchio! Credilo a me, che se non vieni, te ne pentirai. Dove vuoi trovare un paese più sano per noialtri ragazzi? Lì non vi sono scuole: lì non vi sono maestri; lì non vi sono libri. In quel paese benedetto non si studia mai. Il giovedì non si fa scuola: e ogni settimana è composta di sei giovedì e di una domenica. Figurati che le vacanze dell’autunno cominciano col primo di gennaio e finiscono coll’ultimo di dicembre. Ecco un paese, come piace veramente a me! Ecco come dovrebbero essere tutti i paesi civili!...

— Ma come si passano le giornate nel «Paese dei Balocchi?»

— Si passano baloccandosi e divertendosi dalla mattina alla sera. La sera poi si va a letto, e la mattina dopo si ricomincia daccapo. Che te ne pare?

— Uhm!... — fece Pinocchio; e tentennò leggermente il capo, come dire: — È una vita che la farei volentieri anch’io.

— Dunque, vuoi partire con me? Sì o no? Risolviti.

— No, no, no e poi no. Oramai ho promesso alla mia buona Fata di diventare un ragazzo perbene, e voglio mantenere la promessa. Anzi, siccome vedo che il sole va sotto, così ti lascio subito e scappo via. Dunque addio, e buon viaggio.

— Dove corri con tanta furia?

— A casa. La mia buona Fata vuole che ritorni prima di notte.

— Aspetta altri due minuti.

— Faccio troppo tardi.

— Due minuti soli.

— E se poi la Fata mi grida?

— Lasciala gridare. Quando avrà gridato ben bene, si cheterà — disse quella birba di Lucignolo.

— E come fai? Parti solo o in compagnia?

— Solo? Saremo più di cento ragazzi.

— E il viaggio lo fate a piedi?

— Fra poco passerà di qui il carro che mi deve prendere e condurre fin dentro ai confini di quel fortunatissimo paese.

— Che cosa pagherei che il carro passasse ora!...

— Perchè?

— Per vedervi partire tutti insieme.

— Rimani qui un altro poco e ci vedrai.

— No, no: voglio ritornare a casa.

— Aspetta altri due minuti.

— Ho indugiato anche troppo. La Fata starà in pensiero per me.

— Povera Fata! Che ha paura forse che ti mangino i pipistrelli?

— Ma dunque, — soggiunse Pinocchio — tu sei veramente sicuro che in quel paese non ci sono punte scuole?…

— Neanche l’ombra.

— E nemmeno maestri?

— Nemmeno uno.

— E non c’è mai l’obbligo di studiare?

— Mai, mai, mai!

— Che bel paese! — disse Pinocchio, sentendo venirsi l’acquolina in bocca. — Che bel paese! Io non ci sono stato mai, ma me lo figuro!…

— Perchè non vieni anche tu?

— È inutile che tu mi tenti! Oramai ho promesso alla mia buona Fata di diventare un ragazzo di giudizio, e non voglio mancare alla parola.

— Dunque addio, e salutami tanto le scuole ginnasiali!… e anche quelle liceali, se le incontri per la strada.

— Addio, Lucignolo; fa’ buon viaggio, divertiti e rammentati qualche volta degli amici. —

Ciò detto, il burattino fece due passi in atto di andarsene: ma poi, fermandosi e voltandosi all’amico, gli domandò:

— Ma sei proprio sicuro che in quel paese tutte le settimane sieno composte di sei giovedì e di una domenica?

— Sicurissimo.

— Ma lo sai dicerto, che le vacanze abbiano principio col primo di gennaio e finiscano coll’ultimo di dicembre?

— Di certissimo!

— Che bel paese! — ripetè Pinocchio, sputando dalla soverchia consolazione. Poi, fatto un animo risoluto, soggiunse in fretta e in furia:

— Dunque, addio davvero: e buon viaggio.

— Addio.

— Fra quanto partirete?

— Fra poco.

— Peccato! Se alla partenza mancasse un’ora sola, sarei quasi quasi capace di aspettare.

— E la Fata?…

— Oramai ho fatto tardi!… e tornare a casa un’ora prima o un’ora dopo è lo stesso.

