Friday 25 October 2024

Friday's Sung Word: "E o Mundo Não Se Acabou!" by Assis Valente (in Potuguese)

Anunciaram e garantiram que o mundo ia se acabar
Por causa disso a minha gente lá de casa começou a rezar
Até disseram que o sol ia nascer antes da madrugada
Por causa disso nessa noite lá no morro não se fez batucada

Acreditei nessa conversa mole,
achei que o mundo ia se acabar
E fui tratando de me despedir
e sem demora fui tratando de aproveitar
Beijei a boca de quem não devia,
peguei na mão de quem não conhecia
Dancei um samba em trajes de maiô
e o tal do mundo não se acabou
 
Chamei um gajo com quem não me dava
e perdoei a sua ingratidão
E festejando o acontecimento
gastei com ele mais de quinhentão
Agora soube que o gajo anda
dizendo coisa que não se passou
Vai ter barulho, vai ter confusão
porque o mundo não se acabou. 

 

You can listen "E o Mundo Não Se Acabou!" sung by Carmen Miranda here

You can listen "E o Mundo Não Se Acabou!" sung by Ney Matogrosso here

 

You can listen "E o Mundo Não Se Acabou!" sung by Ellen Oléria with Fernando César e Regional here

Thursday 24 October 2024

Thursday’s Serial: “ Le avventure di Pinocchio: Storia di un burattino” by Carlo Collodi (in Italian) - IV

 

X. I burattini riconoscono il loro fratello Pinocchio e gli fanno una grandissima festa; ma sul più bello, esce fuori il burattinaio Mangiafoco, e Pinocchio corre il pericolo di fare una brutta fine.

Quando Pinocchio entrò nel teatrino delle marionette, accadde un fatto che destò mezza rivoluzione.

Bisogna sapere che il sipario era tirato su e la commedia era già incominciata.

Sulla scena si vedevano Arlecchino e Pulcinella, che bisticciavano fra di loro e, secondo il solito, minacciavano da un momento all’altro di scambiarsi un carico di schiaffi e di bastonate.

La platea, tutta attenta, si mandava a male dalle grandi risate, nel sentire il battibecco di quei due burattini, che gestivano e si trattavano d’ogni vitupero con tanta verità, come se fossero proprio due animali ragionevoli e due persone di questo mondo.

Quando all’improvviso, che è che non è, Arlecchino smette di recitare, e voltandosi verso il pubblico e accennando colla mano qualcuno in

fondo alla platea, comincia a urlare in tono drammatico:

— Numi del firmamento! sogno o son desto? Eppure quello laggiù è Pinocchio!…

— È Pinocchio davvero! — grida Pulcinella.

— È proprio lui! — strilla la signora Rosaura, facendo capolino di fondo alla scena.

— È Pinocchio! è Pinocchio! — urlano in coro tutti i burattini, uscendo a salti fuori delle quinte. — È Pinocchio! È il nostro fratello Pinocchio! Evviva Pinocchio!…

— Pinocchio, vieni quassù da me, — grida Arlecchino, — vieni a gettarti fra le braccia dei tuoi fratelli di legno! ―

A questo affettuoso invito, Pinocchio spicca un salto, e di fondo alla platea va nei posti distinti; poi con un altro salto, dai posti distinti monta sulla testa del direttore d’orchestra, e di lì schizza sul palcoscenico.

È impossibile figurarsi gli abbracciamenti, gli strizzoni di collo, i pizzicotti dell’amicizia e le zuccate della vera e sincera fratellanza, che Pinocchio ricevè in mezzo a tanto arruffìo degli attori e delle attrici di quella compagnia drammatico-vegetale.

Questo spettacolo era commovente, non c’è che dire: ma il pubblico della platea, vedendo che la commedia non andava più avanti, s’impazientì e prese a gridare: — Vogliamo la commedia! vogliamo la commedia! —

Tutto fiato buttato via, perchè i burattini, invece di continuare la recita, raddoppiarono il chiasso e le grida, e, postosi Pinocchio sulle spalle, se lo portarono in trionfo davanti ai lumi della ribalta.

Allora uscì fuori il burattinaio, un omone così brutto, che metteva paura soltanto a guardarlo. Aveva una barbaccia nera come uno scarabocchio d’inchiostro, e tanto lunga, che gli scendeva dal mento fino a terra: basta dire che, quando camminava se la pestava coi piedi. La sua bocca era larga come un forno, i suoi occhi parevano due lanterne di vetro rosso, col lume acceso di dietro; e con le mani faceva schioccare una grossa frusta, fatta di serpenti e di code di volpe attorcigliate insieme.

All’apparizione inaspettata del burattinaio, ammutolirono tutti: nessuno fiatò più. Si sarebbe sentito volare una mosca. Quei poveri burattini, maschi e femmine, tremavano tutti come tante foglie.

— Perchè sei venuto a mettere lo scompiglio nel mio teatro? — domandò il burattinaio a Pinocchio, con un vocione d’Orco gravemente infreddato di testa.

— La creda, illustrissimo, che la colpa non è stata mia!...

