Thursday, 12 December 2024

Thursday’s Serial: “ Le avventure di Pinocchio: Storia di un burattino” by Carlo Collodi (in Italian) - XI

 

XXXI. Dopo cinque mesi di cuccagna, Pinocchio con sua grande meraviglia sente spuntarsi un bel pajo d’orecchie asinine, e diventa un ciuchino, con la coda e tutto.

 

Finalmente il carro arrivò: e arrivò senza fare il più piccolo rumore, perchè le sue ruote erano fasciate di stoppa e di cenci.

Lo tiravano dodici pariglie di ciuchini, tutti della medesima grandezza, ma di diverso pelame.

Alcuni erano bigi, altri bianchi, altri brizzolati a uso pepe e sale, e altri rigati a grandi strisce gialle e turchine.

Ma la cosa più singolare era questa: che quelle dodici pariglie, ossia quei ventiquattro ciuchini, invece di essere ferrati come tutte le altre bestie da tiro o da soma, avevano ai piedi degli stivali da uomo di vacchetta bianca.

E il conduttore del carro?...

Figuratevi un omino più largo che lungo, tenero e untuoso come una palla di burro, con un visino di melarosa, una bocchina che rideva sempre e una voce sottile e carezzevole, come quella d’un gatto, che si raccomanda al buon cuore della padrona di casa. Tutti i ragazzi, appena lo vedevano, ne restavano innamorati e facevano a gara nel montare sul suo carro, per essere condotti da lui in quella vera cuccagna, conosciuta nella carta geografica col seducente nome di «Paese de’ balocchi.»

Difatti il carro era già tutto pieno di ragazzetti fra gli otto e i dodici anni, ammonticchiati gli uni sugli altri come tante acciughe nella salamoia. Stavano male, stavano pigiati, non potevano quasi respirare: ma nessuno diceva ohi! nessuno si lamentava. La consolazione di sapere che fra poche ore sarebbero giunti in un paese, dove non c’erano nè libri, nè scuole, nè maestri, li rendeva così contenti e rassegnati, che non sentivano nè i disagi, nè gli strapazzi, nè la fame, nè la sete, nè il sonno.

Appena che il carro si fu fermato, l’omino si volse a Lucignolo, e con mille smorfie e mille manierine, gli domandò sorridendo:

— Dimmi, mio bel ragazzo, vuoi venire anche tu, in quel fortunato paese?

— Sicuro, che ci voglio venire!

— Ma ti avverto, carino mio, che nel carro non c’è più posto. Come vedi, è tutto pieno!...

— Pazienza! — replicò Lucignolo, — se non c’è posto dentro, mi adatterò a star seduto sulle stanghe del carro. — E spiccato un salto, montò a cavalcioni sulle stanghe.

— E tu amor mio, — disse l’ omino volgendosi tutto complimentoso a Pinocchio — che intendi fare? Vieni con noi o rimani?…

— Io rimango — rispose Pinocchio. — Io voglio tornarmene a casa mia: voglio studiare e voglio farmi onore alla scuola, come fanno tutti i ragazzi perbene.

— Buon pro ti faccia!

— Pinocchio, — disse allora Lucignolo — dai retta a me: vieni con noi e staremo allegri!

— No, no, no!

— Vieni con noi e staremo allegri! — gridarono altre quattro voci di dentro al carro.

— Vieni con noi e staremo allegri! — urlarono tutte insieme un centinaio di voci.

— E se vengo con voi, che cosa dirà la mia buona Fata? — disse il burattino, che cominciava a intenerirsi e a ciurlare nel manico.

— Non ti fasciare il capo con tante melanconie. Pensa che andiamo in un paese dove saremo padroni di fare il chiasso dalla mattina alla sera! —

Pinocchio non rispose, ma fece un sospiro; poi fece un altro sospiro: poi un terzo sospiro: finalmente disse:

— Fatemi un po’ di posto: voglio venire anch’io!…

— I posti son tutti pieni; — replicò l’omino, — ma per mostrarti quanto sei gradito, posso cederti il mio posto a cassetta.

— E voi?

— E io farò la strada a piedi.

— No davvero, che non lo permetto. Preferisco piuttosto di salire in groppa a qualcuno di questi ciuchini! — gridò Pinocchio.

Detto fatto, si avvicinò al ciuchino manritto della prima pariglia, e fece l’atto di volerlo cavalcare: ma la bestiuola, voltandosi a secco, gli dètte una gran musata nello stomaco e lo gettò a gambe all’aria.

Figuratevi la risatona impertinente e sgangherata di tutti quei ragazzi presenti alla scena.

Ma l’omino non rise. Si accostò pieno di amorevolezza al ciuchino ribelle, e, facendo finta di dargli un bacio, gli staccò con un morso la metà dell’orecchio destro.

Intanto Pinocchio, rizzatosi da terra tutto infuriato, schizzò con un salto sulla groppa di quel povero animale. E il salto fu così bello, che i ragazzi, smesso di ridere, cominciarono a urlare: viva Pinocchio! e a fare una smanacciata di applausi, che non finivano più.

Quand’ecco che all’improvviso il ciuchino alzò tutt’e due le gambe di dietro, e dando una fortissima sgropponata, scaraventò il povero burattino in mezzo alla strada, sopra un monte di ghiaia.

Allora grandi risate daccapo: ma l’omino, invece di ridere, si sentì preso da tanto amore per quell’irrequieto asinello che, con un bacio, gli portò via di netto la metà di quell’altro orecchio. Poi disse al burattino:

— Rimonta pure a cavallo, e non aver paura. Quel ciuchino aveva qualche grillo per il capo: ma io gli ho detto due paroline negli orecchi, e spero di averlo reso mansueto e ragionevole. —

Pinocchio montò, e il carro cominciò a muoversi: ma nel tempo che i ciuchini galoppavano e che il carro correva sui ciottoli della via maestra, gli parve al burattino di sentire una voce sommessa e appena intelligibile, che gli disse:

— Povero gonzo! Hai voluto fare a modo tuo, ma te ne pentirai! —

Pinocchio, quasi impaurito, guardò di qua e di là, per conoscere da qual parte venissero queste parole; ma non vide nessuno: i ciuchini galoppavano, il carro correva, i ragazzi dentro al carro dormivano, Lucignolo russava come un ghiro e l’omino seduto a cassetta canterellava fra i denti:

 

Tutti la notte dormono

E io non dormo mai....

 

Fatto un altro mezzo chilometro, Pinocchio sentì la vocina fioca che gli disse:

— Tienlo a mente, grullerello! I ragazzi che smettono di studiare e voltano le spalle ai libri, alle scuole e ai maestri, per darsi interamente ai balocchi e ai divertimenti, non possono far altro che una fine disgraziata! Io lo so per prova, e te lo posso dire!... Verrà un giorno che piangerai anche tu, come oggi piango io.... ma allora sarà tardi!... ―

A queste parole bisbigliate sommessamente, il burattino, spaventato più che mai, saltò giù dalla groppa della cavalcatura, e andò a prendere il suo ciuchino per il muso.

E immaginatevi come restò, quando s’accòrse che il suo ciuchino piangeva.... e piangeva proprio come un ragazzo!

— Ehi, signor omino, — gridò allora Pinocchio al padrone del carro — sapete che cosa c’è di nuovo? Questo ciuchino piange.

— Lascialo piangere: riderà quando sarà sposo!

— Ma che forse gli avete insegnato anche a parlare?

— No: ha imparato da sè a borbottare qualche parola, essendo stato tre anni in una compagnia di cani ammaestrati.

— Povera bestia!...

— Via, via.... — disse l’omino — non perdiamo il nostro tempo a veder piangere un ciuco. Rimonta a cavallo, e andiamo: la nottata è fresca, e la strada è lunga. ―

Pinocchio obbedì senza rifiatare. Il carro riprese la sua corsa: e la mattina sul far dell’alba arrivarono felicemente nel «Paese dei Balocchi.»