— Povero Pinocchio! E se la Fata ti grida?

— Pazienza! La lascerò gridare. Quando avrà gridato ben bene si cheterà. —

Intanto si era già fatta notte e notte buia: quando a un tratto videro muoversi in lontananza un lumicino.... e sentirono un suono di bubboli e uno squillo di trombetta, così piccolino e soffocato, che pareva il sibilo di una zanzara.

— Eccolo! — gridò Lucignolo rizzandosi in piedi.

— Chi è? — domandò sottovoce Pinocchio.

— È il carro che viene a prendermi. Dunque, vuoi venire, sì o no?

— Ma è proprio vero, — domandò il burattino — che in quel paese i ragazzi non hanno mai l’obbligo di studiare?

— Mai, mai, mai!

— Che bel paese!... che bel paese!... che bel paese!... ―

Wednesday, 4 December 2024

Prayer by St. Anthony of Lisbon (translated into Portuguese).

 

Senhor Jesus Cristo, infunde em nós a tua graça para pedir e para receber a plenitude da verdadeira vida.

Roga por nós ao Pai, para que nos conceda uma fé reta que mereça alcançar o lugar da vida eterna.

Com a tua ajuda, Tu que és o princípio e o fim, digno de louvor, admirável e inefável pelos séculos dos séculos. Amém.

Tuesday, 3 December 2024

Tuesday's Serial: “Lavengro” by George Borrow (in English) - XLII


Chapter 81

at a funeral—two days ago—very coolly—roman woman—well and hearty—somewhat dreary—plum pudding—roman fashion—quite different—the dark lane—beyond time—fine fellow—like a wild cat—pleasant enough spot—no gloves

 

So I turned back with Mr. Petulengro. We travelled for some time in silence; at last we fell into discourse. 'You have been in Wales, Mr. Petulengro?'

'Ay, truly, brother.'

'What have you been doing there?'

'Assisting at a funeral.'

'At whose funeral?'

'Mrs. Herne's, brother.'

'Is she dead, then?'

'As a nail, brother.'

'How did she die?'

'By hanging, brother.'

'I am lost in astonishment,' said I; whereupon Mr. Petulengro, lifting his sinister leg over the neck of his steed, and adjusting himself sideways in the saddle, replied, with great deliberation, 'Two days ago I happened to be at a fair not very far from here; I was all alone by myself, for our party were upwards of forty miles off, when who should come up but a chap that I knew, a relation, or rather a connection, of mine—one of those Hernes. "Aren't you going to the funeral?" said he; and then, brother, there passed between him and me, in the way of questioning and answering, much the same as has just now passed between me and you; but when he mentioned hanging, I thought I could do no less than ask who hanged her, which you forgot to do. "Who hanged her?" said I; and then the man told me that she had done it herself; been her own hinjiri; and then I thought to myself what a sin and shame it would be if I did not go to the funeral, seeing that she was my own mother-in-law. I would have brought my wife, and, indeed, the whole of our party, but there was no time for that; they were too far off, and the dead was to be buried early the next morning; so I went with the man, and he led me into Wales, where his party had lately retired, and when there, through many wild and desolate places to their encampment, and there I found the Hernes, and the dead body—the last laid out on a mattress, in a tent, dressed Romaneskoenæs in a red cloak, and big bonnet of black beaver. I must say for the Hernes that they took the matter very coolly; some were eating, others drinking, and some were talking about their small affairs; there was one, however, who did not take the matter so coolly, but took on enough for the whole family, sitting beside the dead woman, tearing her hair, and refusing to take either meat or drink; it was the child Leonora. I arrived at nightfall, and the burying was not to take place till the morning, which I was rather sorry for, as I am not very fond of them Hernes, who are not very fond of anybody. They never asked me to eat or drink, notwithstanding I had married into the family, one of them, however, came up and offered to fight me for five shillings; had it not been for them I should have come back as empty as I went—he didn't stand up five minutes. Brother, I passed the night as well as I could, beneath a tree, for the tents were full, and not over clean; I slept little, and had my eyes about me, for I knew the kind of people I was among.