— Basta così! Stasera faremo i nostri conti. —

Difatti, finita la recita della commedia, il burattinaio andò in cucina, dov’egli s’era preparato per cena un bel montone, che girava lentamente infilato nello spiede. E perchè gli mancavano la legna per finirlo di cuocere e di rosolare, chiamò Arlecchino e Pulcinella e disse loro:

— Portatemi di qua quel burattino che troverete attaccato al chiodo. Mi pare un burattino fatto di un legname molto asciutto, e sono sicuro che, a buttarlo sul fuoco, mi darà una bellissima fiammata all’arrosto. —

Arlecchino e Pulcinella da principio esitarono; ma impauriti da un’occhiataccia del loro padrone, obbedirono: e dopo poco tornarono in cucina, portando sulle braccia il povero Pinocchio, il quale, divincolandosi come un’anguilla fuori dell’acqua, strillava disperatamente: — Babbo mio, salvatemi! Non voglio morire, non voglio morire!... —

 

 

XI. Mangiafoco starnutisce e perdona a Pinocchio, il quale poi difende dalla morte il suo amico Arlecchino.

Il burattinaio Mangiafoco (che questo era il suo nome) pareva un uomo spaventoso, non dico di no, specie con quella sua barbaccia nera che, a uso grembiale, gli copriva tutto il petto e tutte le gambe; ma nel fondo poi non era un cattiv’uomo. Prova ne sia, che quando vide portarsi davanti quel povero Pinocchio, che si dibatteva per ogni verso, urlando «Non voglio morire, non voglio morire!», principiò subito a commuoversi e a impietosirsi; e dopo aver resistito un bel pezzo, alla fine non ne potè più, e lasciò andare un sonorosissimo starnuto.

A quello starnuto, Arlecchino, che fin allora era stato afflitto e ripiegato come un salcio piangente, si fece tutto allegro in viso, e chinatosi verso Pinocchio, gli bisbigliò sottovoce:

— Buone nuove, fratello. Il burattinaio ha starnutito, e questo è segno che s’è mosso a compassione per te, e oramai sei salvo. —

Perchè bisogna sapere che, mentre tutti gli uomini quando si sentono impietositi per qualcuno, o piangono, o per lo meno fanno finta di rasciugarsi gli occhi, Mangiafoco, invece, ogni volta che s’inteneriva davvero, aveva il vizio di starnutire. Era un modo come un altro, per dare a conoscere agli altri la sensibilità del suo cuore.

Dopo aver starnutito, il burattinaio, seguitando a fare il burbero, gridò a Pinocchio:

— Finiscila di piangere! I tuoi lamenti mi hanno messo un’uggiolina in fondo allo stomaco.... sento uno spasimo, che quasi quasi.... etcì, etcì! — e fece altri due starnuti.

— Felicità! — disse Pinocchio.

— Grazie. E il tuo babbo e la tua mamma sono sempre vivi? — domandò Mangiafoco.

— Il babbo, sì; la mamma non l’ho mai conosciuta.

— Chi lo sa che dispiacere sarebbe per il tuo vecchio padre, se ora ti facessi gettare fra quei carboni ardenti! Povero vecchio! lo compatisco.... etcì, etcì, etcì, — e fece altri tre starnuti.

— Felicità! — disse Pinocchio.

— Grazie. Del resto bisogna compatire anche me, perchè, come vedi, non ho più legna per finire di cuocere quel montone arrosto, e tu, dico la verità, in questo caso mi avresti fatto un gran comodo! Ma oramai mi sono impietosito e ci vuol pazienza. Invece di te, metterò a bruciare sotto lo spiede qualche burattino della mia compagnia. Olà, giandarmi! —

A questo comando comparvero subito due giandarmi di legno, lunghi lunghi, secchi secchi, col cappello a lucerna in testa e colla sciabola sfoderata in mano.

Allora il burattinaio disse loro con voce rantolosa:

— Pigliatemi lì quell’Arlecchino, legatelo ben bene, e poi gettatelo a bruciare sul fuoco. Io voglio che il mio montone sia arrostito bene! —

Figuratevi il povero Arlecchino! Fu tanto il suo spavento, che le gambe gli si ripiegarono e cadde bocconi per terra.

Pinocchio, alla vista di quello spettacolo straziante, andò a gettarsi ai piedi del burattinaio e piangendo dirottamente e bagnandogli di lacrime tutti i peli della lunghissima barba, cominciò a dire con voce supplichevole:

— Pietà, signor Mangiafoco!...

— Qui non ci son signori! — replicò duramente il burattinaio.

— Pietà, signor Cavaliere!...

— Qui non ci son cavalieri!

— Pietà, signor Commendatore!...

— Qui non ci son commendatori!

— Pietà, Eccellenza!... —

A sentirsi chiamare Eccellenza, il burattinaio fece subito il bocchino tondo, e diventato tutt’a un tratto più umano e più trattabile, disse a Pinocchio:

— Ebbene, che cosa vuoi da me?

— Vi domando grazia per il povero Arlecchino!...

— Qui non c’è grazia che tenga. Se ho risparmiato te, bisogna che faccia mettere sul fuoco lui, perchè io voglio che il mio montone sia arrostito bene.