Questo paese non somigliava a nessun altro paese del mondo. La sua popolazione era tutta composta di ragazzi. I più vecchi avevano 14 anni: i più giovani ne avevano 8 appena. Nelle strade, un’allegria, un chiasso, uno strillìo da levar di cervello! Branchi di monelli da per tutto: chi giocava alle noci, chi alle piastrelle, chi alla palla, chi andava in velocipede, chi sopra a un cavallino di legno: questi facevano a moscacieca; quegli altri si rincorrevano: altri, vestiti da pagliacci, mangiavano la stoppa accesa: chi recitava, chi cantava, chi faceva i salti mortali, chi si divertiva a camminare colle mani in terra e colle gambe in aria: chi mandava il cerchio, chi passeggiava vestito da generale coll’elmo di foglio e lo squadrone di cartapesta: chi rideva, chi urlava, chi chiamava, chi batteva le mani, chi fischiava, chi rifaceva il verso alla gallina quando ha fatto l’ovo: insomma un tal pandemonio, un tal passeraio, un tal baccano indiavolato, da doversi mettere il cotone negli orecchi per non rimanere assorditi. Su tutte le piazze si vedevano teatrini di tela, affollati di ragazzi dalla mattina alla sera, e su tutti i muri delle case si leggevano scritte col carbone delle bellissime cose come queste: viva i balocci! (invece di balocchi): non voglamo più schole (invece di non vogliamo più scuole): abbasso Larin Metica (invece di aritmetica) e altri fiori consimili.

Pinocchio, Lucignolo e tutti gli altri ragazzi, che avevano fatto il viaggio coll’omino, appena ebbero messo il piede dentro la città, si ficcarono subito in mezzo alla gran baraonda, e in pochi minuti, com’è facile immaginarselo, diventarono gli amici di tutti. Chi più felice, chi più contento di loro? In mezzo ai continui spassi e agli svariati divertimenti, le ore, i giorni, le settimane, passavano come tanti baleni.

— Oh! che bella vita! — diceva Pinocchio tutte le volte che per caso s’imbatteva in Lucignolo.

— Vedi, dunque, se avevo ragione? — ripigliava quest’ultimo. — E dire che tu non volevi partire! E pensare che t’eri messo in capo di tornartene a casa dalla tua Fata, per perdere il tempo a studiare! Se oggi ti sei liberato dalla noia dei libri e delle scuole, lo devi a me, ai miei consigli, alle mie premure, ne convieni? Non vi sono che i veri amici, che sappiano rendere di questi grandi favori.

— È vero, Lucignolo! Se oggi io sono un ragazzo veramente contento, è tutto merito tuo. E il maestro, invece, sai che cosa mi diceva, parlando di te? Mi diceva sempre: «Non praticare quella birba di Lucignolo, perchè Lucignolo è un cattivo compagno, e non può consigliarti altro che a far del male!...»

— Povero maestro! — replicò l’altro tentennando il capo. — Lo so pur troppo che mi aveva a noia, e che si divertiva sempre a calunniarmi; ma io sono generoso e gli perdono!

— Anima grande! — disse Pinocchio abbracciando affettuosamente l’amico, e dandogli un bacio in mezzo agli occhi.

Intanto era già da cinque mesi che durava questa bella cuccagna di baloccarsi e di divertirsi le giornate intere, senza mai vedere in faccia nè un libro nè una scuola; quando una mattina Pinocchio, svegliandosi, ebbe, come si suol dire, una gran brutta sorpresa, che lo messe proprio di malumore.

 

 

XXXII. A Pinocchio gli vengono gli orecchi di ciuco, e poi diventa un ciuchino vero e comincia a ragliare.

 

E questa sorpresa quale fu?

Ve lo dirò io, miei cari e piccoli lettori: la sorpresa fu che Pinocchio, svegliandosi, gli venne fatto naturalmente di grattarsi il capo; e nel grattarsi il capo si accòrse....

Indovinate un po’ di che cosa si accòrse?

Si accòrse, con suo grandissimo stupore, che gli orecchi gli erano cresciuti più d’un palmo.

Voi sapete che il burattino, fin dalla nascita, aveva gli orecchi piccini piccini: tanto piccini che, a occhio nudo, non si vedevano neppure! Immaginatevi dunque come restò, quando dovè toccar con mano che i suoi orecchi, durante la notte, erano così allungati, che parevano due spazzole di padule. Andò subito in cerca di uno specchio, per potersi vedere: ma non trovando uno specchio, empì d’acqua la catinella del lavamano, e specchiandovisi dentro, vide quel che non avrebbe mai voluto vedere: vide, cioè, la sua immagine abbellita di un magnifico paio di orecchi asinini.

Lascio pensare a voi il dolore, la vergogna e la disperazione del povero Pinocchio!

Cominciò a piangere, a strillare, a battere la testa nel muro: ma quanto più si disperava, e più i suoi orecchi crescevano, crescevano, crescevano e diventavano pelosi verso la cima.

Al rumore di quelle grida acutissime, entrò nella stanza una bella Marmottina, che abitava il piano di sopra: la quale, vedendo il burattino in così grandi smanie, gli domandò premurosamente:

— Che cos’hai, mio caro casigliano?

— Sono malato, Marmottina mia, molto malato.... e malato d’una malattia che mi fa paura! te ne intendi tu del polso?

— Un pochino.

— Senti dunque se per caso avessi la febbre. ―

La Marmottina alzò la zampa destra davanti: e dopo aver tastato il polso a Pinocchio, gli disse sospirando:

— Amico mio, mi dispiace doverti dare una cattiva notizia!…

— Cioè?

— Tu hai una gran brutta febbre!

— E che febbre sarebbe?

— Non la capisco questa febbre! — rispose il burattino, che l’aveva pur troppo capita.

— Allora te la spiegherò io; — soggiunse la Marmottina — sappi dunque, che fra due o tre ore tu non sarai più nè un burattino, nè un ragazzo....

— E che cosa sarò?

— Fra due o tre ore, tu diventerai un ciuchino vero e proprio, come quelli che tirano il carretto e che portano i cavoli e l’insalata al mercato.

— Oh! povero me! povero me! — gridò Pinocchio pigliandosi con le mani tutt’e due gli orecchi, e tirandoli e strappandoli rabbiosamente, come se fossero gli orecchi di un altro.

— Caro mio, — replicò la Marmottina per consolarlo — che cosa ci vuoi tu fare? Oramai è destino, oramai è scritto nei decreti della sapienza, che tutti quei ragazzi svogliati che, pigliando a noia i libri, le scuole e i maestri, passano le loro giornate in balocchi, in giuochi e in divertimenti, debbano finire prima o poi col trasformarsi in tanti piccoli somari.

— Ma davvero è proprio così? — domandò singhiozzando il burattino.

— Pur troppo è così! E ora i pianti sono inutili. Bisognava pensarci prima!

— Ma la colpa non è mia: la colpa, credilo, Marmottina, è tutta di Lucignolo!…

— E chi è questo Lucignolo?

— Un mio compagno di scuola. Io volevo tornare a casa: io volevo essere ubbidiente: io volevo seguitare a studiare e a farmi onore.... ma Lucignolo mi disse: ― «Perchè vuoi tu annoiarti a studiare? perchè vuoi andare alla scuola?… Vieni piuttosto con me, nel Paese dei balocchi: lì non studieremo più: lì ci divertiremo dalla mattina alla sera e staremo sempre allegri.»

— E perchè seguisti il consiglio di quel falso amico, di quel cattivo compagno?

— Perchè?… perchè, Marmottina mia, io sono un burattino senza giudizio.... e senza cuore. Oh! se avessi avuto un zinzino di cuore, non avrei mai abbandonata quella buona Fata, che mi voleva bene come una mamma e che aveva fatto tanto per me!… e a quest’ora non sarei più un burattino.... ma sarei invece un ragazzino ammodo, come ce n’è tanti! Oh!… ma se incontro Lucignolo, guai a lui! Gliene voglio dire un sacco e una sporta. ―

E fece l’atto di volere uscire. Ma quando fu sulla porta, si ricordò che aveva gli orecchi d’asino, e vergognandosi di mostrarli in pubblico, che cosa inventò? Preso un gran berretto di cotone, e, ficcatoselo in testa, se lo ingozzò fin sotto gli orecchi.

Poi uscì, e si dette a cercare Lucignolo da per tutto. Lo cercò nelle strade, nelle piazze, nei teatrini, in ogni luogo: ma non lo trovò. Ne chiese notizia a quanti incontrò per la via, ma nessuno l’aveva veduto.

Allora andò a cercarlo a casa: e arrivato alla porta, bussò.

— Chi è? — domandò Lucignolo di dentro.

— Sono io! — rispose il burattino.

— Aspetta un poco, e ti aprirò. ―

Dopo mezz’ora la porta si aprì: e figuratevi come restò Pinocchio quando, entrando nella stanza, vide il suo amico Lucignolo con un gran berretto di cotone in testa, che gli scendeva fin sotto il naso.

Alla vista di quel berretto, Pinocchio sentì quasi consolarsi e pensò subito dentro di sè:

― Che l’amico sia malato della mia medesima malattia? Che abbia anche lui la febbre del ciuchino?… ―

E facendo finta di non essersi accorto di nulla, gli domandò sorridendo:

— Come stai, mio caro Lucignolo?