'Early in the morning the funeral took place. The body was placed not in a coffin but on a bier, and carried not to a churchyard but to a deep dell close by; and there it was buried beneath a rock, dressed just as I have told you; and this was done by the bidding of Leonora, who had heard her bebee say that she wished to be buried, not in gorgious fashion, but like a Roman woman of the old blood, the kosko puro rati, brother. When it was over, and we had got back to the encampment, I prepared to be going. Before mounting my gry, however, I bethought me to ask what could have induced the dead woman to make away with herself—a thing so uncommon amongst Romanies; whereupon one squinted with his eyes, a second spirted saliver into the air, and a third said that he neither knew nor cared; she was a good riddance, having more than once been nearly the ruin of them all, from the quantity of brimstone she carried about her. One, however, I suppose rather ashamed of the way in which they had treated me, said at last that if I wanted to know all about the matter none could tell me better than the child, who was in all her secrets, and was not a little like her; so I looked about for the child, but could find her nowhere. At last the same man told me that he shouldn't wonder if I found her at the grave; so I went back to the grave, and sure enough there I found the child Leonora, seated on the ground above the body, crying and taking on; so I spoke kindly to her, and said, "How came all this, Leonora? tell me all about it." It was a long time before I could get any answer; at last she opened her mouth and spoke, and these were the words she said, "It was all along of your Pal"; and then she told me all about the matter—how Mrs. Herne could not abide you, which I knew before; and that she had sworn your destruction, which I did not know before. And then she told me how she found you living in the wood by yourself, and how you were enticed to eat a poisoned cake; and she told me many other things that you wot of, and she told me what perhaps you don't wot, namely, that finding you had been removed, she, the child, had tracked you a long way, and found you at last well and hearty, and no ways affected by the poison, and heard you, as she stood concealed, disputing about religion with a Welsh Methody. Well, brother, she told me all this; and, moreover, that when Mrs. Herne heard of it, she said that a dream of hers had come to pass. I don't know what it was, but something about herself, a tinker, and a dean; and then she added that it was all up with her, and that she must take a long journey. Well, brother, that same night Leonora, waking from her sleep in the tent where Mrs. Herne and she were wont to sleep, missed her bebee, and, becoming alarmed, went in search of her, and at last found her hanging from a branch; and when the child had got so far, she took on violently, and I could not get another word from her; so I left her, and here I am.'

'And I am glad to see you, Mr. Petulengro; but this is sad news which you tell me about Mrs. Herne.'

'Somewhat dreary, brother; yet, perhaps, after all, it is a good thing that she is removed; she carried so much Devil's tinder about with her, as the man said.'

'I am sorry for her,' said I; 'more especially as I am the cause of her death—though the innocent one.'

'She could not bide you, brother, that's certain; but that is no reason'—said Mr. Petulengro, balancing himself upon the saddle—'that is no reason why she should prepare drow to take away your essence of life; and, when disappointed, to hang herself upon a tree: if she was dissatisfied with you, she might have flown at you, and scratched your face; or, if she did not judge herself your match, she might have put down five shillings for a turn-up between you and some one she thought could beat you—myself, for example—and so the matter might have ended comfortably; but she was always too fond of covert ways, drows, and brimstones. This is not the first poisoning affair she has been engaged in.'

'You allude to drabbing bawlor.'

'Bah!' said Mr. Petulengro; 'there's no harm in that. No, no! she has cast drows in her time for other guess things than bawlor; both Gorgios and Romans have tasted of them, and died. Did you never hear of the poisoned plum pudding?'

'Never.'