— In questo caso, — gridò fieramente Pinocchio, rizzandosi e gettando via il suo berretto di midolla di pane, — in questo caso conosco qual è il mio dovere. Avanti, signori giandarmi! Legatemi e gettatemi là fra quelle fiamme. No, non è giusta che il povero Arlecchino, il vero amico mio, debba morire per me!…

Queste parole, pronunziate con voce alta e con accento eroico, fecero piangere tutti i burattini che erano presenti a quella scena. Gli stessi giandarmi, sebbene fossero di legno, piangevano come due agnellini di latte.

Mangiafoco, sul principio, rimase duro e immobile come un pezzo di ghiaccio: ma poi, adagio adagio, cominciò anche lui a commuoversi e a starnutire. E fatti quattro o cinque starnuti, aprì affettuosamente le braccia e disse a Pinocchio:

— Tu sei un gran bravo ragazzo! Vieni qua da me e dammi un bacio. —

Pinocchio corse subito, e arrampicandosi come uno scoiattolo su per la barba del burattinaio, andò a posargli un bellissimo bacio sulla punta del naso.

— Dunque la grazia è fatta? — domandò il povero Arlecchino, con un fil di voce che si sentiva appena.

E arrampicandosi come uno scoiattolo su per la barba del burattinaio....

— La grazia è fatta! — rispose Mangiafoco; poi soggiunse sospirando e tentennando il capo:

— Pazienza! per questa sera mi rassegnerò a mangiare il montone mezzo crudo: ma un’altra volta, guai a chi toccherà!... —

Alla notizia della grazia ottenuta, i burattini corsero tutti sul palcoscenico e, accesi i lumi e i lampadari come in serata di gala, cominciarono a saltare e a ballare.

Era l’alba e ballavano sempre.

 

 

XII. Il burattinaio Mangiafoco regala cinque monete d’oro a Pinocchio perchè le porti al suo babbo Geppetto: e Pinocchio, invece, si lascia abbindolare dalla Volpe e dal Gatto e se ne va con loro.

Il giorno dipoi Mangiafoco chiamò in disparte Pinocchio e gli domandò:

— Come si chiama tuo padre?

— Geppetto.

— E che mestiere fa?

— Il povero.

— Guadagna molto?

— Guadagna tanto quanto ci vuole per non aver mai un centesimo in tasca. Si figuri che per comprarmi l’Abbecedario della scuola dovè vendere l’unica casacca che aveva addosso: una casacca che, fra toppe e rimendi, era tutta una piaga.

— Povero diavolo! Mi fa quasi compassione. Ecco qui cinque monete d’oro. Va’ subito a portargliele, e salutalo tanto da parte mia. —

Pinocchio, come è facile immaginarselo, ringraziò ringraziò mille volte il burattinaio: abbraccio’, a uno a uno, tutti i burattini della compagnia, anche i giandarmi; e fuori di se’ dalla contentezza, si mise in viaggio per ritornarsene a casa sua.

Ma non aveva fatto ancora mezzo chilometro, che incontrò per la strada una Volpe zoppa da un piede e un Gatto cieco da tutt’e due gli occhi, che se ne andavano là là, aiutandosi fra di loro, da buoni compagni di sventura. La Volpe che era zoppa, camminava appoggiandosi al Gatto: e il Gatto, che era cieco, si lasciava guidare dalla Volpe.

— Buon giorno, Pinocchio, — gli disse la Volpe, salutandolo garbatamente.

— Com’è che sai il mio nome? — domandò il burattino.

— Conosco bene il tuo babbo.

— Dove l’hai veduto?

— L’ho veduto ieri sulla porta di casa sua.

— E che cosa faceva?

— Era in maniche di camicia e tremava dal freddo.

— Povero babbo! Ma, se Dio vuole, da oggi in poi non tremerà più!…

— Perchè?

— Perchè io sono diventato un gran signore.

— Un gran signore tu? — disse la Volpe, e cominciò a ridere di un riso sguaiato e canzonatore: e il Gatto rideva anche lui, ma per non darlo a vedere, si pettinava i baffi colle zampe davanti.

— C’è poco da ridere, — gridò Pinocchio impermalito. — Mi dispiace davvero di farvi venire l’acquolina in bocca, ma queste qui, se ve ne intendete, sono cinque bellissime monete d’oro.

E tirò fuori le monete avute in regalo da Mangiafoco.

Al simpatico suono di quelle monete la Volpe, per un moto involontario, allungò la gamba che pareva rattrappita, e il Gatto spalancò tutt’e due gli occhi, che parvero due lanterne verdi; ma poi li richiuse subito, tant’è vero che Pinocchio non si accòrse di nulla.

— E ora, — gli domandò la Volpe, — che cosa vuoi farne di codeste monete?

— Prima di tutto, — rispose il burattino, — voglio comprare per il mio babbo una bella casacca nuova, tutta d’oro e d’argento e coi bottoni di brillanti: e poi voglio comprare un Abbecedario per me.

— Per te?

— Davvero: perchè voglio andare a scuola e mettermi a studiare a buono.

— Guarda me! — disse la Volpe. — Per la passione sciocca di studiare ho perduto una gamba.

— Guarda me! — disse il Gatto. — Per la passione sciocca di studiare ho perduto la vista di tutti e due gli occhi.