— Benissimo: come un topo in una forma di cacio parmigiano.

— Lo dici proprio sul serio?

— E perchè dovrei dirti una bugia?

― Scusami, amico: e allora perchè tieni in capo cotesto berretto di cotone, che ti cuopre tutti gli orecchi?

— Me l’ha ordinato il medico, perchè mi son fatto male a un ginocchio. E tu, caro Pinocchio, perchè porti codesto berretto di cotone ingozzato fin sotto gli orecchi?

— Me l’ha ordinato il medico, perchè mi sono sbucciato un piede.

— Oh! povero Pinocchio!…

— Oh! povero Lucignolo!… ―

A queste parole tenne dietro un lunghissimo silenzio, durante il quale i due amici non fecero altro che guardarsi fra loro, in atto di canzonatura.

Finalmente il burattino, con una vocina melliflua e flautata, disse al suo compagno:

— Levami una curiosità, mio caro Lucignolo: hai mai sofferto di malattia agli orecchi?

— Mai!… e tu?

— Mai! Per altro da questa mattina in poi ho un orecchio che mi fa spasimare.

— Ho lo stesso male anch’io.

— Anche tu?… E qual è l’orecchio che ti duole?

— Tutt’e due. E tu?

— Tutt’e due. Che sia la medesima malattia?

— Ho paura di sì.

— Vuoi farmi un piacere, Lucignolo?

— Volentieri! Con tutto il cuore.

— Mi fai vedere i tuoi orecchi?

— Perchè no? Ma prima voglio vedere i tuoi, caro Pinocchio.

— No: il primo devi esser tu.

— No, carino! Prima tu e dopo io!

— Ebbene, — disse allora il burattino — facciamo un patto da buoni amici.

— Sentiamo il patto.

— Leviamoci tutt’e due il berretto nello stesso tempo: accetti?

— Accetto.

— Dunque attenti!―

E Pinocchio cominciò a contare a voce alta:

— Uno! Due! Tre!―

Alla parola tre! i due ragazzi presero i loro berretti di capo e li gettarono in aria.

E allora avvenne una scena, che parrebbe incredibile, se non fosse vera. Avvenne, cioè, che Pinocchio e Lucignolo, quando si videro colpiti tutt’e due dalla medesima disgrazia, invece di restar mortificati e dolenti, cominciarono ad ammiccarsi i loro orecchi smisuratamente cresciuti, e dopo mille sguaiataggini finirono col dare una bella risata.

E risero, risero, risero da doversi reggere il corpo: se non che, sul più bello del ridere, Lucignolo tutt’a un tratto si chetò, e barcollando e cambiando di colore, disse all’amico:

— Aiuto, aiuto, Pinocchio!

— Che cos’hai?

— Ohimè! non mi riesce più di star ritto sulle gambe.

— Non mi riesce più neanche a me — gridò Pinocchio, piangendo e traballando.

E mentre dicevano così, si piegarono tutt’e due carponi a terra e, camminando colle mani e coi piedi, cominciarono a girare e a correre per la stanza. E intanto che correvano, i loro bracci diventarono zampe, i loro visi si allungarono e diventarono musi, e le loro schiene si coprirono di un pelame grigiolino chiaro, brizzolato di nero.

Ma il momento più brutto per que’ due sciagurati sapete quando fu? Il momento più brutto e più umiliante fu quello quando sentirono spuntarsi di dietro la coda. Vinti allora dalla vergogna e dal dolore, si provarono a piangere e a lamentarsi del loro destino.

Non l’avessero mai fatto! Invece di gemiti e di lamenti, mandavano fuori dei ragli asinini: e ragliando sonoramente, facevano tutt’e due in coro: j-a, j-a, j-a.

In quel frattempo fu bussato alla porta, e una voce di fuori disse:

— Aprite! Sono l’omino, sono il conduttore del carro che vi portò in questo paese. Aprite subito, guai a voi! —

 

 

XXXIII. Diventato un ciuchino vero è portato a vendere, e lo compra il Direttore di una compagnia di pagliacci, per insegnargli a ballare e saltare i cerchi: ma una sera azzoppisce e allora lo ricompra un altro, per far con la sua pelle un tamburo.

 

Vedendo che la porta non si apriva, l’omino la spalancò con un violentissimo calcio: ed entrato nella stanza, disse col suo solito risolino a Pinocchio e a Lucignolo:

— Bravi ragazzi! Avete ragliato bene; io vi ho subito riconosciuti alla voce, e per questo eccomi qui. —

A tali parole i due ciuchini rimasero mogi mogi, colla testa giù, con gli orecchi bassi e con la coda fra le gambe.

Da principio l’omino li lisciò, li accarezzò, li palpeggiò: poi, tirata fuori la striglia, cominciò a strigliarli per bene.

E quando a furia di strigliarli, li ebbe fatti lustri come due specchi, allora messe loro la cavezza e li condusse sulla piazza del mercato, con la speranza di venderli e di beccarsi un discreto guadagno.

E i compratori, difatti, non si fecero aspettare.

Lucignolo fu comprato da un contadino, a cui era morto il somaro il giorno avanti, e Pinocchio fu venduto al Direttore di una compagnia di pagliacci e di saltatori di corda, il quale lo comprò per ammaestrarlo e per farlo poi saltare e ballare insieme con le altre bestie della compagnia.

E ora avete capito, miei piccoli lettori, qual era il bel mestiere che faceva l’omino? Questo brutto mostriciattolo, che aveva la fisionomia tutta di latte e miele, andava di tanto in tanto con un carro a girare per il mondo; strada facendo raccoglieva con promesse e con moine tutti i ragazzi svogliati, che avevano a noia i libri e le scuole; e dopo averli caricati sul suo carro, li conduceva nel «Paese dei balocchi» perchè passassero tutto il loro tempo in giuochi, in chiassate e in divertimenti. Quando poi quei poveri ragazzi illusi, a furia di baloccarsi sempre e di non studiare mai, diventavano tanti ciuchini, allora tutto allegro e contento s’impadroniva di loro e li portava a vendere sulle fiere e sui mercati. E così in pochi anni aveva fatto fior di quattrini ed era diventato milionario.

Quel che accadesse di Lucignolo, non lo so: so per altro, che Pinocchio andò incontro fin dai primi giorni a una vita durissima e strapazzata.

Quando fu condotto nella stalla, il nuovo padrone gli empì la greppia di paglia: ma Pinocchio, dopo averne assaggiata una boccata, la risputò.

Allora il padrone, brontolando, gli empì la greppia di fieno: ma neppure il fieno gli piacque.

— Ah! non ti piace neppure il fieno? — gridò il padrone imbizzito. — Lascia fare, ciuchino bello, che se hai dei capricci per il capo, penserò io a levarteli!... ―

E a titolo di correzione, gli affibbiò subito una frustata nelle gambe.

Pinocchio, dal gran dolore, cominciò a piangere e a ragliare, e ragliando, disse:

— J-a, j-a, la paglia non la posso digerire!…

— Allora mangia il fieno! — replicò il padrone che intendeva benissimo il dialetto asinino.

— J-a, j-a, il fieno mi fa dolere il corpo!…

— Pretenderesti, dunque, che un somaro, pari tuo, lo dovessi mantenere a petti di pollo e cappone in galantina? — soggiunse il padrone arrabbiandosi sempre più, e affibbiandogli una seconda frustata.

A quella seconda frustata Pinocchio, per prudenza, si chetò subito, e non disse altro.

Intanto la stalla fu chiusa e Pinocchio rimase solo: e perchè erano molte ore che non aveva mangiato, cominciò a sbadigliare dal grande appetito. E, sbadigliando, spalancava una bocca che pareva un forno.

Alla fine, non trovando altro nella greppia, si rassegnò a masticare un po’ di fieno; e dopo averlo masticato ben bene, chiuse gli occhi e lo tirò giù.

— Questo fieno non è cattivo; — poi disse dentro di sè — ma quanto sarebbe stato meglio che avessi continuato a studiare!… A quest’ora, invece di fieno potrei mangiare un cantuccio di pan fresco e una bella fetta di salame! Pazienza!… ―

La mattina dopo, svegliandosi, cercò subito nella greppia un altro po’ di fieno: ma non lo trovò perchè l’aveva mangiato tutto nella notte.

Allora prese una boccata di paglia tritata: e in quel mentre che la stava masticando, si dovè persuadere che il sapore della paglia tritata non somigliava punto nè al risotto alla milanese nè ai maccheroni alla napoletana.