'Then I will tell you about it. It happened about six years ago, a few months after she had quitted us—she had gone first amongst her own people, as she called them; but there was another small party of Romans, with whom she soon became very intimate. It so happened that this small party got into trouble; whether it was about a horse or an ass, or passing bad money, no matter to you and me, who had no hand in the business; three or four of them were taken and lodged in —— Castle, and amongst them was a woman; but the sherengro, or principal man of the party, and who it seems had most hand in the affair, was still at large. All of a sudden a rumour was spread abroad that the woman was about to play false, and to 'peach the rest. Said the principal man, when he heard it, "If she does, I am nashkado." Mrs. Herne was then on a visit to the party, and when she heard the principal man take on so, she said, "But I suppose you know what to do?" "I do not," said he. "Then hir mi devlis," said she, "you are a fool. But leave the matter to me, I know how to dispose of her in Roman fashion." Why she wanted to interfere in the matter, brother, I don't know, unless it was from pure brimstoneness of disposition—she had no hand in the matter which had brought the party into trouble—she was only on a visit, and it had happened before she came; but she was always ready to give dangerous advice. Well, brother, the principal man listened to what she had to say, and let her do what she would; and she made a pudding, a very nice one, no doubt—for, besides plums, she put in drows and all the Roman condiments that she knew of; and she gave it to the principal man, and the principal put it into a basket and directed it to the woman in —— Castle, and the woman in the castle took it and—'

'Ate of it,' said I; 'just like my case!'

'Quite different, brother; she took it, it is true, but instead of giving way to her appetite, as you might have done, she put it before the rest whom she was going to impeach; perhaps she wished to see how they liked it before she tasted it herself; and all the rest were poisoned, and one died, and there was a precious outcry, and the woman cried loudest of all; and she said, "It was my death was sought for; I know the man, and I'll be revenged." And then the Poknees spoke to her and said, "Where can we find him?" and she said, "I am awake to his motions; three weeks from hence, the night before the full moon, at such and such an hour, he will pass down such a lane with such a man."'

'Well,' said I, 'and what did the Poknees do?'

'Do, brother! sent for a plastramengro from Bow Street, quite secretly, and told him what the woman had said; and the night before the full moon, the plastramengro went to the place which the juwa had pointed out, all alone, brother; and in order that he might not be too late, he went two hours before his time. I know the place well, brother, where the plastramengro placed himself behind a thick holly tree, at the end of a lane, where a gate leads into various fields, through which there is a path for carts and horses. The lane is called the dark lane by the Gorgios, being much shaded by trees. So the plastramengro placed himself in the dark lane behind the holly tree; it was a cold February night, dreary though; the wind blew in gusts, and the moon had not yet risen, and the plastramengro waited behind the tree till he was tired, and thought he might as well sit down; so he sat down, and was not long in falling to sleep, and there he slept for some hours; and when he awoke the moon had risen, and was shining bright, so that there was a kind of moonlight even in the dark lane; and the plastramengro pulled out his watch, and contrived to make out that it was just two hours beyond the time when the men should have passed by. Brother, I do not know what the plastramengro thought of himself, but I know, brother, what I should have thought of myself in his situation. I should have thought, brother, that I was a drowsy scoppelo, and that I had let the fellow pass by whilst I was sleeping behind a bush. As it turned out, however, his going to sleep did no harm, but quite the contrary: just as he was going away, he heard a gate slam in the direction of the fields, and then he heard the low stumping of horses, as if on soft ground, for the path in those fields is generally soft, and at that time it had been lately ploughed up. Well, brother, presently he saw two men on horseback coming towards the lane through the field behind the gate; the man who rode foremost was a tall big fellow, the very man he was in quest of; the other was a smaller chap, not so small either, but a light, wiry fellow, and a proper master of his hands when he sees occasion for using them. Well, brother, the foremost man came to the gate, reached at the hank, undid it, and rode through, holding it open for the other. Before, however, the other could follow into the lane, out bolted the plastramengro from behind the tree, kicked the gate to with his foot, and, seizing the big man on horseback, "You are my prisoner," said he. I am of opinion, brother, that the plastramengro, notwithstanding he went to sleep, must have been a regular fine fellow.'

'I am entirely of your opinion,' said I; 'but what happened then?'