In quel mentre un Merlo bianco, che se ne stava appollaiato sulla siepe della strada, fece il solito verso e disse:

— Pinocchio, non dar retta ai consigli dei cattivi compagni: se no, te ne pentirai!

Povero Merlo, non l’avesse mai detto! Il Gatto, spiccando un gran salto, gli si avventò addosso, e senza dargli nemmeno il tempo di dire ohi, se lo mangiò in un boccone con le penne e tutto.

Mangiato che l’ebbe e ripulitosi la bocca, chiuse gli occhi daccapo e ricominciò a fare il cieco come prima.

— Povero Merlo! — disse Pinocchio al Gatto — perchè l’hai trattato così male?

— Ho fatto per dargli una lezione. Così un’altra volta imparerà a non metter bocca nei discorsi degli altri.—

Erano giunti più che a mezza strada, quando la Volpe, fermandosi di punto in bianco, disse al burattino:

— Vuoi tu raddoppiare le tue monete d’oro?

— Cioè?

— Vuoi tu, di cinque miserabili zecchini, farne cento, mille, duemila?

— Magari! e la maniera?

— La maniera è facilissima. Invece di tornartene a casa tua, dovresti venir con noi.

— E dove mi volete condurre?

— Nel paese dei Barbagianni. ―

Pinocchio ci pensò un poco, e poi disse risolutamente:

— No, non ci voglio venire. Oramai sono vicino a casa, e voglio andarmene a casa, dove c’è il mio babbo che m’aspetta. Chi lo sa, povero vecchio, quanto ha sospirato ieri, a non vedermi tornare. Purtroppo io sono stato un figliuolo cattivo, e il Grillo-parlante aveva ragione quando diceva: «I ragazzi disobbedienti non possono aver bene in questo mondo.» Ed io l’ho provato a mie spese, perchè mi sono capitate molte disgrazie, e anche ieri sera in casa di Mangiafoco, ho corso pericolo… Brrr! mi viene i bordoni soltanto a pensarci!

— Dunque, — disse la Volpe — vuoi proprio andare a casa tua? Allora va’ pure, e tanto peggio per te.

— Tanto peggio per te! — ripetè il Gatto.

— Pensaci bene, Pinocchio, perchè tu dài un calcio alla fortuna.

— Alla fortuna! — ripetè il Gatto.

— I tuoi cinque zecchini, dall’oggi al domani sarebbero diventati duemila.

— Duemila! — ripetè il Gatto.

— Ma com’è mai possibile che diventino tanti? — domandò Pinocchio, restando a bocca aperta dallo stupore.

— Te lo spiego subito; — disse la Volpe — bisogna sapere che nel paese dei Barbagianni c’è un campo benedetto chiamato da tutti il Campo dei miracoli. Tu fai in questo campo una piccola buca e ci metti dentro, per esempio, uno zecchino d’oro. Poi ricopri la buca con un po’ di terra: l’annaffi con due secchie d’acqua di fontana, ci getti sopra una presa di sale, e la sera te ne vai tranquillamente a letto. Intanto, durante la notte, lo zecchino germoglia e fiorisce, e la mattina dopo di levata, ritornando nel campo, che cosa trovi? Trovi un bell’albero carico di tanti zecchini d’oro quanti chicchi di grano può avere una bella spiga nel mese di giugno.

— Sicchè dunque — disse Pinocchio sempre più sbalordito — se io sotterrassi in quel campo i miei cinque zecchini, la mattina dopo quanti zecchini vi troverei?

— È un conto facilissimo; — rispose la Volpe — un conto che puoi farlo sulla punta delle dita.

Poni che ogni zecchino ti faccia un grappolo di cinquecento zecchini: moltiplica il cinquecento per cinque, e la mattina dopo trovi in tasca duemilacinquecento zecchini lampanti e sonanti.

— Oh che bella cosa! — gridò Pinocchio, ballando dall’allegrezza. — Appena che questi zecchini li avrò raccolti, ne prenderò per me duemila e gli altri cinquecento di più li darò in regalo a voialtri due.

— Un regalo a noi? — gridò la Volpe sdegnandosi e chiamandosi offesa. — Dio te ne liberi!

— Te ne liberi! — ripetè il Gatto.

— Noi — riprese la Volpe — non lavoriamo per il vile interesse: noi lavoriamo per arricchire gli altri.

— Gli altri! — ripetè il Gatto.

— Che brave persone! — pensò dentro di sè Pinocchio: e dimenticandosi lì sul tamburo, del suo babbo, della casacca nuova, dell’Abbecedario e di tutti i buoni proponimenti fatti, disse alla Volpe e al Gatto:

— Andiamo subito, io vengo con voi. ―

Wednesday 23 October 2024

Wednesday's Good Reading: “Tolerância Zero” by Olavo de Carvalho (in Portuguese)

 