— Pazienza! — ripetè, continuando a masticare. — Che almeno la mia disgrazia possa servire di lezione a tutti i ragazzi disobbedienti e che non hanno voglia di studiare. Pazienza!… pazienza!

— Pazienza un corno! — urlò il padrone, entrando in quel momento nella stalla. — Credi forse, mio bel ciuchino, ch’io ti abbia comprato unicamente per darti da bere e da mangiare? Io ti ho comprato perchè tu lavori e perchè tu mi faccia guadagnare molti quattrini. Su, dunque, da bravo! Vieni con me nel Circo, e là ti insegnerò a saltare i cerchi, a rompere col capo le botti di foglio e a ballare il valzer e la polca, stando ritto sulle gambe di dietro. ―

Il povero Pinocchio, per amore o per forza, dovè imparare tutte queste bellissime cose; ma, per impararle, gli ci vollero tre mesi di lezioni, e molte frustate da levare il pelo.

Venne finalmente il giorno, in cui il suo padrone potè annunziare uno spettacolo veramente straordinario. I cartelloni di vario colore, attaccati alle cantonate delle strade, dicevano così:

Quella sera, come potete figurarvelo, un’ora prima che cominciasse lo spettacolo, il teatro era pieno stipato.

Non si trovava più nè una poltrona, nè un posto distinto, nè un palco, nemmeno a pagarlo a peso d’oro.

Le gradinate del Circo formicolavano di bambini, di bambine e di ragazzi di tutte le età, che avevano la febbre addosso per la smania di veder ballare il famoso ciuchino Pinocchio.

Finita la prima parte dello spettacolo, il direttore della compagnia, vestito in giubba nera, calzoni bianchi a coscia e stivaloni di pelle fin sopra ai ginocchi, si presentò all’affollatissimo pubblico, e, fatto un grande inchino, recitò con molta solennità il seguente spropositato discorso:

«Rispettabile pubblico, cavalieri e dame!

«L’umile sottoscritto essendo di passaggio per questa illustre metropolitana, ho voluto procrearmi l’onore nonchè il piacere di presentare a questo intelligente e cospicuo uditorio un celebre ciuchino, che ebbe già l’onore di ballare al cospetto di sua maestà l’imperatore di tutte le principali corti d’Europa.

«E col ringraziandoli, aiutateci della vostra animatrice presenza e compatiteci!»

Questo discorso fu accolto da molte risate e da molti applausi: ma gli applausi raddoppiarono e diventarono una specie di uragano alla comparsa del ciuchino Pinocchio in mezzo al Circo. Egli era tutto agghindato a festa. Aveva una briglia nuova di pelle lustra, con fibbie e borchie d’ottone; due camelie bianche agli orecchi: la criniera divisa in tanti riccioli legati con fiocchettini di seta rossa: una gran fascia d’oro e d’argento attraverso alla vita, e la coda tutta intrecciata con nastri di velluto paonazzo e celeste. Era, insomma, un ciuchino da innamorare!

Il direttore, nel presentarlo al pubblico, aggiunse queste parole:

«Miei rispettabili auditori! Non starò qui a farvi menzogne delle grandi difficoltà da me soppressate per comprendere e soggiogare questo mammifero, mentre pascolava liberamente di montagna in montagna nelle pianure della zona torrida. Osservate, vi prego, quanta selvaggina trasudi da’ suoi occhi, conciossiachè essendo riusciti vanitosi tutti i mezzi per addomesticarlo al vivere dei quadrupedi civili, ho dovuto più volte ricorrere all’affabile dialetto della frusta. Ma ogni mia gentilezza invece di farmi da lui benvolere, me ne ha maggiormente cattivato l’animo. Io però, seguendo il sistema di Galles, trovai nel suo cranio una piccola cartagine ossea che la stessa Facoltà Medicea di Parigi riconobbe esser quello il bulbo rigeneratore dei capelli e della danza pirrica. E per questo io lo volli ammaestrare nel ballo nonchè nei relativi salti dei cerchi e delle botti foderate di foglio. Ammiratelo, e poi giudicatelo! Prima però di prendere cognato da voi, permettete, o signori, che io v’inviti al diurno spettacolo di domani sera: ma nell’apoteosi che il tempo piovoso minacciasse acqua, allora lo spettacolo, invece di domani sera, sarà posticipato a domattina, alle ore 11 antimeridiane del pomeriggio.»

E qui il Direttore fece un’altra profondissima riverenza: quindi volgendosi a Pinocchio, gli disse:

— Animo, Pinocchio! Avanti di dar principio ai vostri esercizi, salutate questo rispettabile pubblico, cavalieri, dame e ragazzi! ―

Pinocchio ubbidiente piegò subito i due ginocchi davanti, e rimase inginocchiato fino a tanto che il Direttore, schioccando la frusta, non gli gridò:

— Al passo! ―

Allora il ciuchino si rizzò sulle quattro gambe, e cominciò a girare intorno al Circo, camminando sempre di passo.

Dopo un poco il Direttore gridò:

— Al trotto! — E Pinocchio, ubbidiente al comando, cambiò il passo in trotto.

— Al galoppo! — e Pinocchio staccò il galoppo.

— Alla carriera! — e Pinocchio si dette a correre di gran carriera. Ma in quella che correva come un barbero, il Direttore, alzando il braccio in aria, scaricò un colpo di pistola.

A quel colpo il ciuchino, fingendosi ferito, cadde disteso nel Circo, come se fosse moribondo davvero.

Rizzatosi da terra in mezzo a uno scoppio di applausi, d’urli e di battimani, che andavano alle stelle, gli venne naturalmente di alzare la testa e di guardare in su.... e guardando vide in un palco una bella signora, che aveva al collo una grossa collana d’oro, dalla quale pendeva un medaglione. Nel medaglione c’era dipinto il ritratto d’un burattino.

— Quel ritratto è il mio!… quella signora è la Fata! — disse dentro di sè Pinocchio, riconoscendola subito: e lasciandosi vincere dalla gran contentezza, si provò a gridare:

— Oh Fatina mia! oh Fatina mia! ―

Ma invece di queste parole, gli uscì dalla gola un raglio così sonoro e prolungato, che fece ridere tutti gli spettatori, e segnatamente tutti i ragazzi che erano in teatro.

Allora il Direttore, per insegnargli e per fargli intendere che non è buona creanza mettersi a ragliare in faccia al pubblico, gli diè col manico della frusta una bacchettata sul naso.

Il povero ciuchino tirato fuori un palmo di lingua, durò a leccarsi il naso almeno cinque minuti, credendo forse così di rasciugarsi il dolore che aveva sentito.

Ma quale fu la sua disperazione quando, voltandosi in su una seconda volta, vide che il palco era vuoto e che la Fata era sparita!…

Si sentì come morire: gli occhi gli si empirono di lacrime e cominciò a piangere dirottamente. Nessuno però se ne accòrse, e, meno degli altri, il Direttore, il quale, anzi, schioccando la frusta, gridò:

— Da bravo, Pinocchio! Ora farete vedere a questi signori con quanta grazia sapete saltare i cerchi. ―

Pinocchio si provò due o tre volte: ma ogni volta che arrivava davanti al cerchio, invece di attraversarlo, ci passava più comodamente di sotto. Alla fine spiccò un salto e l’attraversò: ma le gambe di dietro gli rimasero disgraziatamente impigliate nel cerchio: motivo per cui ricadde in terra dall’altra parte tutto in un fascio.

Quando si rizzò, era azzoppito, e a mala pena potè ritornare alla scuderia.

— Fuori Pinocchio! Vogliamo il ciuchino! Fuori il ciuchino! — gridavano i ragazzi dalla platea, impietositi e commossi al tristissimo caso.

Ma il ciuchino per quella sera non si fece più vedere.

La mattina dopo il veterinario, ossia il medico delle bestie, quando l’ebbe visitato, dichiarò che sarebbe rimasto zoppo per tutta la vita.

Allora il Direttore disse al suo garzone di stalla:

— Che vuoi tu che mi faccia d’un somaro zoppo?

Sarebbe un mangiapane a ufo. Portalo dunque in piazza e rivendilo. ―

Arrivati in piazza, trovarono subito il compratore, il quale domandò al garzone di stalla:

— Quanto vuoi di cotesto ciuchino zoppo?

— Venti lire.

— Io ti do venti soldi. Non credere che io lo compri per servirmene: lo compro unicamente per la sua pelle. Vedo che ha la pelle molto dura, e con la sua pelle voglio fare un tamburo per la banda musicale del mio paese. ―

Lascio pensare a voi, ragazzi, il bel piacere che fu per il povero Pinocchio, quando sentì che era destinato a diventare un tamburo!