'Why, brother, the Rommany chal, after he had somewhat recovered from his surprise, for it is rather uncomfortable to be laid hold of at night-time, and told you are a prisoner; more especially when you happen to have two or three things on your mind which, if proved against you, would carry you to the nashky,—the Rommany chal, I say, clubbed his whip, and aimed a blow at the plastramengro, which, if it had hit him on the skull, as was intended, would very likely have cracked it. The plastramengro, however, received it partly on his staff, so that it did him no particular damage. Whereupon, seeing what kind of customer he had to deal with, he dropped his staff and seized the chal with both his hands, who forthwith spurred his horse, hoping, by doing so, either to break away from him or fling him down; but it would not do—the plastramengro held on like a bull-dog, so that the Rommany chal, to escape being hauled to the ground, suddenly flung himself off the saddle, and then happened in that lane, close by the gate, such a struggle between those two—the chal and the runner—as I suppose will never happen again. But you must have heard of it; everyone has heard of it; everyone has heard of the fight between the Bow Street engro and the Rommany chal.'

'I never heard of it till now.'

'All England rung of it, brother. There never was a better match than between those two. The runner was somewhat the stronger of the two—all those engroes are strong fellows—and a great deal cooler, for all of that sort are wondrous cool people—he had, however, to do with one who knew full well how to take his own part. The chal fought the engro, brother, in the old Roman fashion. He bit, he kicked, and screamed like a wild cat of Benygant; casting foam from his mouth and fire from his eyes. Sometimes he was beneath the engro's legs, and sometimes he was upon his shoulders. What the engro found the most difficult was to get a firm hold of the chal, for no sooner did he seize the chal by any part of his wearing apparel, than the chal either tore himself away, or contrived to slip out of it; so that in a little time the chal was three parts naked; and as for holding him by the body, it was out of the question, for he was as slippery as an eel. At last the engro seized the chal by the Belcher's handkerchief, which he wore in a knot round his neck, and do whatever the chal could, he could not free himself; and when the engro saw that, it gave him fresh heart, no doubt: "It's of no use," said he; "you had better give in; hold out your hands for the darbies, or I will throttle you."

'And what did the other fellow do, who came with the chal?' said I.

'I sat still on my horse, brother.'

'You!' said I. 'Were you the man?'

'I was he, brother.'

'And why did you not help your comrade?'

'I have fought in the ring, brother.'

'And what had fighting in the ring to do with fighting in the lane?'

'You mean not fighting. A great deal, brother; it taught me to prize fair play. When I fought Staffordshire Dick, t'other side of London, I was alone, brother. Not a Rommany chal to back me, and he had all his brother pals about him; but they gave me fair play, brother; and I beat Staffordshire Dick, which I couldn't have done had they put one finger on his side the scale; for he was as good a man as myself, or nearly so. Now, brother, had I but bent a finger in favour of the Rommany chal, the plastramengro would never have come alive out of the lane; but I did not, for I thought to myself fair play is a precious stone; so you see, brother—'

'That you are quite right, Mr. Petulengro, I see that clearly; and now, pray proceed with your narration; it is both moral and entertaining.'

But Mr. Petulengro did not proceed with his narration, neither did he proceed upon his way; he had stopped his horse, and his eyes were intently fixed on a broad strip of grass beneath some lofty trees, on the left side of the road. It was a pleasant enough spot, and seemed to invite wayfaring people, such as we were, to rest from the fatigues of the road, and the heat and vehemence of the sun. After examining it for a considerable time, Mr. Petulengro said, 'I say, brother, that would be a nice place for a tussle!'

'I daresay it would,' said I, 'if two people were inclined to fight.'

'The ground is smooth,' said Mr. Petulengro; 'without holes or ruts, and the trees cast much shade. I don't think, brother, that we could find a better place,' said Mr. Petulengro, springing from his horse.

'But you and I don't want to fight!'

'Speak for yourself, brother,' said Mr. Petulengro. 'However, I will tell you how the matter stands. There is a point at present between us. There can be no doubt that you are the cause of Mrs. Herne's death, innocently, you will say, but still the cause. Now, I shouldn't like it to be known that I went up and down the country with a pal who was the cause of my mother-in-law's death, that's to say, unless he gave me satisfaction. Now, if I and my pal have a tussle, he gives me satisfaction; and, if he knocks my eyes out, which I know you can't do, it makes no difference at all, he gives me satisfaction; and he who says to the contrary knows nothing of gypsy law, and is a dinelo into the bargain.'

'But we have no gloves!'