Época, 28 de outubro de 2000

Quanto menos são os que falam contra o comunismo, menos têm o direito de falar

Em periódicos regionais, alguns jornalistas denunciam a opressiva hegemonia que os comunistas conquistaram em nossa imprensa e nos meios acadêmicos. Em publicações de alcance nacional, tenho sido o único a tocar no assunto proibido. A extensão e o rigor da proibição podem ser medidos pela virulência insana de certas reações que suscito. Nada de argumentos, é claro. São insultos, intrigas, inculpações projetivas, apelos sumários a minha demissão. Deixam claro que, contra a ascensão esquerdista, nem uma única voz, por fraca e isolada que seja, pode ser tolerada. A concordância deve ser unânime, o silêncio da oposição, total. Precioso silêncio: Gramsci ensina que, na hora H, ele acabará valendo como aprovação popular da tomada do poder pelos comunistas. É preciso, portanto, produzi-lo, antes que a revolução possa tirar a máscara democrática e mostrar sua face hedionda, quando as fronteiras estiverem fechadas e for tarde para fugir. No Rio Grande do Sul, imagem e projeto do futuro Brasil petista, os principais jornalistas de oposição já foram calados por pressão do governo estadual.

Tal é a diferença entre o mero autoritarismo e o totalitarismo. O primeiro contentava-se em calar a maioria, deixando abertas umas válvulas de escape. O segundo exige a plenitude do silêncio, expressa na fórmula sinistra: para a minoria de um, tolerância zero.

O mais extraordinário é que muitos artífices desse estado de coisas proclamam que não são comunistas. Se não são, por que não suportam que alguém fale contra o comunismo?

Se um sujeito diz que não é comunista, mas vê a sociedade com olhos marxistas, prega a luta de classes e admite chegar ao poder pelo uso das armas, o que se pode concluir senão que ele é – ou sonha ser quando crescer – um fac-símile de Fidel Castro? Não obstante, o senhor João Pedro Stedile, por exemplo, entre uma inspeção e outra em seus campos de treinamento de guerrilheiros, assegura, com ar de inocência, que não é sequer esquerdista no sentido mais genérico da palavra.

O mais velho ardil do diabo é dizer que não existe; o do comunismo, jurar que é outra coisa. Em plena revolução chinesa, intelectuais pontificavam que Mao Tsé-tung nada tinha de comunista. Franklin Roosevelt declarou que o próprio Stálin não era comunista. E a imprensa chique de Nova York impôs ao mundo a imagem de um Fidel democrata e anticomunista.

Não há limites para a volúpia comunista de mentir. Comparável a ela, só sua volúpia de matar. Fidel, por exemplo, é um assassino vocacional que começou a carreira matando um político que mal conhecia, contra o qual não tinha nada, só para cortejar um inimigo da vítima, de quem esperava obter favores. E não faltam padres para nos assegurar, com a conveniente unção e o indefectível trémolo sacerdotal na voz, que se trata de um santo homem, que o regime do qual um sexto da população cubana fugiu não é o comunismo, mas o catolicismo. Deve ser mesmo, a julgar pelo rigor dos anátemas que lança sobre os hereges.

Saturday 19 October 2024

“Oração do Amor” by Saint Rosa of Lima (translated into Portuguese)

 

“Meu Senhor Jesus Cristo, Deus e homem verdadeiro, meu criador e redentor, pesa-me vos ter ofendido por ser Vós quem sois e porque vos amo acima de todas as coisas.

Meu Deus e verdadeiro Esposo de minha alma, alegria de meu coração.

Eu quero vos amar, benigníssimo Jesus, com aquele perfeitíssimo amor, eficacíssimo amor, verdadeiríssimo amor, inefabilíssimo amor, intensíssimo amor, incomparável amor, incompreensível amor, indiscutível amor, invencível amor, com que todos os cortesãos do Céu vos amam.

E mais gostaria de vos amar, Deus de meu coração e de minha vida. Gostaria de vos amar, minha dádiva, tanto como vos amou a vossa Santíssima Mãe e Senhora minha, Virgem Puríssima.

E mais gostaria de vos amar, saúde e alegria minha e de minha alma. Gostaria de vos amar tanto, meu Deus, com vós me amais.

E ao vos amar, eu me abrase, eu me desfaça, eu me consuma no fogo de vosso divino amor, benigníssimo Jesus.”

Friday 18 October 2024

Friday's Sung Word: "Na Baixa do Sapateiro" by Ary Barroso (in Potuguese)

Released in 1938, Na Baixa do Sapateiro did not achieve the expected success, which is why Ary Barroso decided to make some changes to the lyrics and melody around 1942. A few pronouns and verb tenses were altered, and a slower rhythm turned the song into a classic. 

The reworked song was released in 1942, performed by Sílvio Caldas.

In 1944, Walt Disney chose Na Baixa do Sapateiro to feature in his film The Three Caballeros under the tittle of Bahia.

( Severiano, Jairo, and Zuza Homem de Mello, eds. A Canção no Tempo: Vol. 1. São Paulo: Editora 34; Discografia Brasileira - IMS, Instituto Moreira Salles, n.d.)

 

Ai, o amô, ai, ai!
Amô bobagem que a gente não explica, ai, ai!
Prova um bocadinho, oi
Fica envenenado, oi
E pro resto da vida
É um tal de sofrer
Oilará, oilerê

Oi, Bahia, ai, ai!
Bahia que não me sai do pensamento, oi!
Faço o meu lamento, oi
Na desesperança,
De encontrar nesse mundo
O amor que eu perdi na Bahia -
Vou contar

Na Baixa do Sapateiro,
encontrei um dia
A morena mais frajola da Bahia
Pediu-lhe um beijo não deu,
Um abraço,
Sorriu
Pediu-lhe a mão, não quis dar -
Fugiu!