Fatto sta che il compratore, appena pagati i venti soldi, condusse il ciuchino sopra uno scoglio ch’era sulla riva del mare; e messogli un sasso al collo e legatolo per una zampa con una fune che teneva in mano, gli diè improvvisamente uno spintone e lo gettò nell’acqua.

Pinocchio, con quel macigno al collo, andò subito a fondo; e il compratore, tenendo sempre stretta in mano la fune, si pose a sedere sullo scoglio, aspettando che il ciuchino avesse tutto il tempo di morire affogato, per poi scorticarlo e levargli la pelle.

Wednesday, 11 December 2024

Wednesday's Good Reading: "A Rosa" by Narcisa Amália (in Portuguese).

 

Que impia mão te ceifou no ardor da sesta

Rosa de amor, rosa purpúrea e bela?

ALMEIDA GARRETT

 

Um dia em que perdida nas trevas da existência

Sem risos festivais, sem crenças de futuro,

Tentava do passado entrar no templo escuro,

Fitando a torva aurora de minha adolescência.

 

Volvi meu passo incerto à solidão do campo,

Lá onde não penetra o estrepitar do mundo;

Lá onde doura a luz o báratro profundo,

E a pálida lanterna acende o pirilampo.

 

E vi airosa erguer-se, por sobre a mole alfombra,

De uma roseira agreste a mais brilhante filha!

De púrpura e perfumes — a ignota maravilha,

Sentindo-se formosa, fugia à meiga sombra!

 

Ai, louca! Procurando o sol que abrasa tudo

Gazil se desatava à beira do caminho;

E o sol, ébrio de amor, no férvido carinho

Crestava-lhe o matiz do colo de veludo!

 

A flor dizia exausta à viração perdida:

“Ah! minha doce amiga abranda o ardor do raio!

Não vês? Jovem e bela eu sinto que desmaio

E em breve rolarei no solo já sem vida!

 

Ao casto peito uni a abelha em mil delírios

Sedenta de esplendor, vaidosa de meu brilho;

E agora embalde invejo o viço do junquilho,

E agora embalde imploro a candidez dos lírios!

 

Só me resta morrer! Ditosa a borboleta

Que agita as áureas asas e paira sobre a fonte;

Na onda perfumosa embebe a linda fronte

E goza almo frescor na balsa predileta!”

 

E a viração passou. E a flor abandonada

Ao sol tentou velar a face amortecida;

Mas do cálix gentil a pétala ressequida

Sobre a espiral de olores rolou no pó da estrada!

 

Assim da juventude se rasga o flóreo véu

E do talento a estátua no pedestal vacila;

Assim da mente esvai-se a ideia que cintila

E apenas resta ao crente — extremo asilo — o céu!

Tuesday, 10 December 2024

Tuesday's Serial: “Lavengro” by George Borrow (in English) - XLIII

 

Chapter 84

several causes—frogs and eftes—gloom and twilight—what should i do?—"our father"—fellow-men—what a mercy!—history of saul—pitch dark

 

Heaviness had suddenly come over me, heaviness of heart, and of body also. I had accomplished the task which I had imposed upon myself, and now that nothing more remained to do, my energies suddenly deserted me, and I felt without strength, and without hope. Several causes, perhaps, co-operated to bring about the state in which I then felt myself. It is not improbable that my energies had been overstrained during the work the progress of which I have attempted to describe; and every one is aware that the results of overstrained energies are feebleness and lassitude—want of nourishment might likewise have something to do with it. During my sojourn in the dingle, my food had been of the simplest and most unsatisfying description, by no means calculated to support the exertion which the labour I had been engaged upon required; it had consisted of coarse oaten cakes and hard cheese, and for beverage I had been indebted to a neighbouring pit, in which, in the heat of the day, I frequently saw, not golden or silver fish, but frogs and eftes swimming about. I am, however, inclined to believe that Mrs. Herne's cake had quite as much to do with the matter as insufficient nourishment. I had never entirely recovered from the effects of its poison, but had occasionally, especially at night, been visited by a grinding pain in the stomach, and my whole body had been suffused with cold sweat; and indeed these memorials of the drow have never entirely disappeared—even at the present time they display themselves in my system, especially after much fatigue of body and excitement of mind. So there I sat in the dingle upon my stone, nerveless and hopeless, by whatever cause or causes that state had been produced—there I sat with my head leaning upon my hand, and so I continued a long, long time. At last I lifted my head from my hand, and began to cast anxious, unquiet looks about the dingle—the entire hollow was now enveloped in deep shade—I cast my eyes up; there was a golden gleam on the tops of the trees which grew towards the upper parts of the dingle; but lower down all was gloom and twilight—yet, when I first sat down on my stone, the sun was right above the dingle, illuminating all its depths by the rays which it cast perpendicularly down—so I must have sat a long, long time upon my stone. And now, once more, I rested my head upon my hand, but almost instantly lifted it again in a kind of fear, and began looking at the objects before me—the forge, the tools, the branches of the trees, endeavouring to follow their rows, till they were lost in the darkness of the dingle; and now I found my right hand grasping convulsively the three fore-fingers of the left, first collectively, and then successively, wringing them till the joints cracked; then I became quiet, but not for long.

Suddenly I started up, and could scarcely repress the shriek which was rising to my lips. Was it possible? Yes, all too certain; the evil one was upon me; the inscrutable horror which I had felt in my boyhood had once more taken possession of me. I had thought that it had forsaken me—that it would never visit me again; that I had outgrown it; that I might almost bid defiance to it; and I had even begun to think of it without horror, as we are in the habit of doing of horrors of which we conceive we run no danger; and lo! when least thought of, it had seized me again. Every moment I felt it gathering force, and making me more wholly its own. What should I do?—resist, of course; and I did resist. I grasped, I tore, and strove to fling it from me; but of what avail were my efforts? I could only have got rid of it by getting rid of myself: it was a part of myself, or rather it was all myself. I rushed amongst the trees, and struck at them with my bare fists, and dashed my head against them, but I felt no pain. How could I feel pain with that horror upon me? And then I flung myself on the ground, gnawed the earth, and swallowed it; and then I looked round; it was almost total darkness in the dingle, and the darkness added to my horror. I could no longer stay there; up I rose from the ground, and attempted to escape. At the bottom of the winding path which led up the acclivity, I fell over something which was lying on the ground; the something moved, and gave a kind of whine. It was my little horse, which had made that place its lair; my little horse; my only companion and friend in that now awful solitude. I reached the mouth of the dingle; the sun was just sinking in the far west behind me, the fields were flooded with his last gleams. How beautiful everything looked in the last gleams of the sun! I felt relieved for a moment; I was no longer in the horrid dingle. In another minute the sun was gone, and a big cloud occupied the place where he had been: in a little time it was almost as dark as it had previously been in the open part of the dingle. My horror increased; what was I to do?—it was of no use fighting against the horror—that I saw; the more I fought against it, the stronger it became. What should I do; say my prayers? Ah! why not? So I knelt down under the hedge, and said, 'Our Father'; but that was of no use; and now I could no longer repress cries—the horror was too great to be borne. What should I do? run to the nearest town or village, and request the assistance of my fellow-men? No! that I was ashamed to do; notwithstanding the horror was upon me, I was ashamed to do that. I knew they would consider me a maniac, if I went screaming amongst them; and I did not wish to be considered a maniac. Moreover, I knew that I was not a maniac, for I possessed all my reasoning powers, only the horror was upon me—the screaming horror! But how were indifferent people to distinguish between madness and the screaming horror? So I thought and reasoned; and at last I determined not to go amongst my fellow-men, whatever the result might be. I went to the mouth of the dingle, and there, placing myself on my knees, I again said the Lord's Prayer; but it was of no use—praying seemed to have no effect over the horror; the unutterable fear appeared rather to increase than diminish, and I again uttered wild cries, so loud that I was apprehensive they would be heard by some chance passenger on the neighbouring road; I therefore went deeper into the dingle. I sat down with my back against a thorn bush; the thorns entered my flesh, and when I felt them, I pressed harder against the bush; I thought the pain of the flesh might in some degree counteract the mental agony; presently I felt them no longer—the power of the mental horror was so great that it was impossible, with that upon me, to feel any pain from the thorns. I continued in this posture a long time, undergoing what I cannot describe, and would not attempt if I were able. Several times I was on the point of starting up and rushing anywhere; but I restrained myself, for I knew I could not escape from myself, so why should I not remain in the dingle? So I thought and said to myself, for my reasoning powers were still uninjured. At last it appeared to me that the horror was not so strong, not quite so strong, upon me. Was it possible that it was relaxing its grasp, releasing its prey? Oh what a mercy! but it could not be; and yet—I looked up to heaven, and clasped my hands, and said, 'Our Father.' I said no more—I was too agitated; and now I was almost sure that the horror had done its worst.