'Gloves!' said Mr. Petulengro, contemptuously, 'gloves! I tell you what, brother, I always thought you were a better hand at the gloves than the naked fist; and, to tell you the truth, besides taking satisfaction for Mrs. Herne's death, I wish to see what you can do with your mawleys; so now is your time, brother, and this is your place, grass and shade, no ruts or holes; come on, brother, or I shall think you what I should not like to call you.'

 

 

Chapter 82

offence and defence—i'm satisfied—fond of solitude—possession of property—winding path

 

And when I heard Mr. Petulengro talk in this manner, which I had never heard him do before, and which I can only account for by his being fasting and ill-tempered, I had of course no other alternative than to accept his challenge; so I put myself into a posture which I deemed the best both for offence and defence, and the tussle commenced; and when it had endured for about half an hour, Mr. Petulengro said, 'Brother, there is much blood on your face; you had better wipe it off'; and when I had wiped it off, and again resumed my former attitude. Mr. Petulengro said, 'I think enough has been done, brother, in the affair of the old woman; I have, moreover, tried what you are able to do, and find you, as I thought, less apt with the naked mawleys than the stuffed gloves; nay, brother, put your hands down, I'm satisfied; blood has been shed, which is all that can be reasonably expected for an old woman who carried so much brimstone about her as Mrs. Herne.'

So the struggle ended, and we resumed our route, Mr. Petulengro sitting sideways upon his horse as before, and I driving my little pony-cart; and when we had proceeded about three miles, we came to a small public-house, which bore the sign of the Silent Woman, where we stopped to refresh our cattle and ourselves; and as we sat over our bread and ale, it came to pass that Mr. Petulengro asked me various questions, and amongst others, how I intended to dispose of myself; I told him that I did not know; whereupon, with considerable frankness, he invited me to his camp, and told me that if I chose to settle down amongst them, and become a Rommany chal, I should have his wife's sister Ursula, who was still unmarried, and occasionally talked of me.

I declined his offer, assigning as a reason the recent death of Mrs. Herne, of which I was the cause, although innocent. 'A pretty life I should lead with those two,' said I, 'when they came to know it.' 'Pooh,' said Mr. Petulengro, 'they will never know it. I shan't blab, and as for Leonora, that girl has a head on her shoulders.' 'Unlike the woman in the sign,' said I, 'whose head is cut off. You speak nonsense, Mr. Petulengro; as long as a woman has a head on her shoulders she'll talk,—but, leaving women out of the case, it is impossible to keep anything a secret; an old master of mine told me so long ago. I have moreover another reason for declining your offer. I am at present not disposed for society. I am become fond of solitude. I wish I could find some quiet place to which I could retire to hold communion with my own thoughts, and practise, if I thought fit, either of my trades.' 'What trades?' said Mr. Petulengro. 'Why, the one which I have lately been engaged in, or my original one, which I confess I should like better, that of a kaulo-mescro.' 'Ah, I have frequently heard you talk of making horse-shoes,' said Mr. Petulengro; 'I, however, never saw you make one, and no one else that I am aware; I don't believe—come, brother, don't be angry, it's quite possible that you may have done things which neither I nor any one else has seen you do, and that such things may some day or other come to light, as you say nothing can be kept secret. Be that, however, as it may, pay the reckoning and let us be going; I think I can advise you to just such a kind of place as you seem to want.'

'And how do you know that I have got wherewithal to pay the reckoning?' I demanded. 'Brother,' said Mr. Petulengro, 'I was just now looking in your face, which exhibited the very look of a person conscious of the possession of property; there was nothing hungry or sneaking in it. Pay the reckoning, brother.'

And when we were once more upon the road, Mr. Petulengro began to talk of the place which he conceived would serve me as a retreat under present circumstances. 'I tell you frankly, brother, that it is a queer kind of place, and I am not very fond of pitching my tent in it, it is so surprisingly dreary. It is a deep dingle in the midst of a large field, on an estate about which there has been a lawsuit for some years past. I daresay you will be quiet enough, for the nearest town is five miles distant, and there are only a few huts and hedge public-houses in the neighbourhood. Brother, I am fond of solitude myself, but not that kind of solitude; I like a quiet heath, where I can pitch my house, but I always like to have a gay stirring place not far off, where the women can pen dukkerin, and I myself can sell or buy a horse, if needful—such a place as the Chong Gav. I never feel so merry as when there, brother, or on the heath above it, where I taught you Rommany.'