Bahia! Terra da felicidade!
Morena,
Eu ando louco de saudade!
Meu Senhor do Bonfim,
Arranje outra morena
Igualzinha pra mim. 

 

You can listen "Na Baixa do Sapateiro" sung by Sílvio Caldas here.

Link to the previous version of  "Na Baixa do Sapateiro"here.

Thursday 17 October 2024

Thursday’s Serial: “ Le avventure di Pinocchio: Storia di un burattino” by Carlo Collodi (in Italian) - III

VII. Geppetto torna a casa, e dà al burattino la colazione che il pover’uomo aveva portata per sè.

Il povero Pinocchio, che aveva sempre gli occhi fra il sonno, non s’era ancora avvisto dei piedi, che gli si erano tutti bruciati: per cui appena sentì la voce di suo padre, schizzò giù dallo sgabello per correre a tirare il paletto; ma invece, dopo due o tre traballoni, cadde di picchio tutto lungo disteso sul pavimento.

E nel battere in terra fece lo stesso rumore, che avrebbe fatto un sacco di mestoli, cascato da un quinto piano.

— Aprimi! — intanto gridava Geppetto dalla strada.

— Babbo mio, non posso, — rispondeva il burattino piangendo e ruzzolandosi per terra.

— Perchè non puoi?

— Perchè mi hanno mangiato i piedi.

— E chi te li ha mangiati?

— Il gatto, — disse Pinocchio, vedendo il gatto che colle zampine davanti si divertiva a far ballare alcuni trucioli di legno.

— Aprimi, ti dico! — ripetè Geppetto — se no, quando vengo in casa, il gatto te lo do io!

— Non posso star ritto, credetelo. Oh! Povero me! povero me, che mi toccherà a camminare coi ginocchi per tutta la vita.―

Geppetto, credendo che tutti questi piagnistei fossero un’altra monelleria del burattino, pensò bene di farla finita; e arrampicatosi su per il muro, entrò in casa dalla finestra.

Da principio voleva dire e voleva fare; ma poi, quando vide il suo Pinocchio sdraiato in terra e rimasto senza piedi davvero, allora sentì intenerirsi; e presolo subito in collo si dette a baciarlo e a fargli mille carezze e mille moine, e, coi lucciconi che gli cascavano giù per le gote, gli disse singhiozzando:

— Pinocchiuccio mio! Com’è che ti sei bruciato i piedi?

— Non lo so, babbo, ma credetelo che è stata una nottata d’inferno, e me ne ricorderò fin che campo. Tonava, balenava e io avevo una gran fame, e allora il Grillo-parlante mi disse: «Ti sta bene: sei stato cattivo e te lo meriti», e io gli dissi: «Bada, Grillo!…» e lui mi disse: «Tu sei un burattino e hai la testa di legno» e io gli tirai un manico di martello, e lui morì, ma la colpa fu sua, perchè io non volevo ammazzarlo, prova ne sia, che messi un tegamino sulla brace accesa del caldano, ma il pulcino scappò fuori e disse: «Arrivedella,... e tanti saluti a casa.» E la fame cresceva sempre, motivo per cui quel vecchino col berretto da notte, affacciandosi alla finestra mi disse: «Fàtti sotto e para il cappello» e io con quella catinellata d’acqua sul capo, perchè il chiedere un po’ di pane non è vergogna, non è vero? me ne tornai subito a casa, e perchè avevo sempre una gran fame, messi i piedi sul caldano per rasciugarmi, e voi siete tornato, e me li sono trovati bruciati, e intanto la fame l’ho sempre e i piedi non li ho più! ih!... ih!... ih!... ih!... ―

E il povero Pinocchio cominciò a piangere e a berciare così forte, che lo sentivano da cinque chilometri lontano.

Geppetto, che di tutto quel discorso arruffato aveva capito una cosa sola, cioè che il burattino sentiva morirsi dalla gran fame, tirò fuori di tasca tre pere, e porgendogliele, disse:

— Queste tre pere erano per la mia colazione: ma io te le do volentieri. Mangiale, e buon pro ti faccia.

— Se volete che le mangi, fatemi il piacere di sbucciarle.

— Sbucciarle? — replicò Geppetto meravigliato. — Non avrei mai creduto, ragazzo, mio, che tu fossi così boccuccia e così schizzinoso di palato. Male! In questo mondo, fin da bambini, bisogna avvezzarsi abboccati e a saper mangiare di tutto, perchè non si sa mai quel che ci può capitare. I casi son tanti!...

— Voi direte bene, — soggiunse Pinocchio, — ma io non mangerò mai una frutta, che non sia sbucciata. Le bucce non le posso soffrire. ―

E quel buon uomo di Geppetto, cavato fuori un coltellino, e armatosi di santa pazienza, sbucciò le tre pere, e pose tutte le bucce sopra un angolo della tavola.