After a little time I arose, and staggered down yet farther into the dingle. I again found my little horse on the same spot as before. I put my hand to his mouth—he licked my hand, I flung myself down by him, and put my arms round his neck; the creature whinnied, and appeared to sympathise with me. What a comfort to have any one, even a dumb brute, to sympathise with me at such a moment! I clung to my little horse, as if for safety and protection. I laid my head on his neck, and felt almost calm. Presently the fear returned, but not so wild as before; it subsided, came again, again subsided; then drowsiness came over me, and at last I fell asleep, my head supported on the neck of the little horse. I awoke; it was dark, dark night—not a star was to be seen—but I felt no fear, the horror had left me. I arose from the side of the little horse, and went into my tent, lay down, and again went to sleep.

I awoke in the morning weak and sore, and shuddering at the remembrance of what I had gone through on the preceding day; the sun was shining brightly, but it had not yet risen high enough to show its head above the trees which fenced the eastern side of the dingle, on which account the dingle was wet and dank from the dews of the night. I kindled my fire, and, after sitting by it for some time to warm my frame, I took some of the coarse food which I have already mentioned; notwithstanding my late struggle, and the coarseness of the fare, I ate with appetite. My provisions had by this time been very much diminished, and I saw that it would be speedily necessary, in the event of my continuing to reside in the dingle, to lay in a fresh store. After my meal, I went to the pit and filled a can with water, which I brought to the dingle, and then again sat down on my stone. I considered what I should next do: it was necessary to do something, or my life in this solitude would be insupportable. What should I do? rouse up my forge and fashion a horse-shoe? But I wanted nerve and heart for such an employment; moreover, I had no motive for fatiguing myself in this manner; my own horse was shod, no other was at hand, and it is hard to work for the sake of working. What should I do? read? Yes, but I had no other book than the Bible which the Welsh Methodist had given me. Well, why not read the Bible? I was once fond of reading the Bible; ay, but those days were long gone by. However, I did not see what else I could well do on the present occasion—so I determined to read the Bible—it was in Welsh; at any rate it might amuse me. So I took the Bible out of the sack, in which it was lying in the cart, and began to read at the place where I chanced to open it. I opened it at that part where the history of Saul commences. At first I read with indifference, but after some time my attention was riveted, and no wonder, I had come to the visitations of Saul—those dark moments of his, when he did and said such unaccountable things; it almost appeared to me that I was reading of myself; I, too, had my visitations, dark as ever his were. Oh, how I sympathised with Saul, the tall dark man! I had read his life before, but it had made no impression on me; it had never occurred to me that I was like him; but I now sympathised with Saul, for my own dark hour was but recently passed, and, perhaps, would soon return again; the dark hour came frequently on Saul.

Time wore away; I finished the book of Saul, and, closing the volume, returned it to its place. I then returned to my seat on the stone, and thought of what I had read, and what I had lately undergone. All at once I thought I felt well-known sensations, a cramping of the breast, and a tingling of the soles of the feet; they were what I had felt on the preceding day—they were the forerunners of the fear. I sat motionless on my stone, the sensations passed away, and the fear came not. Darkness was now coming again over the earth; the dingle was again in deep shade; I roused the fire with the breath of the bellows, and sat looking at the cheerful glow; it was cheering and comforting. My little horse came now and lay down on the ground beside the forge; I was not quite deserted. I again ate some of the coarse food, and drank plentifully of the water which I had fetched in the morning. I then put fresh fuel on the fire, and sat for a long time looking on the blaze; I then went into my tent.

I awoke, on my own calculation, about midnight—it was pitch dark, and there was much fear upon me.

 

 

Chapter 85

free and independent—i don't see why—oats—a noise—unwelcome visitors—what's the matter?—good-day to ye—the tall girl—dovrefeld—blow on the face—civil enough—what's this?—vulgar woman—hands off—gasping for breath—long melford—a pretty manœuvre—a long draught—animation—it won't do—no malice—bad people

 

Two mornings after the period to which I have brought the reader in the preceding chapter, I sat by my fire at the bottom of the dingle; I had just breakfasted, and had finished the last morsel of food which I had brought with me to that solitude.

'What shall I now do?' said I to myself; 'shall I continue here, or decamp?—this is a sad lonely spot—perhaps I had better quit it; but whither shall I go? the wide world is before me, but what can I do therein? I have been in the world already without much success. No, I had better remain here; the place is lonely, it is true, but here I am free and independent, and can do what I please; but I can't remain here without food. Well, I will find my way to the nearest town, lay in a fresh supply of provision, and come back, turning my back upon the world, which has turned its back upon me. I don't see why I should not write a little sometimes; I have pens and an ink-horn, and for a writing-desk I can place the Bible on my knee. I shouldn't wonder if I could write a capital satire on the world on the back of that Bible; but, first of all, I must think of supplying myself with food.'

I rose up from the stone on which I was seated, determining to go to the nearest town, with my little horse and cart, and procure what I wanted. The nearest town, according to my best calculation, lay about five miles distant; I had no doubt, however, that, by using ordinary diligence, I should be back before evening. In order to go lighter, I determined to leave my tent standing as it was, and all the things which I had purchased of the tinker, just as they were. 'I need not be apprehensive on their account,' said I to myself; 'nobody will come here to meddle with them—the great recommendation of this place is its perfect solitude—I daresay that I could live here six months without seeing a single human visage. I will now harness my little gry and be off to the town.'

At a whistle which I gave, the little gry, which was feeding on the bank near the uppermost part of the dingle, came running to me, for by this time he had become so accustomed to me that he would obey my call, for all the world as if he had been one of the canine species. 'Now,' said I to him, 'we are going to the town to buy bread for myself and oats for you—I am in a hurry to be back; therefore I pray you to do your best, and to draw me and the cart to the town with all possible speed, and to bring us back; if you do your best, I promise you oats on your return. You know the meaning of oats, Ambrol?'

Ambrol whinnied as if to let me know that he understood me perfectly well, as indeed he well might, as I had never once fed him during the time that he had been in my possession without saying the word in question to him. Now, Ambrol, in the gypsy tongue, signifieth a pear.

So I caparisoned Ambrol, and then, going to the cart, I removed two or three things from it into the tent; I then lifted up the shafts, and was just going to call to the pony to come and be fastened to them, when I thought I heard a noise.

I stood stock still, supporting the shaft of the little cart in my hand, and bending the right side of my face slightly towards the ground, but I could hear nothing; the noise which I thought I had heard was not one of those sounds which I was accustomed to hear in that solitude—the note of a bird, or the rustling of a bough; it was—there I heard it again, a sound very much resembling the grating of a wheel amongst gravel. Could it proceed from the road? Oh no, the road was too far distant for me to hear the noise of anything moving along it. Again I listened, and now I distinctly heard the sound of wheels, which seemed to be approaching the dingle; nearer and nearer they drew, and presently the sound of wheels was blended with the murmur of voices. Anon I heard a boisterous shout, which seemed to proceed from the entrance of the dingle. 'Here are folks at hand,' said I, letting the shaft of the cart fall to the ground; 'is it possible that they can be coming here?'

My doubts on that point, if I entertained any, were soon dispelled; the wheels, which had ceased moving for a moment or two, were once again in motion, and were now evidently moving down the winding path which led to my retreat. Leaving my cart, I came forward and placed myself near the entrance of the open space, with my eyes fixed on the path down which my unexpected, and I may say unwelcome, visitors were coming. Presently I heard a stamping or sliding; as if of a horse in some difficulty; then a loud curse, and the next moment appeared a man and a horse and cart; the former holding the head of the horse up to prevent him from falling, of which he was in danger, owing to the precipitous nature of the path. Whilst thus occupied, the head of the man was averted from me. When, however, he had reached the bottom of the descent, he turned his head, and perceiving me, as I stood bareheaded, without either coat or waistcoat, about two yards from him, he gave a sudden start, so violent that the backward motion of his hand had nearly flung the horse upon his haunches.

'Why don't you move forward?' said a voice from behind, apparently that of a female; 'you are stopping up the way, and we shall be all down upon one another'; and I saw the head of another horse overtopping the back of the cart.

'Why don't you move forward, Jack?' said another voice, also of a female, yet higher up the path.