Shortly after this discourse we reached a milestone, and a few yards from the milestone, on the left hand, was a cross-road. Thereupon Mr. Petulengro said, 'Brother, my path lies to the left; if you choose to go with me to my camp, good; if not, Chal Devlehi.' But I again refused Mr. Petulengro's invitation, and, shaking him by the hand, proceeded forward alone; and about ten miles farther on I reached the town of which he had spoken, and, following certain directions which he had given, discovered, though not without some difficulty, the dingle which he had mentioned. It was a deep hollow in the midst of a wide field; the shelving sides were overgrown with trees and bushes, a belt of sallows surrounded it on the top, a steep winding path led down into the depths, practicable, however, for a light cart, like mine; at the bottom was an open space, and there I pitched my tent, and there I contrived to put up my forge. 'I will here ply the trade of kaulomescro,' said I.

 

 

Chapter 83

highly poetical—volundr—grecian mythology—making a petul—spite of dukkerin—heaviness

 

It has always struck me that there is something highly poetical about a forge. I am not singular in this opinion: various individuals have assured me that they can never pass by one, even in the midst of a crowded town, without experiencing sensations which they can scarcely define, but which are highly pleasurable. I have a decided penchant for forges, especially rural ones, placed in some quaint quiet spot—a dingle, for example, which is a poetical place, or at a meeting of four roads, which is still more so; for how many a superstition—and superstition is the soul of poetry—is connected with these cross roads! I love to light upon such a one, especially after nightfall, as everything about a forge tells to most advantage at night; the hammer sounds more solemnly in the stillness; the glowing particles scattered by the strokes sparkle with more effect in the darkness, whilst the sooty visage of the sastramescro, half in shadow and half illumed by the red and partial blaze of the forge, looks more mysterious and strange. On such occasions I draw in my horse's rein, and, seated in the saddle, endeavour to associate with the picture before me—in itself a picture of romance—whatever of the wild and wonderful I have read of in books, or have seen with my own eyes in connection with forges.

I believe the life of any blacksmith, especially a rural one, would afford materials for a highly poetical history. I do not speak unadvisedly, having the honour to be free of the forge, and therefore fully competent to give an opinion as to what might be made out of the forge by some dexterous hand. Certainly, the strangest and most entertaining life ever written is that of a blacksmith of the olden north, a certain Volundr, or Velint, who lived in woods and thickets, made keen swords—so keen, indeed, that if placed in a running stream they would fairly divide an object, however slight, which was borne against them by the water, and who eventually married a king's daughter, by whom he had a son, who was as bold a knight as his father was a cunning blacksmith. I never see a forge at night, when seated on the back of my horse, at the bottom of a dark lane, but I somehow or other associate it with the exploits of this extraordinary fellow, with many other extraordinary things, amongst which, as I have hinted before, are particular passages of my own life, one or two of which I shall perhaps relate to the reader.

I never associate Vulcan and his Cyclops with the idea of a forge. These gentry would be the very last people in the world to flit across my mind whilst gazing at the forge from the bottom of the dark lane. The truth is, they are highly unpoetical fellows, as well they may be, connected as they are with the Grecian mythology. At the very mention of their names the forge burns dull and dim, as if snowballs had been suddenly flung into it; the only remedy is to ply the bellows, an operation which I now hasten to perform.

I am in the dingle making a horse-shoe. Having no other horses on whose hoofs I could exercise my art, I made my first essay on those of my own horse, if that could be called horse which horse was none, being only a pony. Perhaps, if I had sought all England, I should scarcely have found an animal more in need of the kind offices of the smith. On three of his feet there were no shoes at all, and on the fourth only a remnant of one, on which account his hoofs were sadly broken and lacerated by his late journeys over the hard and flinty roads. 'You belonged to a tinker before,' said I, addressing the animal, 'but now you belong to a smith. It is said that the household of the shoemaker invariably go worse shod than that of any other craft. That may be the case of those who make shoes of leather, but it shan't be said of the household of him who makes shoes of iron; at any rate it shan't be said of mine. I tell you what, my gry, whilst you continue with me, you shall both be better shod and better fed than you were with your last master.'