Quando Pinocchio in due bocconi ebbe mangiata la prima pera, fece l’atto di buttar via il torsolo; ma Geppetto gli trattenne il braccio, dicendogli:

— Non lo buttar via: tutto in questo mondo può far comodo.

— Ma io il torsolo non lo mangio davvero!... — gridò il burattino rivoltandosi come una vipera.

— Chi lo sa! I casi son tanti!... — ripetè Geppetto, senza riscaldarsi.

Fatto sta che i tre torsoli, invece di essere gettati fuori dalla finestra, vennero posati sull’angolo della tavola in compagnia delle bucce.

Mangiate, o, per dir meglio, divorate le tre pere, Pinocchio fece un lunghissimo sbadiglio e disse piagnucolando:

— Ho dell’altra fame!

— Ma io, ragazzo mio, non ho più nulla da darti.

— Proprio nulla, nulla?

— Ci avrei soltanto queste bucce e questi torsoli di pera.

— Pazienza! — disse Pinocchio — se non c’è altro, mangerò una buccia. —

E cominciò a masticare. Da principio storse un po’ la bocca: ma poi, una dietro l’altra, spolverò in un soffio tutte le bucce; e dopo le bucce, anche i torsoli, e quand’ebbe finito di mangiare ogni cosa, si battè tutto contento le mani sul corpo, e disse gongolando:

— Ora sì, che sto bene!

— Vedi, dunque, — osservò Geppetto — che avevo ragione io quando ti dicevo che non bisogna avvezzarsi nè troppo sofistici nè troppo delicati di palato. Caro mio, non si sa mai quel che ci può capitare in questo mondo. I casi son tanti!... —

 

 

VIII. Geppetto rifà i piedi a Pinocchio e vende la propria casacca per comprargli l’Abbecedario.

Il burattino, appena che si fu levata la fame, cominciò subito a bofonchiare e a piangere, perchè voleva un paio di piedi nuovi.

Lo lasciò piangere e disperarsi per una mezza giornata.

Ma Geppetto, per punirlo della monelleria fatta lo lasciò piangere e disperarsi per una mezza giornata; poi gli disse:

— E perchè dovrei rifarti i piedi? Forse per vederti scappar di nuovo da casa tua?

— Vi prometto, — disse il burattino singhiozzando, — che da oggi in poi sarò buono…

— Tutti i ragazzi — replicò Geppetto, — quando vogliono ottenere qualcosa, dicono così.

— Vi prometto che anderò a scuola, studierò e mi farò onore…

— Tutti i ragazzi, quando vogliono ottenere qualcosa, ripetono la medesima storia.

— Ma io non sono come gli altri ragazzi! Io sono più buono di tutti e dico sempre la verità. Vi prometto, babbo, che imparerò un’arte, e che sarò la consolazione e il bastone della vostra vecchiaia. —

Geppetto che, sebbene facesse il viso di tiranno, aveva gli occhi pieni di pianto e il cuore grosso dalla passione di vedere il suo povero Pinocchio in quello stato compassionevole, non rispose altre parole: ma, presi in mano gli arnesi del mestiere e due pezzetti di legno stagionato, si pose a lavorare di grandissimo impegno.

E in meno d’un’ora, i piedi erano bell’e fatti; due piedini svelti, asciutti e nervosi, come se fossero modellati da un artista di genio.

Allora Geppetto disse al burattino:

— Chiudi gli occhi e dormi! —

E Pinocchio chiuse gli occhi e fece finta di dormire. E nel tempo che si fingeva addormentato, Geppetto con un po’ di colla sciolta in un guscio d’uovo gli appiccicò i due piedi al loro posto, e glieli appiccicò così bene, che non si vedeva nemmeno il segno dell’attaccatura.

Appena il burattino si accorse di avere i piedi, saltò giù dalla tavola dove stava disteso, e principiò a fare mille sgambetti e mille capriòle, come se fosse ammattito dalla gran contentezza.

— Per ricompensarvi di quanto avete fatto per me — disse Pinocchio al suo babbo — voglio subito andare a scuola.

— Bravo ragazzo.

— Ma per andare a scuola ho bisogno d’un po’ di vestito. —

Geppetto, che era povero e non aveva in tasca nemmeno un centesimo, gli fece allora un vestituccio di carta fiorita, un paio di scarpe di scorza d’albero e un berrettino di midolla di pane.

Pinocchio corse subito a specchiarsi in una catinella piena d’acqua e rimase così contento di sè, che disse pavoneggiandosi:

— Paio proprio un signore!

— Davvero; — replicò Geppetto, — perchè, tienlo a mente, non è il vestito bello che fa il signore, ma è piuttosto il vestito pulito.

— A proposito, — soggiunse il burattino, — per andare alla scuola mi manca sempre qualcosa: anzi mi manca il più e il meglio.

— Cioè?

— Mi manca l’Abbecedario.

— Hai ragione: ma come si fa per averlo?

— È facilissimo: si va da un libraio e si compra.

— E i quattrini?

— Io non ce l’ho.

— Nemmeno io, — soggiunse il buon vecchio, facendosi tristo.

E Pinocchio, sebbene fosse un ragazzo allegrissimo, si fece tristo anche lui: perchè la miseria, quando è miseria davvero, la intendono tutti: anche i ragazzi.