The man stirred not, but remained staring at me in the posture which he had assumed on first perceiving me, his body very much drawn back, his left foot far in advance of his right, and with his right hand still grasping the halter of the horse, which gave way more and more, till it was clean down on its haunches.

'What's the matter?' said the voice which I had last heard.

'Get back with you, Belle, Moll,' said the man, still staring at me; 'here's something not over canny or comfortable.'

'What is it?' said the same voice; 'let me pass, Moll, and I'll soon clear the way'; and I heard a kind of rushing down the path.

'You need not be afraid,' said I, addressing myself to the man, 'I mean you no harm; I am a wanderer like yourself—come here to seek for shelter—you need not be afraid; I am a Roman chabo by matriculation—one of the right sort, and no mistake—Good-day to ye, brother; I bid ye welcome.'

The man eyed me suspiciously for a moment—then, turning to his horse with a loud curse, he pulled him up from his haunches, and led him and the cart farther down to one side of the dingle, muttering, as he passed me, 'Afraid! Hm!'

I do not remember ever to have seen a more ruffianly-looking fellow; he was about six feet high, with an immensely athletic frame; his face was black and bluff, and sported an immense pair of whiskers, but with here and there a grey hair, for his age could not be much under fifty. He wore a faded blue frock-coat, corduroys, and highlows; on his black head was a kind of red nightcap, round his bull neck a Barcelona handkerchief—I did not like the look of the man at all.

'Afraid!' growled the fellow, proceeding to unharness his horse; 'that was the word, I think.'

But other figures were now already upon the scene. Dashing past the other horse and cart, which by this time had reached the bottom of the pass, appeared an exceedingly tall woman, or rather girl, for she could scarcely have been above eighteen; she was dressed in a tight bodice and a blue stuff gown; hat, bonnet, or cap she had none, and her hair, which was flaxen, hung down on her shoulders unconfined; her complexion was fair, and her features handsome, with a determined but open expression—she was followed by another female, about forty, stout and vulgar-looking, at whom I scarcely glanced, my whole attention being absorbed by the tall girl.

'What's the matter, Jack?' said the latter, looking at the man.

'Only afraid, that's all,' said the man, still proceeding with his work.

'Afraid at what—at that lad? why, he looks like a ghost—I would engage to thrash him with one hand.'

'You might beat me with no hands at all,' said I, 'fair damsel, only by looking at me—I never saw such a face and figure, both regal—why, you look like Ingeborg, Queen of Norway; she had twelve brothers, you know, and could lick them all, though they were heroes:—

 

On Dovrefeld in Norway

Were once together seen

The twelve heroic brothers

Of Ingeborg the queen.'

 

'None of your chaffing, young fellow,' said the tall girl, 'or I will give you what shall make you wipe your face; be civil, or you will rue it.'

'Well, perhaps I was a peg too high,' said I; 'I ask your pardon—here's something a bit lower:—

 

As I was jawing to the gav yeck divvus

I met on the drom miro Rommany chi—'

 

'None of your Rommany chies, young fellow,' said the tall girl, looking more menacingly than before, and clenching her fist; 'you had better be civil, I am none of your chies; and though I keep company with gypsies, or, to speak more proper, half-and-halfs, I would have you to know that I come of Christian blood and parents, and was born in the great house of Long Melford.'

'I have no doubt,' said I, 'that it was a great house; judging from your size I shouldn't wonder if you were born in a church.'

'Stay, Belle,' said the man, putting himself before the young virago, who was about to rush upon me, 'my turn is first'—then, advancing to me in a menacing attitude, he said, with a look of deep malignity, '"Afraid," was the word, wasn't it?'

'It was,' said I, 'but I think I wronged you; I should have said, aghast; you exhibited every symptom of one labouring under uncontrollable fear.'

The fellow stared at me with a look of stupid ferocity, and appeared to be hesitating whether to strike or not: ere he could make up his mind, the tall girl started forward, crying, 'He's chaffing; let me at him'; and before I could put myself on my guard, she struck me a blow on the face which had nearly brought me to the ground.

'Enough,' said I, putting my hand to my cheek; 'you have now performed your promise, and made me wipe my face: now be pacified, and tell me fairly the grounds of this quarrel.'

'Grounds!' said the fellow; 'didn't you say I was afraid; and if you hadn't, who gave you leave to camp on my ground?'

'Is it your ground?' said I.

'A pretty question,' said the fellow; 'as if all the world didn't know that. Do you know who I am?'

'I guess I do,' said I; 'unless I am much mistaken, you are he whom folks call the "Flaming Tinman." To tell you the truth, I'm glad we have met, for I wished to see you. These are your two wives, I suppose; I greet them. There's no harm done—there's room enough here for all of us—we shall soon be good friends, I daresay; and when we are a little better acquainted, I'll tell you my history.'

'Well, if that doesn't beat all!' said the fellow.

'I don't think he's chaffing now,' said the girl, whose anger seemed to have subsided on a sudden; 'the young man speaks civil enough.'

'Civil!' said the fellow, with an oath; 'but that's just like you; with you it is a blow, and all over. Civil! I suppose you would have him stay here, and get into all my secrets, and hear all I may have to say to my two morts.'

'Two morts!' said the girl, kindling up, 'where are they? Speak for one, and no more. I am no mort of yours, whatever some one else may be. I tell you one thing, Black John or Anselo,—for t'other ain't your name,—the same thing I told the young man here, be civil, or you will rue it.'

The fellow looked at the girl furiously, but his glance soon quailed before hers; he withdrew his eyes, and cast them on my little horse, which was feeding amongst the trees. 'What's this?' said he, rushing forward and seizing the animal. 'Why, as I am alive, this is the horse of that mumping villain Slingsby.'

'It's his no longer; I bought it and paid for it.'

'It's mine now,' said the fellow; 'I swore I would seize it the next time I found it on my beat; ay, and beat the master too.'

'I am not Slingsby.'

'All's one for that.'

'You don't say you will beat me?'

'Afraid was the word.'

'I'm sick and feeble.'

'Hold up your fists.'

'Won't the horse satisfy you?'

'Horse nor bellows either.'

'No mercy, then?'

'Here's at you.'

'Mind your eyes, Jack. There, you've got it. I thought so,' shouted the girl, as the fellow staggered back from a sharp blow in the eye; 'I thought he was chaffing at you all along.'

'Never mind, Anselo. You know what to do—go in,' said the vulgar woman, who had hitherto not spoken a word, but who now came forward with all the look of a fury; 'go inapopli; you'll smash ten like he.'

The Flaming Tinman took her advice, and came in bent on smashing, but stopped short on receiving a left-handed blow on the nose.

'You'll never beat the Flaming Tinman in that way,' said the girl, looking at me doubtfully.

And so I began to think myself, when, in the twinkling of an eye, the Flaming Tinman, disengaging himself of his frock-coat, and dashing off his red night-cap, came rushing in more desperately than ever. To a flush hit which he received in the mouth he paid as little attention as a wild bull would have done; in a moment his arms were around me, and in another he had hurled me down, falling heavily upon me. The fellow's strength appeared to be tremendous.

'Pay him off now,' said the vulgar woman. The Flaming Tinman made no reply, but, planting his knee on my breast, seized my throat with two huge horny hands. I gave myself up for dead, and probably should have been so in another minute but for the tall girl, who caught hold of the handkerchief which the fellow wore round his neck, with a grasp nearly as powerful as that with which he pressed my throat.

'Do you call that fair play?' said she.

'Hands off, Belle,' said the other woman; 'do you call it fair play to interfere? hands off, or I'll be down upon you myself.'

But Belle paid no heed to the injunction, and tugged so hard at the handkerchief that the Flaming Tinman was nearly throttled; suddenly relinquishing his hold of me, he started on his feet, and aimed a blow at my fair preserver, who avoided it, but said coolly:—

'Finish t'other business first, and then I'm your woman whenever you like; but finish it fairly—no foul play when I'm by—I'll be the boy's second, and Moll can pick up you when he happens to knock you down.'

The battle during the next ten minutes raged with considerable fury, but it so happened that during this time I was never able to knock the Flaming Tinman down, but on the contrary received six knock-down blows myself. 'I can never stand this,' said I, as I sat on the knee of Belle, 'I am afraid I must give in; the Flaming Tinman hits very hard,' and I spat out a mouthful of blood.

'Sure enough you'll never beat the Flaming Tinman in the way you fight—it's of no use flipping at the Flaming Tinman with your left hand; why don't you use your right?'

'Because I'm not handy with it,' said I; and then getting up, I once more confronted the Flaming Tinman, and struck him six blows for his one, but they were all left-handed blows, and the blow which the Flaming Tinman gave me knocked me off my legs.