I am in the dingle making a petul; and I must here observe that whilst I am making a horse-shoe the reader need not be surprised if I speak occasionally in the language of the lord of the horse-shoe—Mr. Petulengro. I have for some time past been plying the peshota, or bellows, endeavouring to raise up the yag, or fire, in my primitive forge. The angar, or coals, are now burning fiercely, casting forth sparks and long vagescoe chipes, or tongues of flame; a small bar of sastra, or iron, is lying in the fire, to the length of ten or twelve inches, and so far it is hot, very hot, exceeding hot, brother. And now you see me prala, snatch the bar of iron, and place the heated end of it upon the covantza, or anvil, and forthwith I commence cooring the sastra as hard as if I had been just engaged by a master at the rate of dui caulor, or two shillings, a day, brother; and when I have beaten the iron till it is nearly cool, and my arm tired, I place it again in the angar, and begin again to rouse the fire with the pudamengro, which signifies the blowing thing, and is another and more common word for bellows; and whilst thus employed I sing a gypsy song, the sound of which is wonderfully in unison with the hoarse moaning of the pudamengro, and ere the song is finished, the iron is again hot and malleable. Behold, I place it once more on the covantza, and recommence hammering; and now I am somewhat at fault; I am in want of assistance; I want you, brother, or some one else, to take the bar out of my hand and support it upon the covantza, whilst I, applying a chinomescro, or kind of chisel, to the heated iron, cut off with a lusty stroke or two of the shukara baro, or big hammer, as much as is required for the petul. But having no one to help me, I go on hammering till I have fairly knocked off as much as I want, and then I place the piece in the fire, and again apply the bellows, and take up the song where I left it off; and when I have finished the song, I take out the iron, but this time with my plaistra, or pincers, and then I recommence hammering, turning the iron round and round with my pincers; and now I bend the iron and, lo and behold! it has assumed something of the outline of a petul.

I am not going to enter into further details with respect to the process—it was rather a wearisome one. I had to contend with various disadvantages; my forge was a rude one, my tools might have been better; I was in want of one or two highly necessary implements, but, above all, manual dexterity. Though free of the forge, I had not practised the albeytarian art for very many years, never since—but stay, it is not my intention to tell the reader, at least in this place, how and when I became a blacksmith. There was one thing, however, which stood me in good stead in my labour, the same thing which through life has ever been of incalculable utility to me, and has not unfrequently supplied the place of friends, money, and many other things of almost equal importance—iron perseverance, without which all the advantages of time and circumstance are of very little avail in any undertaking. I was determined to make a horse-shoe, and a good one, in spite of every obstacle—ay, in spite of dukkerin. At the end of four days, during which I had fashioned and refashioned the thing at least fifty times, I had made a petul such as no master of the craft need have been ashamed of; with the second shoe I had less difficulty, and, by the time I had made the fourth, I would have scorned to take off my hat to the best smith in Cheshire.

But I had not yet shod my little gry: this I proceeded now to do. After having first well pared the hoofs with my churi, I applied each petul hot, glowing hot, to the pindro. Oh, how the hoofs hissed! and, oh, the pleasant pungent odour which diffused itself through the dingle!—an odour good for an ailing spirit.

I shod the little horse bravely—merely pricked him once, slightly, with a cafi, for doing which, I remember, he kicked me down; I was not disconcerted, however, but, getting up, promised to be more cautious in future; and having finished the operation, I filed the hoof well with the rin baro, then dismissed him to graze amongst the trees, and, putting my smaller tools into the muchtar, I sat down on my stone, and, supporting my arm upon my knee, leaned my head upon my hand. Heaviness had come over me.

Monday, 2 December 2024

Monday's Illustrated Word: untitled story by Carl Barks (in English).

art & letters by Carl Barks -  Walt Disney's Christmas Parade #2 - Western, January 1964, originally printed in Four Color #367, Walt Disney's Donald Duck in A Christmas for Shacktown - Dell, January-February 1952.