— Pazienza! — gridò Geppetto tutt’a un tratto rizzandosi in piedi; e infilatasi la vecchia casacca di fustagno, tutta toppe e rimendi, uscì correndo di casa.

Dopo poco tornò: e quando tornò aveva in mano l’Abbecedario per il figliuolo, ma la casacca non l’aveva più. Il pover’uomo era in maniche di camicia, e fuori nevicava.

— E la casacca, babbo?

— L’ho venduta.

— Perchè l’avete venduta?

— Perchè mi faceva caldo.―

Pinocchio capì questa risposta a volo, e non potendo frenare l’impeto del suo buon cuore, saltò al collo di Geppetto e cominciò a baciarlo per tutto il viso.

 

 

IX. Pinocchio vende l’Abbecedario per andare a vedere il teatrino dei burattini.

Smesso che fu di nevicare, Pinocchio col suo bravo Abbecedario nuovo sotto il braccio, prese la strada che menava alla scuola: e strada facendo, fantasticava nel suo cervellino mille ragionamenti e mille castelli in aria, uno più bello dell’altro.

E discorrendo da sè solo, diceva:

— Oggi, alla scuola, voglio subito imparare a leggere: domani poi imparerò a scrivere, e domani l’altro imparerò a fare i numeri. Poi, colla mia abilità, guadagnerò molti quattrini e coi primi quattrini che mi verranno in tasca, voglio subito fare al mio babbo una bella casacca di panno.

Ma che dico di panno? Gliela voglio fare tutta d’argento e d’oro, e coi bottoni di brillanti. E quel pover’uomo se la merita davvero: perchè, insomma, per comprarmi i libri e per farmi istruire, è rimasto in maniche di camicia.... a questi freddi! Non ci sono che i babbi che sieno capaci di certi sacrifizi!... —

Mentre tutto commosso diceva così, gli parve di sentire in lontananza una musica di pifferi e di colpi di grancassa: pì-pì-pì, pì-pì-pì, zum, zum, zum, zum.

Si fermò e stette in ascolto. Quei suoni venivano di fondo a una lunghissima strada traversa, che conduceva a un piccolo paesetto fabbricato sulla spiaggia del mare.

— Che cosa sia questa musica? Peccato che io debba andare a scuola, se no.... —

E rimase lì perplesso. A ogni modo, bisognava prendere una risoluzione; o a scuola, o a sentire i pifferi.

— Oggi anderò a sentire i pifferi, e domani a scuola. Per andare a scuola c’è sempre tempo — disse finalmente quel monello, facendo una spallucciata.

Detto fatto, infilò giù per la strada traversa e cominciò a correre a gambe. Più correva e più sentiva distinto il suono dei pifferi e dei tonfi della grancassa: pì-pì-pì, pì-pì-pì, pì-pì-pì, zum, zum, zum, zum.

Quand’ecco che si trovò in mezzo a una piazza tutta piena di gente, la quale si affollava intorno a un gran baraccone di legno e di tela dipinta di mille colori.

— Che cos’è quel baraccone? — domandò

Pinocchio, voltandosi a un ragazzetto che era lì del paese.

— Leggi il cartello, che c’è scritto, e lo saprai.

— Lo leggerei volentieri, ma per l’appunto oggi non so leggere.

— Bravo bue! Allora te lo leggerò io. Sappi dunque che in quel cartello a lettere rosse come il fuoco, c’è scritto: Gran Teatro dei Burattini....

— È molto che è incominciata la commedia?

— Comincia ora.

— E quanto si spende per entrare?

— Quattro soldi. —

Pinocchio, che aveva addosso la febbre della curiosità, perse ogni ritegno e disse, senza vergognarsi, al ragazzetto col quale parlava:

— Mi daresti quattro soldi fino a domani?

— Te li darei volentieri, — gli rispose l’altro canzonandolo — ma oggi per l’appunto non te li posso dare.

— Per quattro soldi, ti vendo la mia giacchetta — gli disse allora il burattino.

— Che vuoi che mi faccia di una giacchetta di carta fiorita? Se ci piove su, non c’è più verso di cavarsela da dosso.

— Vuoi comprare le mie scarpe?

— Sono buone per accendere il fuoco.

— Quanto mi dài del berretto?

— Bell’acquisto davvero! Un berretto di midolla di pane! C’è il caso che i topi me lo vengano a mangiare in capo!―

Pinocchio era sulle spine. Stava lì lì per fare un’ultima offerta: ma non aveva coraggio; esitava, tentennava, pativa. Alla fine disse:

— Vuoi darmi quattro soldi di quest’Abbecedario nuovo?

— Io sono un ragazzo, e non compro nulla dai ragazzi, — gli rispose il suo piccolo interlocutore, che aveva molto più giudizio di lui.

— Per quattro soldi l’Abbecedario lo prendo io, — gridò un rivenditore di panni usati, che s’era trovato presente alla conversazione.

E il libro fu venduto lì sui due piedi. E pensare che quel pover’uomo di Geppetto era rimasto a casa, a tremare dal freddo in maniche di camicia, per comprare l’Abbecedario al figliuolo!