'Now, will you use Long Melford?' said Belle, picking me up.

'I don't know what you mean by Long Melford,' said I, gasping for breath.

'Why, this long right of yours,' said Belle, feeling my right arm; 'if you do, I shouldn't wonder if you yet stand a chance.'

And now the Flaming Tinman was once more ready, much more ready than myself. I, however, rose from my second's knee as well as my weakness would permit me. On he came, striking left and right, appearing almost as fresh as to wind and spirit as when he first commenced the combat, though his eyes were considerably swelled, and his nether lip was cut in two; on he came, striking left and right, and I did not like his blows at all, or even the wind of them, which was anything but agreeable, and I gave way before him. At last he aimed a blow which, had it taken full effect, would doubtless have ended the battle, but owing to his slipping, the fist only grazed my left shoulder, and came with terrific force against a tree, close to which I had been driven; before the Tinman could recover himself, I collected all my strength, and struck him beneath the ear, and then fell to the ground completely exhausted; and it so happened that the blow which I struck the Tinker beneath the ear was a right-handed blow.

'Hurrah for Long Melford!' I heard Belle exclaim; 'there is nothing like Long Melford for shortness, all the world over.'

At these words I turned round my head as I lay, and perceived the Flaming Tinman stretched upon the ground apparently senseless. 'He is dead,' said the vulgar woman, as she vainly endeavoured to raise him up; 'he is dead; the best man in all the north country, killed in this fashion, by a boy!' Alarmed at these words, I made shift to get on my feet; and, with the assistance of the woman, placed my fallen adversary in a sitting posture. I put my hand to his heart, and felt a slight pulsation—'He's not dead,' said I, 'only stunned; if he were let blood, he would recover presently.' I produced a penknife which I had in my pocket, and, baring the arm of the Tinman, was about to make the necessary incision, when the woman gave me a violent blow, and, pushing me aside, exclaimed, 'I'll tear the eyes out of your head if you offer to touch him. Do you want to complete your work, and murder him outright, now he's asleep? you have had enough of his blood already.' 'You are mad,' said I, 'I only seek to do him service. Well, if you won't let him be blooded, fetch some water and fling it in his face, you know where the pit is.'

'A pretty manœuvre!' said the woman; 'leave my husband in the hands of you and that limmer, who has never been true to us—I should find him strangled or his throat cut when I came back.' 'Do you go,' said I to the tall girl; 'take the can and fetch some water from the pit.' 'You had better go yourself,' said the girl, wiping a tear as she looked on the yet senseless form of the Tinker; 'you had better go yourself, if you think water will do him good.' I had by this time somewhat recovered my exhausted powers, and, taking the can, I bent my steps as fast as I could to the pit; arriving there, I lay down on the brink, took a long draught, and then plunged my head into the water; after which I filled the can, and bent my way back to the dingle. Before I could reach the path which led down into its depths, I had to pass some way along its side; I had arrived at a part immediately over the scene of the last encounter, where the bank, overgrown with trees, sloped precipitously down. Here I heard a loud sound of voices in the dingle; I stopped, and laying hold of a tree, leaned over the bank and listened. The two women appeared to be in hot dispute in the dingle. 'It was all owing to you, you limmer,' said the vulgar woman to the other; 'had you not interfered, the old man would soon have settled the boy.'

'I'm for fair play and Long Melford,' said the other. 'If your old man, as you call him, could have settled the boy fairly, he might for all I should have cared, but no foul work for me, and as for sticking the boy with our gulleys when he comes back, as you proposed, I am not so fond of your old man or you that I should oblige you in it, to my soul's destruction.' 'Hold your tongue, or I'll—' I listened no farther, but hastened as fast as I could to the dingle. My adversary had just begun to show signs of animation; the vulgar woman was still supporting him, and occasionally cast glances of anger at the tall girl, who was walking slowly up and down. I lost no time in dashing the greater part of the water into the Tinman's face, whereupon he sneezed, moved his hands, and presently looked round him. At first his looks were dull and heavy, and without any intelligence at all; he soon, however, began to recollect himself, and to be conscious of his situation; he cast a scowling glance at me, then one of the deepest malignity at the tall girl, who was still walking about without taking much notice of what was going forward. At last he looked at his right hand, which had evidently suffered from the blow against the tree, and a half-stifled curse escaped his lips. The vulgar woman now said something to him in a low tone, whereupon he looked at her for a moment, and then got upon his legs. Again the vulgar woman said something to him; her looks were furious, and she appeared to be urging him on to attempt something. I observed that she had a clasped knife in her hand. The fellow remained standing for some time as if hesitating what to do; at last he looked at his hand, and, shaking his head, said something to the woman which I did not understand. The tall girl, however, appeared to overhear him, and, probably repeating his words, said, 'No, it won't do; you are right there; and now hear what I have to say,—let bygones be bygones, and let us all shake hands, and camp here, as the young man was saying just now.' The man looked at her, and then, without any reply, went to his horse, which was lying down among the trees, and kicking it up, led it to the cart, to which he forthwith began to harness it. The other cart and horse had remained standing motionless during the whole affair which I have been recounting, at the bottom of the pass. The woman now took the horse by the head, and leading it with the cart into the open part of the dingle, turned both round, and then led them back, till the horse and cart had mounted a little way up the ascent; she then stood still and appeared to be expecting the man. During this proceeding Belle had stood looking on without saying anything; at last, perceiving that the man had harnessed his horse to the other cart, and that both he and the woman were about to take their departure, she said, 'You are not going, are you?' Receiving no answer, she continued: 'I tell you what, both of you, Black John, and you Moll, his mort, this is not treating me over civilly,—however, I am ready to put up with it, and to go with you if you like, for I bear no malice. I'm sorry for what has happened, but you have only yourselves to thank for it. Now, shall I go with you, only tell me?' The man made no manner of reply, but flogged his horse. The woman, however, whose passions were probably under less control, replied, with a screeching tone, 'Stay where you are, you jade, and may the curse of Judas cling to you,—stay with the bit of a mullo whom you helped, and my only hope is that he may gulley you before he comes to be. . . . Have you with us, indeed! after what's past! no, nor nothing belonging to you. Fetch down your mailla go-cart and live here with your chabo.' She then whipped on the horse, and ascended the pass, followed by the man. The carts were light, and they were not long in ascending the winding path. I followed to see that they took their departure. Arriving at the top, I found near the entrance a small donkey-cart, which I concluded belonged to the girl. The tinker and his mort were already at some distance; I stood looking after them for a little time, then taking the donkey by the reins I led it with the cart to the bottom of the dingle. Arrived there, I found Belle seated on the stone by the fireplace. Her hair was all dishevelled, and she was in tears.

'They were bad people,' said she, 'and I did not like them, but they were my only acquaintance in the wide world.'

Monday, 9 December 2024

Saturday, 7 December 2024

Excellent Readings: Sonnet CVIII by William Shakespeare (in English)

What's in the brain that ink may character
Which hath not figured to thee my true spirit?
What's new to speak, what now to register,
That may express my love, or thy dear merit?
Nothing, sweet boy; but yet, like prayers divine,
I must each day say o'er the very same;
Counting no old thing old, thou mine, I thine,
Even as when first I hallowed thy fair name.
So that eternal love in love's fresh case,
Weighs not the dust and injury of age,
Nor gives to necessary wrinkles place,
But makes antiquity for aye his page;
   Finding the first conceit of love there bred,
   Where time and outward form would show it dead.

Friday, 6 December 2024

Friday's Sung Word: "Cachorro Vira-Lata" by Alberto Ribeiro (in Portuguese).

Eu gosto muito de cachorro vagabundo
Que anda sozinho no mundo
Sem coleira e sem patrão
Gosto de cachorro de sarjeta
Que quando escuta a corneta
Sai atrás do batalhão

E por falar em cachorro
Sei que existe lá no morro
Um exemplar
Que muito embora não sambe
Os pés dos malandros lambe
Quando eles vão sambar
E quando o samba está findo
Vira-lata esta latindo a soluçar
Saudoso da batucada
Fica até de madrugada
Cheirando o pó do lugar.

E até mesmo entre os caninos
Diferentes os destinos
Costumam ser
Uns têm jantar e almoço
E outros nem sequer um osso
De lambuja pra roer
E quando passa a carrocinha
A gente logo adivinha a conclusão
O vira-lata, coitado
Que não foi matriculado
Desta vez "virou" sabão!

 

You can listen "Como "Vaes" Você?" sung by Carmen Miranda with the Benedito Lacerda's Regional here.

 

 

You can listen "Como "Vaes" Você?" sung by  Ney Matogrosso here.